Le ambiguità della memoria sul golpe dell’11 settembre 1973 a Santiago del Cile
Le ambiguità della memoria sul golpe dell’11 settembre 1973 a Santiago
del Cile
Enrico Calamai, "Il Manifesto, 09 luglio 2023
Calamai è una figura importante per i naufraghi cileni degli Anni '70.
Lo è ancora di più per quelli argentini.
Noto come "lo Schindler di Buenos Aires”, riuscì a mettere in salvo
oltre 300 perseguitati dal regime militare argentino, ufficialmente
documentati o in base a testimonianze di sopravvissuti.
A Buenos Aires negli anni ’70 del secolo scorso, nel settembre del 1974
venne inviato in missione per tre mesi presso l’ambasciata d’Italia a
Santiago, che all’epoca ospitava 250 rifugiati.
Rientrato presso il Consolato a Buenos Aires, assisteva al montare della
violenza che il 24 marzo del ’76 sboccava nel golpe della banda di
Videla ed altri criminali.
Lasciava l’Argentina nel maggio del 1977, dal 12 aprile 2010 gli sono
dedicati un albero e un cippo al "Giardino dei Giusti di tutto il mondo"
di Milano.
Gli articoli di giornale e i lanci delle agenzie del 6 luglio scorso,
con cui si riferisce sulla Lectio magistralis del Presidente Mattarella
in Cile, aprono con l’affermazione secondo cui «anche un politico ligio
e attento come Aldo Moro violò la prassi. E da ministro degli Esteri
autorizzò per iscritto l’ambasciata italiana a Santiago ad accogliere
gli esuli cileni che cercavano rifugio dalla dittatura di Augusto Pinochet».
Difficile, per chi ha respirato la speranza di cambiamento di quegli
anni, non ricordare la frenesia e la tragicità della mattina dell’11
settembre 1973 a Santiago: i carri armati nelle strade, l’aviazione che
bombarda il Palazzo della Moneda, lo sbaragliamento di qualunque
disorganizzato tentativo di resistenza popolare, la caccia all’uomo, i
detenuti trascinati a forza nello stadio dove saranno in gran parte
torturati e uccisi, la ricerca affannosa di una via di fuga da parte di
coloro che durante il governo di Unidad Popular avevano partecipato alla
vita politica, sindacale, culturale. Tutto sotto l’occhio impietoso
della televisione, utilizzato ad arte come moltiplicatore della
decisione a schiacciare la volontà del popolo cileno con l’uso della
forza e del terrore.
Facile immaginare – in quell’Italia che tanto somigliava politicamente
al Cile, con un Pci in crescita che appariva destinato a entrare in area
di governo – l’accavallarsi delle telefonate tra i soggetti politici,
quelli della sinistra in primo luogo ma anche con la Dc e poi,
soprattutto, le chiamate, le visite, i contatti informalmente
esplicativi tra l’ambasciata Usa e la Farnesina.
Tutto questo, mentre anche l’ambasciata d’Italia era presa d’assalto,
come tutte le altre a Santiago, da un’alluvione di disperati in fuga per
la vita. E cosa avrebbero mai dovuto fare i nostri funzionari in quei
momenti, davanti alla propria coscienza, al proprio senso dello Stato,
all’opinione pubblica italiana di quegli anni, se non spalancare i
cancelli, agevolare l’entrata, aiutare a salvarsi quanta più gente
possibile, anche, è importante ricordarlo, mettendo in certe occasioni a
rischio la propria vita?
La frase riportata all’inizio degli articoli e dei lanci di agenzia,
alquanto infelice, in verità, sembra in fin dei conti evidenziare come,
oscillando tra la montante pressione dell’opinione pubblica italiana,
l’incalzare degli eventi e la cosiddetta solidarietà occidentale, non
senza tentennamenti, la Farnesina abbia dovuto legittimare il fatto
compiuto, pur consapevole delle turbative che ne sarebbero derivate nei
rapporti bilaterali con i golpisti cileni e i dissapori con la
superpotenza a monte.
Da quel momento, tuttavia, il non detto della politica italiana verso il
Cile deve essere stato uno solo: agire per così dire di sponda, fare in
modo da poter cambiare rotta, ricucire lo strappo salvando le apparenze,
esibire mediaticamente sdegno e allo stesso tempo far capire che lo si
faceva non senza rammarico…in una parola, tendere verso una
normalizzazione strisciante con il macellaio di Santiago, il generale
Pinochet, che era pur sempre, scusate la franchezza, «il nostro figlio
di puttana».
Così è stato, anche se ci sono voluti mesi e mesi, sostituzioni,
partenze, una sapiente opera di dosaggio e diluizione del nucleo di
personale originariamente in servizio quell’11 settembre a Santiago,
nella disgiuntiva in cui veniva uccisa la speranza di un nuovo umanesimo
nel mondo occidentale. Con una brutalità spinta al massimo, in quanto
strumento indispensabile per piegare un popolo libero ad accettare il
neoliberismo, come sarebbe poi stato fatto anche in Argentina. Perché,
diciamocelo, il neoliberismo era, ed è, brutalità, economica in primis,
ma non solo, radicalmente incompatibile con la normativa a tutela dei
diritti umani, che pure all’epoca era la bandiera ideologica del mondo
occidentale.
Ci vorrà oltre un anno, prima che il giro di boa possa venir completato.
L’accordo verrà raggiunto nel dicembre 1974: i rifugiati verranno
accolti in Italia; l’ambasciata alzerà il muro e vi installerà la
concertina; i militari cileni aumenteranno la sorveglianza esterna;
l’ultima porta verrà garbatamente chiusa a Santiago. E i rapporti
diplomatici bilaterali verranno gestiti senza pena e senza gloria a
livello d’Incaricatura d’Affari, in attesa di tempi migliori.
Gli articoli di giornale e i lanci d’agenzia sulla Lectio magistralis
del Presidente Mattarella non sembrano dare compiutamente atto alla
complessità del passaggio nodale imposto alla storia dell’umanità
quell’11 settembre, così come sorvola sulla lezione di civiltà
silenziosamente e spontaneamente impartita dal sommerso personale
dell’ambasciata d’Italia a Santiago in quei momenti, che nulla ha
chiesto e nulla ha avuto, tranne l’enorme privilegio di salvare vite umane.
Va tuttavia detto che la fine del testi giornalistici contiene un
riferimento storicamente, a mio avviso, importante, nel riconoscere che
quello di Allende fu un nobile, nobilissimo suicidio, che lo pone
all’altezza degli eroi shakespeariani della Roma antica: con l‘unico
fine di non permettere che la persona del Presidente democraticamente
eletto dal popolo cileno finisse nelle mani macchiate di sangue del
tiranno made in Usa.
Rodrigo Rivas
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