Dieci anni dopo “Giornalismo di Pace”: l’eredità viva di Nanni Salio in un mondo ancora ferito.
Dieci anni dopo “Giornalismo di Pace”: l’eredità viva di Nanni Salio in un mondo ancora ferito.
di Laura Tussi
Il progetto editoriale nacque come opera postuma di Giovanni “Nanni” Salio, fondatore del Centro Studi Sereno Regis e figura di riferimento del Movimento Nonviolento italiano. La sua scomparsa nel 2016 non interruppe il suo lavoro: al contrario, *Giornalismo di Pace* divenne una sorta di testamento scientifico e politico, un’eredità condivisa con studiosi e attivisti come Johan Galtung, Stuart Allan, Birgit Brock-Utne, Jake Lynch, Dov Shinar ed Elissa J. Tivona. Fu il tentativo – lucido, rigoroso e militante – di offrire strumenti nuovi per leggere la violenza del mondo e, soprattutto, per trasformarla.
Negli anni in cui uscì il libro, la guerra era già diventata una cornice narrativa onnipresente nell’informazione: non un’eccezione, ma un linguaggio, una lente, spesso un profitto. I media, scrivevano gli autori, funzionavano sempre più come “armi di disinformazione di massa”, alimentati dagli interessi nazionali e dalle logiche di potere. Contro questa deriva, Salio e i suoi collaboratori proposero un modello radicalmente diverso: il Giornalismo di Pace, elaborato in particolare da Galtung, capace di leggere i conflitti andando alla radice delle loro cause, delle loro contraddizioni e delle possibilità concrete di trasformazione nonviolenta.
Non si trattava – e non si tratta – di un giornalismo consolatorio o disattento alla sofferenza. Al contrario: l’obiettivo era e rimane quello di fornire documentazione solida, casi di studio rigorosi e un approccio informativo capace di illuminare non solo l’orrore della guerra, ma anche i germogli della pace, le realtà sociali e comunitarie che costruiscono soluzioni, creatività, armonia. È l’idea di “pace positiva”: non la semplice assenza delle armi, ma un ecosistema in cui la cooperazione, l’empatia, la riconciliazione e la giustizia incidono sulla qualità della vita delle persone e dei territori.
In questo senso, *Giornalismo di Pace* divenne già allora una bussola. Le sue pagine descrivevano come un approccio nonviolento alla comunicazione potesse contribuire ad “indebolire le fonti della violenza e rafforzare la realtà positiva”, per usare le parole di Galtung. E, citando un passaggio di Salio diventato emblematico, il libro richiamava l’esperienza sudafricana della commissione verità e riconciliazione come modello universale da replicare nei luoghi feriti dal conflitto: dal Rwanda ai Balcani, dalla Palestina all’Irlanda, ai Paesi Baschi.
Oggi, alla luce di guerre che insanguinano il pianeta e di una disinformazione sempre più sistemica, quelle riflessioni sembrano scritte per il nostro tempo. La logica del “terrorismo dall’alto” esercitato dagli stati, con droni e bombardamenti, continua a generare il “terrorismo dal basso” di chi risponde con altre violenze. I media spesso assorbono il linguaggio della guerra fino a confondere conflitto e combattimento: un’ambiguità semantica che Salio già denunciava come pericolosa e profondamente fuorviante.
Per questo, dieci anni dopo, i tre passaggi fondamentali del Giornalismo di Pace restano un metodo indispensabile per chi vuole comprendere il mondo senza arrendersi alla logica binaria della propaganda: mappare tutti gli attori, individuare i loro obiettivi legittimi e cercare soluzioni creative capaci di soddisfarli senza violare i diritti fondamentali.
Nel panorama dell’informazione contemporanea, esempi concreti di questo approccio continuano a emergere nei lavori di giornalisti come Robert Fisk, John Pilger, Pepe Escobar o Marinella Correggia, che hanno fatto della ricerca della verità, della contestualizzazione dei conflitti e della denuncia dei meccanismi bellici il cuore della loro professione.
Se oggi, dieci anni dopo, torniamo a parlare di *Giornalismo di Pace*, è perché quel libro non è solo un oggetto editoriale, ma un’esperienza che continua a interrogarci. È un monito contro la rassegnazione e un invito a costruire, con i mezzi dell’informazione, un mondo meno ostaggio della violenza e delle sue narrazioni tossiche.
L’impegno che allora portò alla sua pubblicazione non si è spento: vive nelle lotte per un’informazione libera, nei movimenti nonviolenti, nelle pratiche quotidiane di chi rifiuta di considerare la guerra un destino inevitabile. E soprattutto vive nell’idea, profondamente saliana, che la pace non sia un sogno, ma un processo da raccontare, passo dopo passo, con rigore, coraggio e compassione.
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