Titolo di studio e lavoro:binomio possibile? Il vero problema è rappresentato dal crollo dei salari e dai mancati investimenti nella istruzione

Tra i tristi e negativi primato italiani ritroviamo il basso numero dei laureati in rapporto alla popolazione e piu' in generale la scarsa corrispondenza tra titolo di studio e professione svolta.  Inutile ripeterci ma qualcuno ha pensato per anni che la soluzione del problema fosse quella dei numeri chiusi per l'accesso alle facoltà pensando cosi' di ridurre alla fonte il numero degli universitari. Hanno pensato, allo stesso scopo, di accrescere le tasse universitarie, di imporre l'obbligo di frequenza per sostenere gli esami, qualcuno si è spinto anche piu' avanti proponendo l'obbligo di sostenere n numero minimo di esami all'anno per avere diritto alla frequentazione proseguendo fino alla laurea.

La realtà racconta ben altro, ossia che in molte facoltà si sta pensando di rimuovere il numero chiuso perchè magari le statistiche i reali fabbisogni di determinate professionalità inducono le aziende, pubbliche e private, a ricorrere a forza lavoro straniera.

Il vero problema del sistema universitario  non è dato solo dalle disparità esistenti tra i vari atenei ma dai mille ostacoli al diritto allo studio rappresentato dall'esiguo numero delle borse a disposizione, dal caro affitti che costringe tante famiglie ad indebitarsi per mantenere i figli.

Ma se il diritto allo studio viene negato dall'assenza di un welfare costruito per incentivare la frequenza dei corsi universitari, esiste una sfiducia generalizzata verso lo studio in generale, verso la utilità di conseguire una laurea, verso corsi di studio giudicati poco utili ai fini lavorativi. E' del resto una vecchia battaglia di Confindustria, quella di mettere bocca nei percorsi di studio e nei programmi di esame, fermo restando che le autorità universitarie spesso si sono dimostrate poco aperte ai cambiamenti della realtà .

Di fatto un laureato italiano nei primi 10\15 anni guadagna decisamente poco, sicuramente meno dei colleghi europei freschi di titolo di studio. Molti ricercatori si recano all'estero perchè in Italia non si investe piu' nella ricerca o lo si fa in misura del tutto inadeguata alle reali necessità, si favoriscono meccanismi di reclutamento arcaici e inadeguati anche a fronteggiare le richieste del cosiddetto mercato.

Se un laureato guadagna troppo poco al cospetto dei colleghi europei non significa che bisogna accrescere le differenze retributive tra laureati e diplomati, un po' come accade in Ue dove il titolo di sudio sovente determina salari superiori del 30\40%. La richiesta , legittima, di salari europei deve valere per tutti e non essere motivo per accrescere disparità economiche già troppo accentuate da 20 anni a questa parte. Sta qui la differenza tra noi e i padroni, questi ultimi vorrebbero acuire le differenze economiche, sociali e salariali, non siamo per restituire a tutte le figure professionali salari dignitosi accrescendone il potere di acquisto.

Altro discorso ancora vale per la spendibilità del dottorato di ricerca o dei masters, non sempre sono anticamera di una occupazione dignitosa e l'assegno mensile è decisamente tra i piu' bassi della Ue, sicuramente inferiore, e non di poco, di altre figure professionali. Il dottorato  ormai non garantisce impiego immediato e vantaggi economici in busta paga, poi esistono sperequazioni anche in base al titolo di studio con il quale si vince il dottorato.

 La continua erosione nei salari reali, ovvero le retribuzioni sempre piu' svincolate dal reale costo della vita rappresentano il vero problema a prescindere dal titolo di studio, anzi statistiche alla mano ci rendiamo conto che ad essere penalizzati sono gli impieghi che non richiedono specializzazione al pari di quelli per i quali è necessario un titolo di studio post laurea. E questa realtà dimostra che la perdita del potere di acquisto colpisce tutti e non saranno certo politiche errate e disuguali a risolvere il problema.

I salari da inizio secolo ad oggi hanno subito un tracollo , si investe sempre meno nella istruzione e nella ricerca, di conseguenza i salari hanno perso potere di acquisto e il valore del titolo di studio in un paese come il nostro ha perso di significato. A non valorizzare i laureati sono proprio coloro che invocano disparità di trattamento economico tra diplomati e laureati, gli stessi che hanno voluto il numero chiuso e si ostinano a rifiutare un sostanziale e credibile pacchetto di aiuto per le famiglie con studenti fuori sede. E non ci vengano a raccontare che  sarebbe l'assenza del merito la causa di ogni problema, basta ricordare alle migliaia di giovani in fuga dall'Italia.

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