Nuovo contributo al dibattito sull'uscita dall'euro
Facendo
seguito all'ampio e interessante dibattito che si sviluppato a Pisa
nei mesi scorsi in merito alla possibilità e all'opportunità
dell'uscita dalla moneta unica europea, abbiamo più volte
evidenziato che se da un lato la necessità si presenti sempre più
realistica al cospetto dell'impossibilità di riforma delle sue
regole di gestione, dall'altro incertezze e mancanza di strategie
praticabili a fino a questo momento, hanno reso il confronto privo di
soluzioni condivise ed effettivamente attuabili senza provocare
pesanti contraccolpi sociali ed economici.
L'articolo
che proponiamo, realizzato del famoso premio Nobel per l'economia
joseph Stigliz pubblicato sul sito Politico
(https://www.politico.eu/article/opinion-italy-germany-how-to-exit-the-eurozone-euro-reform/),
risulta illuminante in quanto riesce ad individuare strategie
effettivamente percorribili offrendo spunti interessanti per una
proposta di uscita che esula dal campo delle rivendicazioni
sovraniste ed apre nuovi prospettive relative all'elaborazioni di
proposte che mettano al centro gli interessi dei ceti sociali
subalterni. Vale a dire di coloro che hanno subito maggiormente gli
effetti negativi della gestione dell'Euro e della crisi
economico/finanziaria deflagrata nel 2008 e dalla quale il nostro
paese, unico in tutta Europa, non si è ancora ripreso visto che ad
oggi dobbiamo ancora recuperare ben 5 punti di pil rispetto al picco
pre crisi
Andrea
Vento - Gruppo Insegnanti di Geografia Autorganizzati
Come
si esce dall’euro
di
Joseph
Stiglitz:
Qual
è il modo migliore per uscire dall’euro? La domanda torna sul
tavolo dopo la nascita del governo euroscettico in Italia. Sì, è
vero che i principali ministri si sono impegnati a mantenere il paese
nel blocco europeo della moneta unica, ma questi impegni non devono
essere visti come immutabili. Devono essere considerati nel contesto
più ampio della posizione contrattuale italiana. Il nuovo governo
vuole chiarire che non è lì per far saltare tutto per aria.
Preferirebbe restare nell’eurozona, ma vuole anche il cambiamento.
I
nuovi leader italiani hanno ragione nel ritenere che l’eurozona
abbia assolutamente bisogno di una riforma. L’euro è stato
difettoso fin dalla sua origine. Per paesi come l’Italia, l’euro
ha tolto due meccanismi fondamentali di aggiustamento: il controllo
sui tassi di interesse e il tasso di cambio. E al posto di sostituire
questi meccanismi con qualcos’altro, l’euro ha introdotto rigidi
parametri sul debito e sul deficit, cioè ulteriori impedimenti alla
ripresa economica.
Il
risultato per l’intera eurozona è stato quello di una minore
crescita, soprattutto per i paesi più deboli. L’euro avrebbe
dovuto, nelle intenzioni, portare grande prosperità, e questo
avrebbe dovuto rinnovare gli impegni verso l’integrazione europea.
In realtà ha fatto proprio l’opposto. Ha aumentato le fratture
all’interno dell’Unione europea, soprattutto tra creditori e
debitori.
Le
spaccature che ne sono risultate hanno reso più difficile risolvere
anche gli altri problemi, e in particolare la crisi
dell’immigrazione, sulla quale le regole europee impongono un peso
eccessivo ai paesi di frontiera che ricevono i migranti, come la
Grecia e l’Italia. Oltretutto questi sono due paesi con problemi di
debito, già piegati dalle difficoltà economiche. Non sorprende
vedere una ribellione.
Le
resistenze tedesche
Cosa
si debba fare è ben chiaro. Il problema è la riluttanza tedesca nel
farlo.
L’eurozona
ha riconosciuto già da molto tempo la necessità di un’unione
bancaria.
Ma Berlino insiste nel posticipare la riforma chiave che servirebbe
per questo – quella di una garanzia comune sui depositi – che
ridurrebbe le fughe di capitali dai paesi più deboli: la fuga di
capitali è un fattore chiave nello spiegare la profondità della
recessione nei paesi in crisi.
Le
politiche economiche adottate dalla Germania al proprio interno
aggravano i problemi dell’eurozona.
La sfida economica principale dei paesi in un’unione monetaria è
la loro impossibilità di aggiustare il tasso di cambio quando questo
è disallineato. In eurozona, il peso dell’aggiustamento viene oggi
imposto ai paesi debitori, che già stanno soffrendo di bassa
crescita e bassi redditi. Se
la Germania adottasse una politica fiscale e dei redditi più
espansiva, alcune delle pressioni sui paesi debitori sparirebbero.
Se
la Germania non vuole intraprendere i passi fondamentali per
migliorare l’unione monetaria, potrebbe adottare la seconda miglior
scelta, quella di uscire dall’eurozona.
Come ha detto George Soros, la Germania deve guidare la situazione
oppure deve uscire. Con la Germania (ed eventualmente altri paesi
dell’Europa del nord) fuori dall’unione monetaria, il valore
dell’euro scenderebbe, facendo aumentare le esportazioni
dell’Italia e degli altri paesi dell’Europa del sud. La maggiore
fonte di disallineamento scomparirebbe. Al tempo stesso l’aumento
del tasso di cambio della Germania darebbe un grosso contributo a
correggere uno dei principali fattori destabilizzanti dell’economia
globale: lo
squilibrio commerciale tedesco.
Perché
uscire
Il
problema, ovviamente, è che la Germania si ostina a rifiutare di
intraprendere qualsiasi dei due percorsi. Questo lascia i cittadini
di paesi come la Grecia e l’Italia con una scelta che non
vorrebbero dover prendere, quella tra l’appartenenza all’eurozona
e la prosperità economica.
Un
timido e inesperto governo greco ha scelto di restare nell’unione
monetaria. Il risultato è stato quello della stagnazione. Nel 2015
il PIL greco era già crollato del 25 percento rispetto al picco
pre-crisi. Da allora non si è praticamente mosso.
L’Italia
ha ora l’opportunità di fare una scelta diversa. In assenza di
riforme significative, i
benefici di un’uscita dell’Italia dall’euro sarebbero evidenti
e notevoli.
Un
tasso di cambio più basso permetterebbe all’Italia di esportare di
più.
I consumatori cambierebbero i prodotti di importazione con prodotti
made-in-Italy. I turisti troverebbero il paese più conveniente come
destinazione. Tutto questo stimolerebbe la domanda e aumenterebbe il
gettito fiscale di cui il governo può disporre. La crescita
aumenterebbe, i livelli di disoccupazione dell’Italia (all’11,2
percento, con il 33,1 percento di disoccupazione giovanile)
scenderebbero.
Ci
sono, certo, anche altre ragioni dietro le difficoltà economiche
italiane, e queste sarebbero solo parzialmente risolte da un’uscita
dall’euro. Governi come quelli del presidente USA Donald Trump, o
dell’ex Primo Ministro italiano Silvio Berlusconi – che non hanno
alcuna comprensione delle vere basi di una crescita sostenibile nel
lungo termine – non forniscono la leadership politica necessaria
per una crescita forte e sostenibile.
Al
tempo stesso, però,
la crescita fiacca e la disuguaglianza che l’Italia ha avuto come
risultato dell’appartenenza all’euro porta quasi inevitabilmente
terreno fertile a tali populisti.
Ci
sarebbero anche altri benefici politici. Una Italia più prospera
potrebbe più facilmente cooperare in aree chiave nelle quali
l’Europa ha bisogno di un lavoro coordinato: l’immigrazione, le
forze di difesa europee, le sanzioni alla Russia, le politiche
commerciali.
Le
politiche sul commercio e sull’immigrazione portano benefici
all’intero paese, ma ci sono anche quelli che possono perderci, e i
vincoli fiscali dell’eurozona hanno reso praticamente impossibile
fornire a questi ultimi tutele adeguate. Un’Italia fuori
dall’eurozona potrebbe meglio beneficiare delle proprie politiche
internazionali, e al tempo stesso ridurre le sofferenze che queste
potrebbero portare come effetto collaterale.
Come
farlo
La
sfida, naturalmente, è quale sia il modo migliore per uscire
dall’eurozona minimizzando i costi economici e politici. Un’ampia
ristrutturazione del debito,
condotta con speciale attenzione alle conseguenze che avrebbe per le
istituzioni finanziarie interne, sarebbe essenziale. Senza una tale
ristrutturazione, il peso del debito denominato in euro salirebbe,
annullando forse una gran parte dei potenziali vantaggi.
Queste
ristrutturazioni del debito sono una parte normale delle ampie
svalutazioni. Talvolta vengono fatte tranquillamente e
silenziosamente, come quando gli USA sono usciti dal gold standard.
Talvolta invece sono fatte più apertamente, come nei casi di Islanda
e Argentina, tra gli strepiti dei creditori. Tuttavia queste
ristrutturazioni del debito vanno viste come un rischio intrinseco
nel momento in cui si decide di investire all’estero, e sono una
delle ragioni per le quali i titoli “stranieri” di solito
fruttano un premio di rischio.
Da
un punto di vista economico la cosa più semplice sarebbe che le
entità italiane (governo, imprese e singoli individui)
ridenominassero semplicemente il debito da euro a nuova lira. Ma a
causa delle complessità legali all’interno della UE, e a causa dei
vincoli internazionali dell’Italia, potrebbe essere preferibile
attuare una super amministrazione controllata, ricorrendo alla
ristrutturazione del debito per qualsiasi entità per la quale la
nuova moneta presenti seri problemi economici. La legge fallimentare
rimane un’area a totale discrezione di ciascuno dei singoli paesi
membri della UE.
L’Italia
potrebbe perfino decidere di non annunciare la propria uscita
dall’euro. Potrebbe semplicemente emettere dei titoli (diciamo
equiparabili a titoli del debito pubblico) accettati come mezzo di
pagamento per qualsiasi obbligazione denominata in euro. Una
diminuzione del valore di questi titoli equivarrebbe a una
svalutazione. Questo ripristinerebbe al tempo stesso la possibilità
di una politica monetaria in Italia: i cambi di politica della banca
centrale influenzerebbero il valore dei titoli.
Urla
e proteste
Certo,
ci sarebbero urla e proteste da parte di altri paesi dell’eurozona.
L’introduzione di una moneta parallela, anche in modo informale,
violerebbe quasi sicuramente le regole dell’eurozona e sarebbe
certamente contro il suo spirito. Ma in questo modo l’Italia
potrebbe lasciare agli altri paesi la scelta di una eventuale
espulsione dall’eurozona.
Roma
potrebbe approfittare della situazione dato che i litigiosi membri
dell’unione monetaria potrebbero anche non intraprendere mai una
tale azione forte, azione che confermerebbe palesemente che
l’eurozona è compromessa. A quel punto l’Italia avrebbe vinto
tutto. Resterebbe dentro l’eurozona e al tempo stesso avrebbe fatto
una svalutazione.
E
se anche l’Italia dovesse perdere questa scommessa, il peso
politico della sua uscita dall’eurozona ricadrebbe chiaramente sui
suoi “partner”. Sarebbero loro, infatti, a dover fare l’ultimo
passo.
La
Grecia si è arresa e si è lasciata strangolare dalla Banca Centrale
Europea. Ma non era costretta a farlo. Atene era già avanti nella
creazione dell’infrastruttura (un meccanismo di pagamenti
elettronici in una nuova dracma) che avrebbe facilitato la
transizione verso l’uscita dall’eurozona.
Gli
avanzamenti tecnologici nel corso degli ultimi tre anni hanno reso
molto più semplici ed efficaci i sistemi di creazione di moneta
elettronica. Se l’Italia decidesse di usare uno di questi, non
dovrebbe nemmeno preoccuparsi delle difficoltà legate alla stampa di
nuova moneta cartacea.
L’Italia
potrebbe anche attenuare alcuni dei problemi dell’uscita se si
coordinasse, in una tale mossa, con altri paesi che si trovano nella
sua stessa posizione.
L’ampio
ed eterogeneo gruppo di paesi che compone ora l’eurozona è ben
diverso da ciò che gli economisti definiscono area valutaria
ottimale. C’è troppa diversità, troppe differenze, per farla
funzionare senza quel miglioramento istituzionale sul quale la
Germania ha già messo il veto.
L’eurozona
del sud da sola sarebbe molto più simile ad un’area valutaria
ottimale.
E se può essere difficile coordinare l’uscita di molti paesi in
poco tempo, dopo una eventuale ed efficace uscita dell’Italia
dall’euro, quasi certamente altri paesi la seguirebbero.
Costi
e benefici
A
dire il vero non si devono nemmeno sottostimare i costi di un’ampia
svalutazione.
Qualsiasi grosso cambiamento in una variabile fondamentale
dell’economia implica una forte perturbazione.
Il
prezzo della valuta è, ovviamente, cruciale in un’economia aperta.
Ha degli effetti a catena sui prezzi di tutti gli altri beni e
servizi. Alcune, forse molte, aziende andranno in bancarotta. Alcuni,
forse molti, individui vedranno diminuire i propri redditi reali.
Ma
è altrettanto importante non sottostimare i costi dell’attuale
situazione italiana. Se l’Italia fosse cresciuta come il resto
dell’eurozona negli ultimi 20 anni, cioè da quando l’euro è
stato creato, oggi il suo PIL sarebbe del 18% più alto.
Il
costo della disoccupazione a lungo termine, specialmente tra i
giovani, è enorme. I giovani tra i 20 e i 30 anni dovrebbero
accrescere la propria professionalità lavorando. E invece se ne
restano a casa a non far nulla, e molti nutrono risentimenti verso
quelle élite e istituzioni alle quali attribuiscono la propria
condizione. Ciò che ne risulta è una mancanza di formazione di
nuovo capitale umano, e questo pesa negativamente sulla produttività
per gli anni a venire.
In
un mondo ideale l’Italia non dovrebbe essere costretta a uscire
dall’eurozona. L’Europa potrebbe invece riformare l’unione
monetaria e fornire una protezione migliore per quelli che sono
negativamente colpiti dalle disposizioni sul commercio e
sull’immigrazione.
Ma
in assenza di un cambio di direzione della UE nel suo insieme,
l’Italia deve ricordarsi che esiste un’alternativa alla
stagnazione economica e che ci sono modi di uscire dall’eurozona
tali che i benefici superano molto probabilmente i costi.
Se
il nuovo governo italiano sarà in grado di gestire una tale uscita,
l’Italia starà meglio. E starà meglio anche il resto d’Europa.
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