Dieci anni dopo “Giornalismo di Pace”: l’eredità viva di Nanni Salio in un mondo ancora ferito.

 

Dieci anni dopo “Giornalismo di Pace”: l’eredità viva di Nanni Salio in un mondo ancora ferito.

di Laura Tussi


A dieci anni dalla pubblicazione di Giornalismo di Pace, il volume curato da Nanni Salio e Silvia De Michelis per le Edizioni Gruppo Abele, quell’esperienza collettiva di studio e di impegno torna oggi con una forza sorprendentemente attuale. Erano gli anni di un mondo che sembrava già attraversato da conflitti permanenti, crisi geopolitiche e manipolazioni mediatiche; eppure, se possibile, il decennio successivo ha mostrato con drammatica chiarezza quanto le intuizioni racchiuse in quel libro anticipassero il presente.

Il progetto editoriale nacque come opera postuma di Giovanni “Nanni” Salio, fondatore del Centro Studi Sereno Regis e figura di riferimento del Movimento Nonviolento italiano. La sua scomparsa nel 2016 non interruppe il suo lavoro: al contrario, *Giornalismo di Pace* divenne una sorta di testamento scientifico e politico, un’eredità condivisa con studiosi e attivisti come Johan Galtung, Stuart Allan, Birgit Brock-Utne, Jake Lynch, Dov Shinar ed Elissa J. Tivona. Fu il tentativo – lucido, rigoroso e militante – di offrire strumenti nuovi per leggere la violenza del mondo e, soprattutto, per trasformarla.

Negli anni in cui uscì il libro, la guerra era già diventata una cornice narrativa onnipresente nell’informazione: non un’eccezione, ma un linguaggio, una lente, spesso un profitto. I media, scrivevano gli autori, funzionavano sempre più come “armi di disinformazione di massa”, alimentati dagli interessi nazionali e dalle logiche di potere. Contro questa deriva, Salio e i suoi collaboratori proposero un modello radicalmente diverso: il Giornalismo di Pace, elaborato in particolare da Galtung, capace di leggere i conflitti andando alla radice delle loro cause, delle loro contraddizioni e delle possibilità concrete di trasformazione nonviolenta.

Non si trattava – e non si tratta – di un giornalismo consolatorio o disattento alla sofferenza. Al contrario: l’obiettivo era e rimane quello di fornire documentazione solida, casi di studio rigorosi e un approccio informativo capace di illuminare non solo l’orrore della guerra, ma anche i germogli della pace, le realtà sociali e comunitarie che costruiscono soluzioni, creatività, armonia. È l’idea di “pace positiva”: non la semplice assenza delle armi, ma un ecosistema in cui la cooperazione, l’empatia, la riconciliazione e la giustizia incidono sulla qualità della vita delle persone e dei territori.

In questo senso, *Giornalismo di Pace* divenne già allora una bussola. Le sue pagine descrivevano come un approccio nonviolento alla comunicazione potesse contribuire ad “indebolire le fonti della violenza e rafforzare la realtà positiva”, per usare le parole di Galtung. E, citando un passaggio di Salio diventato emblematico, il libro richiamava l’esperienza sudafricana della commissione verità e riconciliazione come modello universale da replicare nei luoghi feriti dal conflitto: dal Rwanda ai Balcani, dalla Palestina all’Irlanda, ai Paesi Baschi.

Oggi, alla luce di guerre che insanguinano il pianeta e di una disinformazione sempre più sistemica, quelle riflessioni sembrano scritte per il nostro tempo. La logica del “terrorismo dall’alto” esercitato dagli stati, con droni e bombardamenti, continua a generare il “terrorismo dal basso” di chi risponde con altre violenze. I media spesso assorbono il linguaggio della guerra fino a confondere conflitto e combattimento: un’ambiguità semantica che Salio già denunciava come pericolosa e profondamente fuorviante.

Per questo, dieci anni dopo, i tre passaggi fondamentali del Giornalismo di Pace restano un metodo indispensabile per chi vuole comprendere il mondo senza arrendersi alla logica binaria della propaganda: mappare tutti gli attori, individuare i loro obiettivi legittimi e cercare soluzioni creative capaci di soddisfarli senza violare i diritti fondamentali.

Nel panorama dell’informazione contemporanea, esempi concreti di questo approccio continuano a emergere nei lavori di giornalisti come Robert Fisk, John Pilger, Pepe Escobar o Marinella Correggia, che hanno fatto della ricerca della verità, della contestualizzazione dei conflitti e della denuncia dei meccanismi bellici il cuore della loro professione.

Se oggi, dieci anni dopo, torniamo a parlare di *Giornalismo di Pace*, è perché quel libro non è solo un oggetto editoriale, ma un’esperienza che continua a interrogarci. È un monito contro la rassegnazione e un invito a costruire, con i mezzi dell’informazione, un mondo meno ostaggio della violenza e delle sue narrazioni tossiche.

L’impegno che allora portò alla sua pubblicazione non si è spento: vive nelle lotte per un’informazione libera, nei movimenti nonviolenti, nelle pratiche quotidiane di chi rifiuta di considerare la guerra un destino inevitabile. E soprattutto vive nell’idea, profondamente saliana, che la pace non sia un sogno, ma un processo da raccontare, passo dopo passo, con rigore, coraggio e compassione.

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