Dall'Antropocene al Capitalocene: l'evoluzione dei paradigmi interpretativi della crisi climatico-ambientale

Dall'Antropocene al Capitalocene: l'evoluzione dei paradigmi interpretativi della crisi climatico-ambientale

L'inesorabile incedere della crisi climatico-ambientale degli ultimi decenni ha indotto la comunità accademica internazionale ad ampliare e approfondire il campo di studi al fine di comprenderne cause, portata e sviluppi futuri Un'imponente attività di ricerca, trasversale a varie discipline, che ha generato anche l'elaborazione di nuovi paradigmi teorici e terminologici. In tale ambito, particolare interesse sta rivestendo il concetto di Antropocene, da qualche anno a questa parte, oggetto di un crescente numero di pubblicazioni nell'ambito delle scienze geografiche e non solo.

Il lemma Antropocene, proposto per la prima volta negli anni '80 dal biologo Eugene Stoermer, ha iniziato a diffondersi, travalicando i confini disciplinari ed accademici, ad opera del premio Nobel per la chimica, Paul Crutzen, per rimarcare l'intensità e la pervasività che l'attività umana aveva assunto nei confronti del processi biologici terrestri (Crutzen, 2005). In ambito ambientalista il concetto evidenza invece il passaggio di stato del nostro Pianeta, causato dal manifestarsi su scala globale della crisi climatico-ambientale di origine antropogenica, assurta ad elemento caratterizzante di una nuova era geologica. Tale accezione del concetto di Antropocene risulta tuttavia avulsa da significative connotazioni storico-politiche poiché rapporta il cambiamento climatico all’azione umana nel suo complesso senza distinzioni di sorta.

Una corrente accademica di pensiero e alcuni contesti scientifici sostengono che la crisi climatico-ambientale in atto sia, invece, il frutto del sistema economico dominante a livello mondiale, nel cui ambito la volontà di una parte nettamente minoritaria di popolazione mondiale di perpetrare lo sfruttamento delle risorse nell'intento di salvaguardare il proprio, ormai insostenibile, livello di consumi, si concretizza in un forte deficit ecologico che, sotto varie forme, finisce per impattare soprattutto nelle aree geografiche economicamente e socialmente meno sviluppate. Attribuire indistintamente all'intera umanità le cause della crisi climatico-ambientale, di fatto rimuove il ruolo e le responsabilità del sistema dominante di produzione e consumo, che secondo quest'area di studiosi, può assumere più opportunamente una denominazione di matrice geologica diversa: il Capitalocene (Moore, 2017).

Tale paradigma interpretativo sembra essere confermato dal rapporto "Disuguaglianza da CO2", pubblicato da Oxfam

, in collaborazione con lo Stockholm Environment Institute, il 21 settembre 2020 alla vigilia dell’annuale Assemblea Generale della Nazioni Unite nell'intento di indurre la leadership politica mondiale a varare ed implementare efficaci misure di contrasto alla crisi in atto. Dal report emerge, infatti, che nel venticinquennio compreso fra il 1990 e il 2015, durante il quale le emissioni di CO2 in atmosfera sono più che raddoppiate, l’1% più ricco della popolazione mondiale, pari a 63 milioni di abitanti, ha emesso nell'atmosfera il doppio di CO2 rispetto al 50% più povero del pianeta, corrispondente a 3,1 miliardi di persone. E che il 10% più ricco è stato responsabile del 52% delle emissioni totali di CO2 tra il 1990 e il 2015, mentre il solo 1% più ricco del 15%. Da questi dati, e da numerosi altri, risulta evidente come le responsabilità della crisi del Pianeta non possono essere attribuite genericamente all'essere umano, bensì più opportunamente all'oligarchia mondiale; il vertice del capitalismo globalizzato che negli ultimi decenni ha accumulato enormi ricchezze, con attività produttive estremamente impattanti, dilatando inesorabilmente la forbice delle disuguaglianze e spingendo la crisi climatico-ambientale verso l'irreversibilità.

Il concetto di Capitalocene, risulta particolarmente funzionale a focalizzare le dinamiche in atto in quanto riesce ad individuare gli aspetti degenerativi della struttura capitalistica che, in modo sempre più "classista", polarizza le vulnerabilità non solo intergenerazionali, in ottica futura, ma, soprattutto quelle odierne all'interno e fra società diverse (Amato, 2019). In relazione a queste ultime, gli studi prevedono che il Sud del mondo, responsabile del solo 10% delle emissioni globali, dovrà subirne il 75% delle ricadute negative, precipitando di fatto in una situazione di “apartheid ambientale”.

Il sistema economico globalizzato, neoliberista e sviluppista, funziona da garanzia per il capitale transnazionale nell'ambito di un modello di sviluppo lineare fondato sul ciclo estrazione- produzione-consumo, sulla concentrazione di immensi profitti e la socializzazione dei costi ambientali. Tuttavia, l'adozione di politiche indirizzate verso un modello economico circolare (Circular economy) in grado parzialmente di rigenerarsi riducendo l'impatto sull’ecosistema terrestre può, a nostro avviso, non essere sufficiente a risolvere la triplice crisi in atto (ambientale, economica e sociale), in quanto non vengono messi in discussione i paradigmi della crescita economica infinita e dell'accumulazione capitalistica.

La questione del superamento delle strutture economiche e sociali del Capitalocene, con i suoi insostenibili modelli di produzione, di consumo e di ripartizione della ricchezza, si propone, alla luce della crisi ambientale sull'orlo del punto del non ritorno e delle disuguaglianze sociali, sempre più marcate, in modo ancor più pressante, a causa dei suoi crescenti effetti degenerativi, arrivati, ormai, a mettere a repentaglio il futuro del Pianeta e, soprattutto, dell'intera umanità.


Andrea Vento - 27 novembre 2020

Gruppo Insegnanti di Geografia Autorganizzati

 

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