Migrazioni e politica. Un'analisi obbligata
Ripubblichiamo l'articolo di Giovanni Bruno apparso in anteprima su Toscana Today (https://www.toscanatoday.it/la-piazza-migrazioni-e-politica-per-un-alleanza-tra-umanismo-etico-e-internazionalismo-di-giovanni-bruno), un testo che aiuta a collocare la deriva xenofoba e autoritaria dentro l'odierno contesto politico. Una riflessione utile per confutare luoghi comuni
Le ultime vicende della Sea Watch 3 stanno portando alle estreme conseguenze politico-giudiziarie la questione delle politiche di accoglienza comunitarie rispetto al fenomeno (epocale?) delle migrazioni verso l’Europa. Di fronte alla meschina messa in scena del ministro Salvini e dell’intero governo penta-leghista, non si può che rimanere allibiti, vergognarsi di essere italiani (brava gente?), ma soprattutto non si può che solidarizzare e mobilitarsi a fianco di Carola Rackete.
Una lotta tra i 'penultimi' e gli 'ultimi'.
Da tempo assistiamo allo squallido spettacolo della lotta politica all’interno dell’Unione Europea, come peraltro in altre regioni del pianeta, sulla pelle di milioni di proletari. Le diatribe politiche, rispetto a quanti e come debbano essere ripartiti i migranti da accogliere paese per paese, alimentano artatamente lo scontro tra i “cittadini sovrani(sti)”, che difendono i propri diritti nella scala gerarchica di un paese, e i “clandestini” che puntano a scalzare la rendita di posizione dei “garantiti”: in sintesi, si alimenta una lotta tra i “penultimi” e gli “ultimi”, attratti dal miraggio di accedere ad una (seppur minima) porzione dello spropositato benessere del cosiddetto Nord del mondo (mal ripartito anche all’interno). In questo senso, possiamo dire che la “guerra tra poveri” è vantaggiosa, e perciò volutamente alimentata, per le borghesie (i “ricchi”) che esprimono un ipocrita pietismo continuando ad arricchirsi mentre i proletari (i “poveri”) si scontrano tra di loro.
L’origine della crisi di sistema.
In realtà, dobbiamo comprendere il fenomeno con una prospettiva più ampia, a partire da una sintetica ricostruzione sull’inizio della demolizione dei diritti dei lavoratori (risultato di conquiste di decenni di lotte, dei decenni tra gli anni ’50 e i ’70) che dall’inizio degli anni ’80 sono stati sottoposti ad un feroce attacco da parte delle classi dominanti con politiche bipartisan, improntate al liberismo sfrenato, attuate dai governi di centro-destra e centro-sinistra succedutisi fino ad oggi.
Dagli anni Ottanta del Novecento, le dinamiche sovra-produttive del sistema capitalistico hanno raggiunto l’apice e provocato una crisi strutturale immane (e immanente) nel sistema occidentalizzato dominante, fondato sulla concorrenza del mercato e sulla finalità del profitto privato.
A fronte di tale crisi, il capitalismo “riformato”, basato sulla redistribuzione della ricchezza (aumento del costo del lavoro, salario sociale, salario differito: salari, servizi, pensioni) diffusosi nei paesi europei con modelli “keynesiani” (investimenti pubblici in settori produttivi e terziari), socialdemocratici (Welfare State: servizi sociali universalistici) o assistenzialistici (sostegno mirato alle fasce di reddito più povere), è stato messo pesantemente in discussione dall’ideologia neoliberista. Tale crisi si è trascinata per decenni ed è tuttora irrisolta: i tentativi delle borghesie dominanti di rimettere in moto il sistema si sono attuati innanzitutto tramite processi di ristrutturazione selvaggia, alimentati da travolgenti innovazioni tecnologiche e incontenibili trasformazioni informatiche e digitali della produzione, che hanno provocato disoccupazione di massa e crollo del tenore di vita proprio tra quelle classi lavoratrici che avevano raggiunto livelli di garanzie salariali, sociali e previdenziali, nonché ammortizzatori sociali, accettabili rispetto alle condizioni feroci del capitalismo fino a metà Novecento.
L'attacco alle classi lavoratrici e popolari. La ricerca spasmodica e spietata di valorizzazione del capitale, con la produzione di plusvalore al fine dell’estrazione del profitto (in caduta libera per la crisi sovrapproduttiva a cui ho accennato poc’anzi) a vantaggio delle borghesie, si è scontrata allora con i modelli social-riformisti redistributivi, troppo dispendiosi per le logiche impietose del profitto privato: la conseguenza è stata un attacco a testa bassa contro le classi lavoratrici e popolari in generale, portato in maniera sistematica e organica sul piano ideologico (liberismo radicale contro le forme di compromesso sociale ed economico del periodo tra gli anni ’50 agi anni ’80), sul piano economico-sociale dei rapporti tra le classi (i rapporti di forza che si ridefiniscono nel corso degli ultimi tre decenni), sul piano politico-istituzionale (lo smantellamento di forme rappresentative dei ceti popolari e delle classi lavoratrici e proletarie, che hanno provocato la crisi delle organizzazioni tradizionali, partiti e sindacati di massa).
La fine del Novecento bipolare. Un altro attacco è avvenuto con la caduta dei paesi del blocco democratico-popolare, e soprattutto dell’Unione Sovietica: da quel momento, quei paesi e popoli sono divenuti campo di conquista per una colonizzazione imprenditoriale che ha saccheggiato il loro sistema produttivo (in molti casi ormai obsoleto rispetto alle innovazioni della cosiddetta “terza rivoluzione industriale”, quella informatica) e approfittato della manodopera specializzata (classe operaia arretrata, ma comunque qualificata e capace) per delocalizzare la produzione a costi estremamente più bassi: sta qua l’origine dell’attacco ai diritti e alle garanzie delle classi lavoratrici nel campo del capitalismo occidentalizzato e riformato, non certo nella presunta “concorrenza sleale” di disperati migranti che la destra fascista e fascistoide, xenofoba e razzista, presenta come causa della diminuzione drastica del tenore di vita (perdita del potere di acquisto, aumento delle tariffe, degli affitti, privatizzazione dei servizi etc.).
La perdita di diritti e di garanzie per i lavoratori e per i settori popolari. In termini di salario sociale (nella forma dello Stato sociale e dei servizi), la perdita di diritti e di garanzie per i lavoratori e per i settori popolari non è il prodotto delle migrazioni (spontanee o indotte), ma della lotta di classe brutale e feroce avviata dalle classe dominanti dopo la fine del blocco democratico-popolare, e soprattutto dell’Unione Sovietica: se quel mondo aveva una debolezza strutturale, oltreché politica, espressa dalla chiusura inerziale di un macigno simbolico come quello del “muro di Berlino”, fino alla dissoluzione di inizio anni ’90 esso ha comunque rappresentato un’alternativa ideologico-culturale (sempre più contraddittoria, poco efficiente e sempre più asfissiante) al mondo capitalistico, in cui vige la selvaggia concorrenza di mercato, la logica del profitto in nome del quale sono sacrificabili innanzitutto i diritti dei lavoratori, l’occupazione e le garanzie sociali.
Il ritorno del darwinismo social-liberista.
Il capitalismo si è dunque rigenerato non solo sul piano economico-sociale, politico-istituzionale e diplomatico-militare, ma anche su quello ideologico: alle categorie esplicite e chiare come “capitalismo” e “concorrenza” si sono sostituiti termini più soft come “liberismo” o “economia di mercato”, ma soprattutto si è introdotta surrettiziamente una nuova ideologia che sostiene la “naturalità” e “insuperabilità” del sistema vigente, fondato sulla illimitata libertà delle imprese di gestire le risorse umane (operai, impiegati, dipendenti in generale), quelle ambientali (territori e beni comuni naturali), quelle sociali e culturali (sanità, trasporti, istruzione, arte) nel puro interesse privato, della prevaricazione del più forte sul più deboli, secondo le logiche perverse del raggiungimento ad ogni costo del massimo profitto.
Si tratta quindi di affrontare la questione su un piano teorico più ampio che ci permetta di comprendere più a fondo quali siano le basi dei fenomeni che si vanno sviluppando, come quelli migratori, incontenibili e inarrestabili. Vanno dunque compresi e affrontati con strumenti scientifici e razionali, non solo emotivi (che non guastano, ma non sono sufficienti), sulla base di valori universalistici che sconfiggano l’ipocrita pietismo borghese e integrino la solidarietà umanitaristica con la solidarietà internazionalista, valori etico-politici irrinunciabili e non negoziabili, se si vuole evitare di incorrere in un nuovo crollo di civiltà come avvenuto nella prima metà del secolo scorso.
I nodi teorici da chiarire.
L’aspetto più insidioso che sta emergendo è l’utilizzo di categorie del marxismo per legittimare posizioni di estrema destra, scioviniste, retrograde e regressive, sostanzialmente reazionarie. Questa operazione è ormai sistematica e viene veicolata tramite messaggi propagandistici di “bassa Lega”, o con pretese teoriche e culturali apparentemente più sofisticate, come quelle di Diego Fusaro, in realtà mistificanti, o infine con la presenza sempre più insistente di forze che si richiamano al comunismo e al marxismo, che stravolgono o fraintendono, nel più benevolo dei casi, la visione internazionalista dei comunisti.
Certamente, si può anche decidere di non essere marxisti, tantomeno comunisti, ma allora si dovrebbe evitare di utilizzare in maniera strumentale le categorie marxiane (ad esempio: “esercito industriale di riserva”) per giustificare e legittimare posizioni di sovranismo e suprematismo di settori “privilegiati” di classe operaia (prevalentemente bianca e autoctona, ma anche di immigrati di seconda generazione) che si illudono di difendere le garanzie raggiunte chiudendo i porti a discapito di altri settori proletari, uno o più gradini sotto nella scala gerarchica. È la riproposizione dell’ideologia colonialista veicolata dall’imperialismo ottocentesco e primo-novecentesco. Anziché unificare le lotte e integrare questo nuovo proletariato giovane e combattivo, che permetterebbe un salto di qualità nella lotta di classe nei paesi avanzati del capitalismo occidentalizzato, contro i veri nemici di classe che detengono la ricchezza e soprattutto il controllo del sistema, si indica nei migranti coloro che provocano le condizioni di arretramento dei lavoratori, accettando condizioni salariali e lavorative impossibili.
Non si può più guardare il dito anziché la luna: i nemici non sono i migranti, ma il sistema criminale (che è l’iceberg su cui si regge economicamente anche il sistema delle imprese “legali”) che sfrutta integralmente la manodopera che si trova a disposizione. Le lotte dei migranti nella logistica sono un piccolo esempio di come si possano avviare i processi di unificazione della classe operaia, contro la disgregazione indotta dalle borghesie dominanti.
Il marxismo come guida ermeneutica da ripristinare.
Non per volontà di erudizione accademica, ma per precisazione di carattere teorico-pratico, ricordiamo due scritti (minori?) di Marx e Lenin che forniscono chiare indicazioni su come si debbano interpretare i processi migratori e il conflitto tra classi operaie concorrenti.
Nella lettera a Meyer e Vogt, fondatori della sezione tedesca dell’Internazionale dei Lavoratori, nella primavera del 1870, poco conosciuta dal grande pubblico, ma nota ai frequentatori dei suoi scritti, Marx affronta la questione irlandese evidenziando come gli operai inglesi considerassero gli irlandesi allo stesso modo in cui oggi vengono considerati i migranti, “come un concorrente che comprime lo standard of life [tenore di vita]”, analogamente ai “poor whites [i bianchi poveri] verso i negri negli Stati un tempo schiavisti dell’unione americana”: così facendo si condannano alla sconfitta, nonostante le organizzazioni politico-sindacali.
Non solo: Marx sottolinea che tale “antagonismo viene alimentato artificialmente e accresciuto dalla stampa, dal pulpito, dai giornali umoristici, insomma con tutti i mezzi a disposizione delle classi dominanti”, che in tal modo rafforzano la “conservazione del potere da parte della classe capitalista”.
La questione che emerge non è dunque né puramente umanitaria, né tantomeno nazionalistica: necessario sarebbe invece “risvegliare nella classe operaia inglese la consapevolezza che l'emancipazione nazionale dell’Irlanda non è per essa una question of abstract justice or humanitarian sentiment [questione di astratta giustizia o di sentimenti umanitari] bensì the first condition of their own social emancipation [la prima condizione per la loro stessa emancipazione sociale]”; ricontestualizzate queste parole ai giorni nostri, la lezione di Marx è che evitare l’antagonismo tra proletari non è semplicemente una questione di astratto sentimentalismo umanitario, ma la condizione per l’emancipazione sociale di tutti i proletari, “regolari” e “irregolari” che siano.
In un’altra fase storica, a pochi anni dal grande conflitto che avrebbe stravolto la civiltà europea e permesso l’avvio dell’esperimento rivoluzionario più radicale della storia fino ad oggi, Vladimir Ilich Ulianov, detto Lenin, in un articolo pubblicato su La Pravda n.22 dell’ottobre del 1913 “Il capitalismo e l’immigrazione operaia”, analizzò i flussi migratori dall’Europa verso gli Stati Uniti, attrattivi per l’industrializzazione accelerata avvenuta tra fine XIX e inizio XX secolo: “Il capitalismo ha creato un tipo particolare di migrazione di popoli. I paesi che si sviluppano industrialmente in fretta, introducendo più macchine e soppiantando i paesi arretrati nel mercato mondiale, elevano il salario al di sopra della media e attirano gli operai salariati di quei Paesi.” Perciò si producono immense migrazioni di operai attraverso distanze enormi, e il sistema capitalistico “li assorbe violentemente nel suo vortice, li strappa dalle località sperdute, li fa partecipare al movimento storico mondiale, li mette faccia a faccia con la possente, unita classe internazionale degli industriali.” A fronte di questo processo gigantesco e immane, Lenin evidenzia che sia la miseria che “costringe gli uomini ad abbandonare la patria”, mentre “i capitalisti sfruttano nella maniera più disonesta gli operai immigrati.” Tuttavia, con parole inequivocabili, Lenin sostiene che “solo i reazionari possono chiudere gli occhi sul significato progressivo di questa migrazione moderna dei popoli”: per un’emancipazione dalle catene del capitale, occorre che si sviluppi “la lotta di classe sul terreno del capitalismo stesso”, e ciò è possibile proprio perché “a questa lotta il capitalismo trascina le masse lavoratrici di tutto il mondo, spezzando il ristagno e l’arretratezza della vita locale, distruggendo le barriere e i pregiudizi nazionali, unendo gli operai di tutti i paesi nelle più grandi fabbriche e miniere [dell’America, della Germania, ecc.]”.
Lenin aveva compreso un secolo fa che le migrazioni sono ineluttabili e producono un balzo in avanti nella unificazione del proletariato su scala mondiale: se la “borghesia aizza gli operai di una nazione contro gli operai di un’altra, cercando di dividerli”, con operazioni propagandistiche a carattere pietistico o xenofobo (a seconda della fase), gli “operai coscienti, comprendendo l’inevitabilità e il carattere progressivo della distruzione di tutte le barriere nazionali operata dal capitalismo, cercano di aiutare a illuminare e a organizzare i loro compagni dei paesi arretrati”.
La situazione odierna è molto diversa, data la crisi di sistema che dall’inizio del secolo non si è ancora risolta, ma una cosa è certa: la propaganda sovranista e suprematista (“Prima gli Italiani!” o: “Prima gli americani/bianchi”) è una mistificazione finalizzata al mantenimento del dominio delle élite borghesi, ed è pertanto un messaggio irricevibile sia se provIene dalle forze reazionarie della Lega e del neofascismo, sia se viene proposto dalle organizzazioni pseudo-marxiste che affogano le categorie della lotta di classe nell’indigesta salsa sovranista.
Le ultime vicende della Sea Watch 3 stanno portando alle estreme conseguenze politico-giudiziarie la questione delle politiche di accoglienza comunitarie rispetto al fenomeno (epocale?) delle migrazioni verso l’Europa. Di fronte alla meschina messa in scena del ministro Salvini e dell’intero governo penta-leghista, non si può che rimanere allibiti, vergognarsi di essere italiani (brava gente?), ma soprattutto non si può che solidarizzare e mobilitarsi a fianco di Carola Rackete.
Una lotta tra i 'penultimi' e gli 'ultimi'.
Da tempo assistiamo allo squallido spettacolo della lotta politica all’interno dell’Unione Europea, come peraltro in altre regioni del pianeta, sulla pelle di milioni di proletari. Le diatribe politiche, rispetto a quanti e come debbano essere ripartiti i migranti da accogliere paese per paese, alimentano artatamente lo scontro tra i “cittadini sovrani(sti)”, che difendono i propri diritti nella scala gerarchica di un paese, e i “clandestini” che puntano a scalzare la rendita di posizione dei “garantiti”: in sintesi, si alimenta una lotta tra i “penultimi” e gli “ultimi”, attratti dal miraggio di accedere ad una (seppur minima) porzione dello spropositato benessere del cosiddetto Nord del mondo (mal ripartito anche all’interno). In questo senso, possiamo dire che la “guerra tra poveri” è vantaggiosa, e perciò volutamente alimentata, per le borghesie (i “ricchi”) che esprimono un ipocrita pietismo continuando ad arricchirsi mentre i proletari (i “poveri”) si scontrano tra di loro.
L’origine della crisi di sistema.
In realtà, dobbiamo comprendere il fenomeno con una prospettiva più ampia, a partire da una sintetica ricostruzione sull’inizio della demolizione dei diritti dei lavoratori (risultato di conquiste di decenni di lotte, dei decenni tra gli anni ’50 e i ’70) che dall’inizio degli anni ’80 sono stati sottoposti ad un feroce attacco da parte delle classi dominanti con politiche bipartisan, improntate al liberismo sfrenato, attuate dai governi di centro-destra e centro-sinistra succedutisi fino ad oggi.
Dagli anni Ottanta del Novecento, le dinamiche sovra-produttive del sistema capitalistico hanno raggiunto l’apice e provocato una crisi strutturale immane (e immanente) nel sistema occidentalizzato dominante, fondato sulla concorrenza del mercato e sulla finalità del profitto privato.
A fronte di tale crisi, il capitalismo “riformato”, basato sulla redistribuzione della ricchezza (aumento del costo del lavoro, salario sociale, salario differito: salari, servizi, pensioni) diffusosi nei paesi europei con modelli “keynesiani” (investimenti pubblici in settori produttivi e terziari), socialdemocratici (Welfare State: servizi sociali universalistici) o assistenzialistici (sostegno mirato alle fasce di reddito più povere), è stato messo pesantemente in discussione dall’ideologia neoliberista. Tale crisi si è trascinata per decenni ed è tuttora irrisolta: i tentativi delle borghesie dominanti di rimettere in moto il sistema si sono attuati innanzitutto tramite processi di ristrutturazione selvaggia, alimentati da travolgenti innovazioni tecnologiche e incontenibili trasformazioni informatiche e digitali della produzione, che hanno provocato disoccupazione di massa e crollo del tenore di vita proprio tra quelle classi lavoratrici che avevano raggiunto livelli di garanzie salariali, sociali e previdenziali, nonché ammortizzatori sociali, accettabili rispetto alle condizioni feroci del capitalismo fino a metà Novecento.
L'attacco alle classi lavoratrici e popolari. La ricerca spasmodica e spietata di valorizzazione del capitale, con la produzione di plusvalore al fine dell’estrazione del profitto (in caduta libera per la crisi sovrapproduttiva a cui ho accennato poc’anzi) a vantaggio delle borghesie, si è scontrata allora con i modelli social-riformisti redistributivi, troppo dispendiosi per le logiche impietose del profitto privato: la conseguenza è stata un attacco a testa bassa contro le classi lavoratrici e popolari in generale, portato in maniera sistematica e organica sul piano ideologico (liberismo radicale contro le forme di compromesso sociale ed economico del periodo tra gli anni ’50 agi anni ’80), sul piano economico-sociale dei rapporti tra le classi (i rapporti di forza che si ridefiniscono nel corso degli ultimi tre decenni), sul piano politico-istituzionale (lo smantellamento di forme rappresentative dei ceti popolari e delle classi lavoratrici e proletarie, che hanno provocato la crisi delle organizzazioni tradizionali, partiti e sindacati di massa).
La fine del Novecento bipolare. Un altro attacco è avvenuto con la caduta dei paesi del blocco democratico-popolare, e soprattutto dell’Unione Sovietica: da quel momento, quei paesi e popoli sono divenuti campo di conquista per una colonizzazione imprenditoriale che ha saccheggiato il loro sistema produttivo (in molti casi ormai obsoleto rispetto alle innovazioni della cosiddetta “terza rivoluzione industriale”, quella informatica) e approfittato della manodopera specializzata (classe operaia arretrata, ma comunque qualificata e capace) per delocalizzare la produzione a costi estremamente più bassi: sta qua l’origine dell’attacco ai diritti e alle garanzie delle classi lavoratrici nel campo del capitalismo occidentalizzato e riformato, non certo nella presunta “concorrenza sleale” di disperati migranti che la destra fascista e fascistoide, xenofoba e razzista, presenta come causa della diminuzione drastica del tenore di vita (perdita del potere di acquisto, aumento delle tariffe, degli affitti, privatizzazione dei servizi etc.).
La perdita di diritti e di garanzie per i lavoratori e per i settori popolari. In termini di salario sociale (nella forma dello Stato sociale e dei servizi), la perdita di diritti e di garanzie per i lavoratori e per i settori popolari non è il prodotto delle migrazioni (spontanee o indotte), ma della lotta di classe brutale e feroce avviata dalle classe dominanti dopo la fine del blocco democratico-popolare, e soprattutto dell’Unione Sovietica: se quel mondo aveva una debolezza strutturale, oltreché politica, espressa dalla chiusura inerziale di un macigno simbolico come quello del “muro di Berlino”, fino alla dissoluzione di inizio anni ’90 esso ha comunque rappresentato un’alternativa ideologico-culturale (sempre più contraddittoria, poco efficiente e sempre più asfissiante) al mondo capitalistico, in cui vige la selvaggia concorrenza di mercato, la logica del profitto in nome del quale sono sacrificabili innanzitutto i diritti dei lavoratori, l’occupazione e le garanzie sociali.
Il ritorno del darwinismo social-liberista.
Il capitalismo si è dunque rigenerato non solo sul piano economico-sociale, politico-istituzionale e diplomatico-militare, ma anche su quello ideologico: alle categorie esplicite e chiare come “capitalismo” e “concorrenza” si sono sostituiti termini più soft come “liberismo” o “economia di mercato”, ma soprattutto si è introdotta surrettiziamente una nuova ideologia che sostiene la “naturalità” e “insuperabilità” del sistema vigente, fondato sulla illimitata libertà delle imprese di gestire le risorse umane (operai, impiegati, dipendenti in generale), quelle ambientali (territori e beni comuni naturali), quelle sociali e culturali (sanità, trasporti, istruzione, arte) nel puro interesse privato, della prevaricazione del più forte sul più deboli, secondo le logiche perverse del raggiungimento ad ogni costo del massimo profitto.
Si tratta quindi di affrontare la questione su un piano teorico più ampio che ci permetta di comprendere più a fondo quali siano le basi dei fenomeni che si vanno sviluppando, come quelli migratori, incontenibili e inarrestabili. Vanno dunque compresi e affrontati con strumenti scientifici e razionali, non solo emotivi (che non guastano, ma non sono sufficienti), sulla base di valori universalistici che sconfiggano l’ipocrita pietismo borghese e integrino la solidarietà umanitaristica con la solidarietà internazionalista, valori etico-politici irrinunciabili e non negoziabili, se si vuole evitare di incorrere in un nuovo crollo di civiltà come avvenuto nella prima metà del secolo scorso.
I nodi teorici da chiarire.
L’aspetto più insidioso che sta emergendo è l’utilizzo di categorie del marxismo per legittimare posizioni di estrema destra, scioviniste, retrograde e regressive, sostanzialmente reazionarie. Questa operazione è ormai sistematica e viene veicolata tramite messaggi propagandistici di “bassa Lega”, o con pretese teoriche e culturali apparentemente più sofisticate, come quelle di Diego Fusaro, in realtà mistificanti, o infine con la presenza sempre più insistente di forze che si richiamano al comunismo e al marxismo, che stravolgono o fraintendono, nel più benevolo dei casi, la visione internazionalista dei comunisti.
Certamente, si può anche decidere di non essere marxisti, tantomeno comunisti, ma allora si dovrebbe evitare di utilizzare in maniera strumentale le categorie marxiane (ad esempio: “esercito industriale di riserva”) per giustificare e legittimare posizioni di sovranismo e suprematismo di settori “privilegiati” di classe operaia (prevalentemente bianca e autoctona, ma anche di immigrati di seconda generazione) che si illudono di difendere le garanzie raggiunte chiudendo i porti a discapito di altri settori proletari, uno o più gradini sotto nella scala gerarchica. È la riproposizione dell’ideologia colonialista veicolata dall’imperialismo ottocentesco e primo-novecentesco. Anziché unificare le lotte e integrare questo nuovo proletariato giovane e combattivo, che permetterebbe un salto di qualità nella lotta di classe nei paesi avanzati del capitalismo occidentalizzato, contro i veri nemici di classe che detengono la ricchezza e soprattutto il controllo del sistema, si indica nei migranti coloro che provocano le condizioni di arretramento dei lavoratori, accettando condizioni salariali e lavorative impossibili.
Non si può più guardare il dito anziché la luna: i nemici non sono i migranti, ma il sistema criminale (che è l’iceberg su cui si regge economicamente anche il sistema delle imprese “legali”) che sfrutta integralmente la manodopera che si trova a disposizione. Le lotte dei migranti nella logistica sono un piccolo esempio di come si possano avviare i processi di unificazione della classe operaia, contro la disgregazione indotta dalle borghesie dominanti.
Il marxismo come guida ermeneutica da ripristinare.
Non per volontà di erudizione accademica, ma per precisazione di carattere teorico-pratico, ricordiamo due scritti (minori?) di Marx e Lenin che forniscono chiare indicazioni su come si debbano interpretare i processi migratori e il conflitto tra classi operaie concorrenti.
Nella lettera a Meyer e Vogt, fondatori della sezione tedesca dell’Internazionale dei Lavoratori, nella primavera del 1870, poco conosciuta dal grande pubblico, ma nota ai frequentatori dei suoi scritti, Marx affronta la questione irlandese evidenziando come gli operai inglesi considerassero gli irlandesi allo stesso modo in cui oggi vengono considerati i migranti, “come un concorrente che comprime lo standard of life [tenore di vita]”, analogamente ai “poor whites [i bianchi poveri] verso i negri negli Stati un tempo schiavisti dell’unione americana”: così facendo si condannano alla sconfitta, nonostante le organizzazioni politico-sindacali.
Non solo: Marx sottolinea che tale “antagonismo viene alimentato artificialmente e accresciuto dalla stampa, dal pulpito, dai giornali umoristici, insomma con tutti i mezzi a disposizione delle classi dominanti”, che in tal modo rafforzano la “conservazione del potere da parte della classe capitalista”.
La questione che emerge non è dunque né puramente umanitaria, né tantomeno nazionalistica: necessario sarebbe invece “risvegliare nella classe operaia inglese la consapevolezza che l'emancipazione nazionale dell’Irlanda non è per essa una question of abstract justice or humanitarian sentiment [questione di astratta giustizia o di sentimenti umanitari] bensì the first condition of their own social emancipation [la prima condizione per la loro stessa emancipazione sociale]”; ricontestualizzate queste parole ai giorni nostri, la lezione di Marx è che evitare l’antagonismo tra proletari non è semplicemente una questione di astratto sentimentalismo umanitario, ma la condizione per l’emancipazione sociale di tutti i proletari, “regolari” e “irregolari” che siano.
In un’altra fase storica, a pochi anni dal grande conflitto che avrebbe stravolto la civiltà europea e permesso l’avvio dell’esperimento rivoluzionario più radicale della storia fino ad oggi, Vladimir Ilich Ulianov, detto Lenin, in un articolo pubblicato su La Pravda n.22 dell’ottobre del 1913 “Il capitalismo e l’immigrazione operaia”, analizzò i flussi migratori dall’Europa verso gli Stati Uniti, attrattivi per l’industrializzazione accelerata avvenuta tra fine XIX e inizio XX secolo: “Il capitalismo ha creato un tipo particolare di migrazione di popoli. I paesi che si sviluppano industrialmente in fretta, introducendo più macchine e soppiantando i paesi arretrati nel mercato mondiale, elevano il salario al di sopra della media e attirano gli operai salariati di quei Paesi.” Perciò si producono immense migrazioni di operai attraverso distanze enormi, e il sistema capitalistico “li assorbe violentemente nel suo vortice, li strappa dalle località sperdute, li fa partecipare al movimento storico mondiale, li mette faccia a faccia con la possente, unita classe internazionale degli industriali.” A fronte di questo processo gigantesco e immane, Lenin evidenzia che sia la miseria che “costringe gli uomini ad abbandonare la patria”, mentre “i capitalisti sfruttano nella maniera più disonesta gli operai immigrati.” Tuttavia, con parole inequivocabili, Lenin sostiene che “solo i reazionari possono chiudere gli occhi sul significato progressivo di questa migrazione moderna dei popoli”: per un’emancipazione dalle catene del capitale, occorre che si sviluppi “la lotta di classe sul terreno del capitalismo stesso”, e ciò è possibile proprio perché “a questa lotta il capitalismo trascina le masse lavoratrici di tutto il mondo, spezzando il ristagno e l’arretratezza della vita locale, distruggendo le barriere e i pregiudizi nazionali, unendo gli operai di tutti i paesi nelle più grandi fabbriche e miniere [dell’America, della Germania, ecc.]”.
Lenin aveva compreso un secolo fa che le migrazioni sono ineluttabili e producono un balzo in avanti nella unificazione del proletariato su scala mondiale: se la “borghesia aizza gli operai di una nazione contro gli operai di un’altra, cercando di dividerli”, con operazioni propagandistiche a carattere pietistico o xenofobo (a seconda della fase), gli “operai coscienti, comprendendo l’inevitabilità e il carattere progressivo della distruzione di tutte le barriere nazionali operata dal capitalismo, cercano di aiutare a illuminare e a organizzare i loro compagni dei paesi arretrati”.
La situazione odierna è molto diversa, data la crisi di sistema che dall’inizio del secolo non si è ancora risolta, ma una cosa è certa: la propaganda sovranista e suprematista (“Prima gli Italiani!” o: “Prima gli americani/bianchi”) è una mistificazione finalizzata al mantenimento del dominio delle élite borghesi, ed è pertanto un messaggio irricevibile sia se provIene dalle forze reazionarie della Lega e del neofascismo, sia se viene proposto dalle organizzazioni pseudo-marxiste che affogano le categorie della lotta di classe nell’indigesta salsa sovranista.
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