ll Teatro Grande Valdocco si tira indietro e sbarra le porte ai docenti D’Orsi e Barbero che parlano di pace e disarmo
ll Teatro Grande Valdocco si tira indietro e sbarra le porte ai docenti D’Orsi e Barbero che parlano di pace e disarmo
D’Orsi racconta che, dopo settimane di preparazione e “giunti alla firma di un regolare contratto dopo una lunga gestazione”, la proprietà del teatro ha comunicato improvvisamente che lo spazio non sarebbe più stato concesso. Una decisione unilaterale, motivata da argomentazioni che lo storico definisce senza esitazioni “pretestuose”, al punto da aver già attivato il proprio team legale per una richiesta di risarcimento.
Il punto, tuttavia, non è la disputa contrattuale. L’episodio appare come un tassello di una tendenza molto più ampia: la compressione degli spazi di libertà nel contesto sociale e culturale italiano. Non a caso D’Orsi osserva come la vicenda confermi le sue più profonde preoccupazioni. *“Non possiamo non rilevare che il fatto conferma perfettamente le nostre preoccupazioni sulla limitazione degli spazi di libertà nel Paese e in generale l’inquietante deriva politica e culturale di una democrazia ormai palesemente illiberale, a dispetto della facciata”*, afferma.
La scelta di impedire una discussione pubblica sulla libertà accademica, sulla manipolazione dell’informazione in tempi di guerra e sulle pressioni subite dal mondo della cultura diventa così, paradossalmente, la conferma vivente dei temi che l’incontro avrebbe dovuto affrontare. I nomi che avevano aderito – da Luciano Canfora a Carlo Rovelli, da Donatella Di Cesare a Moni Ovadia, da Marco Revelli a Vauro, fino a Elena Basile e Alessandro Di Battista – testimoniano che il dibattito non era un episodio marginale: rappresentava un momento di confronto civile, un esercizio di democrazia reale.
C’è, nelle parole del professore, un richiamo alla responsabilità collettiva. Rivolge un pensiero sia al pubblico che aveva prenotato i posti, sia ai molti intellettuali che avevano garantito la loro presenza. E lancia un appello che va oltre la sua vicenda personale: *“Ancora una volta non si tratta solo di Angelo d’Orsi, ma di coloro che, esponendosi in prima persona, mirano semplicemente a esprimere il loro pensiero anche quando esso non sia ‘in linea’ con quello dei poteri forti, palesi o occulti che siano”*.
In un Paese in cui il conflitto internazionale viene spesso raccontato in forma semplificata e binaria, e in cui l’informazione tende a uniformarsi alle narrazioni dominanti, il bisogno di un autentico pluralismo diventa sempre più urgente. Non si tratta di condividere o meno le tesi di chi critica le politiche di guerra, la subordinazione culturale dell’Europa, la marginalizzazione del dissenso. Si tratta di difendere il diritto di porre domande, di argomentare, di dissentire.
D’Orsi annuncia che l’evento si terrà comunque, in un luogo alternativo che verrà comunicato presto. Ma soprattutto invita tutti a non lasciare che questa decisione arbitraria passi sotto silenzio. “Alle 18 del 9 dicembre faremo un sit-in di protesta davanti alla sede del Comune di Torino”, afferma, spiegando che il presidio avverrà in un luogo simbolico: una città medaglia d’oro della Resistenza, la città di Gramsci, Gobetti, Bobbio, Cottino. Una città che dovrebbe essere, nelle sue parole, “di tutti, e deve essere di tutti”.
Il caso non riguarda solo un evento annullato. È uno specchio del nostro tempo: un tempo in cui la guerra non si combatte soltanto sui fronti militari, ma anche su quelli dell’informazione, della memoria, della cultura. Un tempo in cui la democrazia o si difende insieme – nello spazio pubblico, nelle piazze, nei teatri, nelle scuole – oppure rischia di diventare un involucro vuoto.
Ed è proprio per questo che l’appello del professor D’Orsi risuona con forza: difendere la libertà di pensiero non è un atto individuale, ma un compito collettivo.
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