dossier Venezuela
riceviamo e pubblichiamo
Il primo articolo fotografa la situazione interna all'Osa nonostante le posizioni marcatamente filo Usa del suo presidente Luis Almagro e l'altro un breve articolo riepiloga in modo sintetico e puntuale le vicende degli ultimi anni che in Italia sono state completamente oscurate o stravolte dall'informazione main stream che è allineata sulle posizioni dell'imperialismo Usa e dell'oligrachia venezuelana. Infine breve intervista all'intellettuale Julio Escalona. Tutto tratto dal quotidiano Il Manifesto che ringraziamo vivamente
Il coordinamento del GigaGuaidó e Trump più isolati di Maduro: l’Osa si spacca
Venezuela. Sedici
paesi americani su 35 non appoggiano il golpe. L’Organizzazione dice no
anche alla richiesta di un «ambasciatore» dell’opposizione. Caracas
ritira lo staff dagli Usa
Al
momento, il presidente ad interim de facto Juan Guaidó, è, come lo
definisce l’intellettuale cileno Manuel Cabieses, nient’altro che un
«presidente fantoccio», un «governante senza governo» che non controlla
nulla: né l’apparato amministrativo, né le forze armate, né i servizi
pubblici. Praticamente un ologramma che vive appena del riconoscimento
di Trump e dei governi a lui asserviti.
Ma
anche i tanto sbandierati riconoscimenti internazionali fanno un po’
acqua, considerando che giovedì a Washington la mozione per riconoscerlo
come presidente legittimo del Venezuela non è riuscita a ottenere la
maggioranza tra i paesi membri dell’Organizzazione degli Stati americani
(Osa).
Nel
corso di una movimentata sessione del Consiglio permanente dell’Osa,
alla presenza del segretario di Stato Usa Mike Pompeo, solo 16 dei 35
paesi che compongono l’organismo – Argentina, Bahamas, Canada, Brasile,
Cile, Costa Rica, Ecuador, Colombia, Stati uniti, Honduras, Guatemala,
Haití, Panamá, Paraguay, Perú e Repubblica Dominicana – hanno accettato
di sottoscrivere una risoluzione di appoggio a Guaidó con la richiesta
di elezioni anticipate. E così anche la nomina da parte del presidente
usurpatore di un suo ambasciatore presso l’Osa, Gustavo Tarre, si è
risolta in un nulla di fatto.
Intanto,
a poche ore dalla scadenza dell’ultimatum di 72 ore dato da Maduro al
personale diplomatico statunitense perché abbandoni il paese, il
Dipartimento di Stato Usa ha ordinato per ragioni di sicurezza il ritiro
dal Venezuela dei suoi funzionari «non essenziali». Il presidente
bolivariano, dal canto suo, ha disposto la chiusura di tutte le sedi
consolari del Venezuela negli Stati uniti, annunciando l’imminente
ritorno del personale diplomatico a Caracas.
Maduro,
tuttavia, ha scelto di non alzare i toni, dicendosi «pronto» al dialogo
con l’opposizione – malgrado tutti i precedenti tentativi fatti fallire
dalle destre – così come proposto in un comunicato congiunto delle
cancellerie di Messico e Uruguay, due dei paesi latinoamericani che
hanno fin da subito preso le distanze dall’autoproclamazione di Guaidó.
Un invito, quello dei due governi, a «ridurre le tensioni» e a evitare
una pericolosa «escalation di violenza» attraverso un «nuovo negoziato
includente e credibile, nel pieno rispetto dello Stato di diritto e dei
diritti umani».
E
un appello al dialogo è stato lanciato anche dal segretario generale
delle Nazioni unite, Antonio Guterres, che ha messo in guardia dal
rischio di «un conflitto disastroso per il popolo del Venezuela e della
regione». Proprio all’Onu si era del resto rivolto il ministro degli
Esteri venezuelano Jorge Arreaza, denunciando la «permanente ingerenza»
degli Usa e dei paesi satelliti per provocare «un cambio di regime per
vie non costituzionali», specialmente a partire dall’«infame» decreto
con cui nel 2015 l’allora presidente Barack Obama dichiarava il
Venezuela «una minaccia straordinaria alla sicurezza degli Stati uniti».
Contro
l’operato del governo Usa si è schierato anche Bernie Sanders, secondo
cui gli Stati uniti «dovrebbero appoggiare lo stato di diritto e
l’autodeterminazione del popolo venezuelano», scrivendo una pagina nuova
rispetto alla «lunga storia di interventi inappropriati in America
latina».
E
dal Brasile, il cui governo è totalmente in linea con l’amministrazione
Trump, si è fatto sentire anche Lula: «Con che coraggio parla del
Venezuela un governo che fa arrestare il suo maggiore avversario e vince
le elezioni con una campagna di fake news su Whatsapp finanziata
illegalmente dalle imprese?».
La «memoria» corta dell’opposizione: pretese di votare e poi si tirò indietro
Venezuela. Nel
2018 il diktat Usa bloccò il negoziato faticosamente messo in piedi da
Zapatero e papa Francesco. Solo una parte delle opposizioni partecipò al
voto anticipato. E il sistema di voto usato, oggi definito
"illegittimo", è stato lo stesso del 2015, quando vinse la Mud
Un
presidente illegittimo, un usurpatore, addirittura un dittatore. Così
viene presentato Maduro dal governo statunitense e i suoi burattini e,
di conseguenza, dai loro megafoni nella stampa di regime. Un coro
generale che descrive il suo secondo mandato come frutto di un processo
elettorale imposto dal chavismo e non in linea con gli «standard
internazionali di libertà, equità e trasparenza».
Eppure
era stata proprio l’opposizione a sollecitare la convocazione di
elezioni anticipate, nel quadro del negoziato con il governo portato
avanti a inizio 2018 nella Repubblica Dominicana. Per poi mandare
all’aria all’ultimo minuto l’accordo faticosamente raggiunto, con la
data delle presidenziali fissata per il 22 aprile, tra lo sconcerto dei
mediatori (lo spagnolo Zapatero, il dominicano Fernández e il panamense
Torrijos) e dello stesso papa Francesco (che aveva ricondotto il
fallimento del dialogo alle divisioni dell’opposizione).
Un
repentino dietrofront – ricondotto dal governo a una tempestiva
telefonata proveniente dalla Colombia, in contemporanea con la visita
dell’allora segretario di Stato Usa Rex Tillerson – con cui
l’opposizione aveva affidato tutte le sue chance di riconquista del
potere alla speranza di un risolutivo intervento esterno o all’attesa di
un collasso interno per effetto delle sempre più dure sanzioni
internazionali.
Di
fronte alla marcia indietro della Mud, il Consiglio nazionale
elettorale aveva fissato ugualmente per il 22 aprile la data delle
presidenziali, per poi spostarle al 20 maggio, al fine di venire
incontro alle richieste della parte dell’opposizione – quella più
democratica – decisa a non boicottare l’appuntamento elettorale e
rappresentata da tre candidati presidenziali: Henri Falcón, Javier
Bertucci e Reinaldo Quijada.
Il
20 maggio, sui 9,1 milioni di voti espressi (il 46% dell’elettorato,
una percentuale nella norma per diversi Paesi) Nicolás Maduro ne aveva
incassati circa 6,2, il 68% delle preferenze, rifilando un distacco
abissale al suo più temuto avversario, l’ex chavista Falcón, fermo al
21%. Un processo di cui i circa 150 accompagnatori internazionali
presenti avevano evidenziato la regolarità e la trasparenza, in virtù
dell’alta qualità tecnica del sistema di voto elettronico venezuelano,
la cui affidabilità era stata sottoposta a ben 18 revisioni e avallata
da tutti i partiti politici.
Lo
stesso sistema, peraltro, impiegato nelle parlamentari del 2015 vinte
dall’opposizione, quando a nessuno era venuto in mente di contestare la
legittimità del processo elettorale. E tanto più assurda e arbitraria
appare l’accusa di illegittimità della presidenza Maduro di fronte al
ben diverso atteggiamento assunto dagli Stati uniti e dai loro vassalli
nel caso – per esempio – dell’incostituzionale ricandidatura e poi della
fraudolenta elezione di Juan Orlando Hernández in Honduras, oggi ancora
al suo posto, riconosciuto dalla comunità internazionale e impegnato a
firmare, all’interno del Gruppo di Lima, documenti sul mancato rispetto
da parte del governo venezuelano degli «standard internazionali di
libertà, equità e trasparenza».
Julio Escalona: «Mercenari pronti a orchestrare disordini»
Venezuela. Intervista
all'intellettuale e membro dell'Assemblea Nazionale: «Dei grupposcoli
puntano a sabotare, appiccare il fuoco a magazzini di medicine e
alimenti. Finora non sono riusciti nel loro intento perché la
maggioranza sta con la rivoluzione»
Tutti
gli scenari sono ora possibili in Venezuela. Nella calma tesa che si
avverte per le strade del paese, il popolo, ancora in maggioranza
schierato con la rivoluzione, sa che l’attuale crisi potrebbe non
risolversi pacificamente. È questo che teme il prestigioso intellettuale
venezuelano Julio Escalona, membro dell’Assemblea costituente e
chavista convinto, pur senza mai risparmiare critiche al governo. È a
lui che abbiamo chiesto un’opinione sul momento drammatico che sta
vivendo il paese.
Qual è il clima di queste ore?
Ci
sono gruppuscoli violenti che cercano di seminare paura e caos contando
sull’appoggio dell’ambasciata Usa, nel quadro del piano statunitense
diretto a destabilizzare il governo al fine di creare le condizioni per
una destituzione del presidente Maduro. Finora, tuttavia, questi gruppi
non sono riusciti nel loro intento e mancano di sostegno popolare. La
popolazione chiede in maggioranza la pace, una vita quotidiana
tranquilla, la garanzia di svolgere le proprie attività senza rischi di
violenza.
Cosa accadrà ora?
Nelle
zone di frontiera c’è una grande quantità di mercenari appoggiati dalla
Cia e dall’esercito colombiano, disposti a superare il confine per
assassinare e sferrare attacchi a scuole, università, ospedali, ponti,
vie di comunicazione. E possono contare, se il Comando Sud degli Stati
Uniti lo riterrà necessario, su appoggio aereo, mezzi blindati,
artiglieria. Al momento il governo Usa, che esercita il comando
strategico e tattico dell’offensiva contro il Venezuela, non ha potuto
creare le condizioni politiche necessarie a giustificare un’aggressione
militare. Non c’è riuscito perché Maduro ha avuto la meglio nella
battaglia politica. Per questo le forze mercenarie hanno dovuto finora
accontentarsi di condurre schermaglie lungo la linea di frontiera,
specialmente al confine con la Colombia, benché, anche a sud, alla
frontiera con il Brasile, si trovino forze pronte ad aggredire il nostro
paese. Ma anche all’interno del Venezuela, in diverse zone, sono attivi
gruppi di mercenari impegnati a realizzare sabotaggi, appiccare il
fuoco a magazzini di medicine e alimenti, creare disordine, assassinare,
dirigere gruppi di «cittadini» in azioni vandaliche. È il tentativo di
riprodurre l’ondata di violenza scatenata nel 2017, per quattro mesi
nelle principali città, a cui il governo ha posto fine con la
convocazione e l’insediamento dell’Assemblea nazionale costituente. Se
finora tale tentativo non è andato in porto, le destre puntano però a
una grande marcia verso Caracas da diversi punti del paese, con
l’obiettivo di «prendere» il Palazzo di Miraflores, sede della
presidenza della Repubblica. L’idea è provocare una strage per
giustificare quello che chiamano «intervento umanitario». Una replica
dell’accusa rivolta a Gheddafi di massacrare la popolazione civile.
Che dovrebbe fare il governo?
Il
governo sta facendo quello che deve fare. Si sta muovendo
diplomaticamente per evitare l’isolamento (deve però fare più leva sulla
solidarietà internazionale). Sta compattando le forze armate,
mobilitando e preparando il popolo, informando. Ma ritengo che gli Usa
intensificheranno l’aggressione ed è possibile che la situazione non si
risolva pacificamente.
Il popolo è ancora con Maduro?
La maggioranza del popolo venezuelano appoggia il processo rivoluzionario.
Quanto è reale il rischio di defezioni da parte dei militari?
La
Forza armata bolivariana sostiene Maduro. Ma in processi come questo il
tradimento è sempre una possibilità. Soprattutto perché dietro c’è la
Cia.
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