SPECIALE ECUADOR

Ieri si sono tenute il secondo turno delle elezioni presidenziali in Ecuador. Una tornata fondamentale non solo per il futuro del piccolo paese andino ma anche per gli assetti gepolitici dell'intero subcontinente latinoamericano  e per la sopravvivenza del progetto di integrazione regionale Sud-Sud che vede al centro l'esperineza dell'Alba.
Un ritorno delle destre metterebbe a rischio la tenuta e lo sviluppo di tale progetto, dopo la crisi del Mercour determinata dal cambio di governo in Argentina e del golpe istituzionale in Brasile.
Le destre avevano preannunciato di non riconosecere i risultati in caso di sconfitta di misura e così è stato..
Il risultato quasi definitivo vede Moreno in vantaggio e come preannunciato sono iniziate le proteste di piazza e gli appelli all'Osa e al suo presidente Almagro così' impegnato in questi mesi contro il governo bolivariano del Venezuela. Assisteremo alla solita strategia destabilizzante anche nei confronti dell'Ecuador..?

In baso riportiamo l'articolo del corriere della sera uscito poche ore fa e l'articolo della Colotti uscito ieri che presenta il quadro generale della situazione politica dell'Ecuador e gli esiti delle legislative e del referendum contro i Paradisida svolti un paio di mesi fa.

Il coordinamento AUTOGESTITO DEGLI INSEGNANTI DI GEOGRAFIA



Lenin Moreno vince le elezioni in Ecuador, ma il suo avversario, Guillermo Lasso, contesta il risultato. Situazione tesa a Quito e nel resto del Paese, dopo che il candidato filogovernativo Moreno, ex vicepresidente del governo socialista di Rafael Correa , ha conquistato il 51,07% dei voti con quasi il 95 % di schede scrutinate.
Il voto
La popolazione era chiamata al voto per il ballottaggio per le presidenziali per scegliere se continuare a seguire la strada socialista intrapresa dal presidente uscente Correa o optare per la destra al governo. «Votare per la continuità o il cambiamento» aveva detto Lasso chiudendo la sua campagna elettorale e ribadendo la sua promessa, se eletto, di creare un milione di posti di lavoro e di tagliare le tasse. Gli exit-poll diffusi subito dopo la chiusura delle urne, dava Lasso momentaneamente in testa con il 53,02% delle preferenze contro il 46,98% del conservatore Moreno. Un divario che si è poi invertito nel conteggio reale dei voti. Tanto da portare entrambi i candidati a reclamare la vittoria per sé. «Oggi, è un nuovo giorno» aveva già annunciato ai suoi che urlavano parole come «libertà» e «fuori i ladri». Un trionfo annunciato troppo presto e che ha scatenato l’ira della popolazione. Un invito alla calma è arrivato dallo stesso ex presidente Correa ha svelato: Se i risultati sono così diversi, evidentemente qualcuno mentiva».
Lasso e l’invito alla popolazione a scendere in strada
Lasso però ha annunciato di voler impugnare i risultati del voto,proprio mentre Correa da twitter ha fatto un appello alla calma e a non prendersela. «Il mio staff sta lavorando per presentare una serie di obiezioni.. ho parlato con il segretario generale dell’Organizzazione degli stati americani» ha fatto sapere Lasso invitando i cittadini e chi lo ha votato a «scendere nelle strade» e difendere - ha scritto via Twitter - «in modo pacifico il voto».
Assange «salvo»
La vittoria di Moreno rappresenta per Julian Assange, il fondatore di Wikileaks, la possibilità di rimanere rifugiato nell’ambasciata ecuadoregna a Londra che gli ha offerto asilo nel 2012 per impedire la sua estradizione in Svezia. Moreno aveva infatti dichiarato esplicitamente che Assange poteva restare. Il candidato della destra invece aveva annunciato di essere intenzionato a sfrattare Assange entro trenta giorni dalla sua entrata in carica: «L’Ecuador non dovrebbe spendere neanche un centesimo per proteggere qualcuno che sicuramente ha fatto trapelare informazioni riservate», secondo Lasso. Assange è rimasto rintanato nella piccola ambasciata per quasi cinque anni, protetto dal governo ecuadoregno di sinistra dall’estradizione per l’accusa di stupro. Come è apparso chiaro che Lasso era sull’orlo della sconfitta, Assange gli ha inviato un messaggio: «Invito cordialmente Lasso a lasciare l’Ecuador entro 30 giorni, con o senza i suoi milioni di paradisi fiscali», ha scritto su Twitter, lanciandogli una stoccata sulle accuse che lo hanno colpito, di aver evaso tasse spostando capitali all’estero. Moreno ha invece confermato che Assange potrà rimanere, anche se ha avvisato che potrebbe assumere una posizione più rigida. A febbraio aveva sottolineato in un’intervista che avrebbe chiesto ad Assange di non intervenire nella politica dei Paesi amici dell’Ecuador. Una dichiarazione che conferma quando sia vulnerabile la posizione di Assange, nonostante l’appoggio di Moreno.

«È in gioco in Ecuador la rivoluzione dei cittadini»
Intervista. Oggi il ballottaggio delle presidenziali. Intervista al ministro degli esteri Guillaume Long: «Questo voto rappresenta una trincea per tutta l’America latina. Con l’arrivo di Trump, l’integrazione latinoamericana non deve tornare indietro»

«L’Ecuador oggi è una trincea per tutta l’America latina». Così dice al manifesto Guillaume Long, ministro degli Esteri e della mobilità umana. Lo abbiamo incontrato all’Istituto italo-latinoamericano (Ila) durante la firma di un protocollo d’intesa con le Piccole e medie imprese per progetti di microcredito rivolti ai migranti ecuadoriani.
Oggi, il suo paese decide chi sarà il successore di Rafael Correa alla presidenza. Per Alianza Pais – la compagine governativa – corre Lenin Moreno. Per l’alleanza Creo-Suma, il banchiere Guillermo Lasso.
Al primo turno, Moreno ha ottenuto 39,36% (3.716.343), mentre Lasso ha totalizzato il 28,09% (2.652.403 voti). Un voto-chiave per la regione, in un momento di grande offensiva conservatrice e di grande tensione nel paese.
Le destre hanno intenzione di non riconoscere i risultati in caso di scarto minimo. Contano su buone entrature negli altri comandi delle Forze armate e nella polizia che, nel 2010, ha avuto l’ardire di sequestrare il presidente. Confidano nel voto di protesta di alcuni settori indigeni che si ritengono traditi da Correa, e anche sulla parzialità di componenti all’interno del Consejo Nacional Electoral (Cne).
Lasso, padrone del Banco de Guayaquil è noto per il cosiddetto «feriado bancario». Durante la crisi finanziaria del 1999, l’8 marzo venne decretato un giorno di ferie delle banche, che poi si prolungò per cinque, durante i quali vennero sospese tutte le operazioni: il tempo di portare i soldi all’estero e di lasciare a secco i risparmiatori.
L’allora presidente Jamil Mahuad, foraggiato dai banchieri, decretò «il congelamento dei depositi» per un anno.
Come valuta i risultati del primo turno? Di sicuro avete vinto alla grande sul referendum contro i paradisi fiscali.
A febbraio si sono svolti 3 processi elettorali importanti: presidenziali, legislative e referendum. Moreno ha superato Lasso di 11 punti, ma ci sono mancati 66.000 voti su 12 milioni di aventi diritto. Per vincere occorreva o il 40% con dieci punti di differenza o il 50 più uno. Sono sicuro che vinceremo ora. Intanto, abbiamo la maggioranza alle legislative (74 su 136, oltre la metà dei deputati) e questo ci consentirà comunque di governare. Un fatto importante nel contesto latinoamericano delle nostre democrazie presidenziali.
Abbiamo visto quel che è successo in Brasile, quel che sta succedendo in Venezuela con lo scontro tra legislativo ed esecutivo. Senza maggioranza in Parlamento, si possono destabilizzare i governi. Non è lo stesso quorum che avevamo prima, ma dopo 10 anni di governo si può considerare fisiologico. Il terzo voto poteva apparire un azzardo. Di solito i governi preferiscono indire i referendum durante la «luna di miele».
Il popolo, però, ha capito che si trattava di un tema di interesse nazionale e globale contro i paradisi fiscali e ha votato per proibire a tutti i funzionari pubblici e a tutti gli eletti di avere beni e conti offshore, dove s’invola l’equivalente di circa il 30% del nostro Pil. Succede nella maggior parte del sud globale e anche nei paesi ricchi.
Solo che quelli in via di sviluppo vengono privati di risorse fondamentali. In Ecuador le imposte sono basse (20% rispetto al 38% in Europa), ma conmunque le élite non le pagano. Nel 2016, il presidente Correa ha approfittato dello scandalo dei Panama Paper’s perlanciare un patto etico al paese. A settembre abbiamo posto il tema a livello internazionale. All’Onu abbiamo rilanciato una vecchia battaglia del sud globale: la costituzione di un gruppo intergovernativo per la giustizia fiscale.
Lasso ha votato No.
Per non andare contro i suoi interessi. Sappiamo che possiede almeno 49 imprese offsfhore. Fino al 2014, le rimesse degli immigrati ecuadoriani all’estero, espulsi dalle politiche neoliberiste, sono state al primo posto nelle entrate del paese, prima ancora di quelle petrolifere: 1.700 milioni di dollari all’anno, inviati a 100 euro alla volta. Più o meno l’equivalente di quanto questi banchieri esportano in un anno nei paradisi fiscali. Per questo è importante che l’Ecuador non torni indietro e che il processo progressista costituente prosegua. Questo voto oggi è una trincea per tutta l’America latina.
Come ministro degli Esteri, come valuta questi primi mesi dell’amministrazione Trump?
Finora abbiamo cercato di non cadere nelle provocazioni, rispettiamo le decisioni degli elettori statunitensi, ma di certo siamo molto preoccupati. Noi crediamo vadano costruiti ponti, non muri. Negli Usa vive più di un milione di migranti ecuadoriani, sia quelli regolari che quelli irregolari si rivolgono ai nostri consolati, chiedono informazioni e aiuto. Abbiamo esteso l’orario degli uffici, istituito in tutto il paese seminari informativi e sportelli legali gratuiti. Abbiamo fatto rete con tutti i sindaci, i giudici che non accettano le deportazioni di Trump. Anche Obama ha raggiunto record nelle deportazioni: circa 1.200 ecuadoriani all’anno, ma non ne ha fatto una politica di stato. Un motivo in più per consolidare l’integrazione latinoamericana. Alcuni blocchi regionali come Celac e Unasur si sono già espressi contro la politica dei Muri.
Ma l’integrazione latinoamericana non è a rischio? Come valuta le decisioni di Almagro all’Osa contro il Venezuela?
Bisogna capire che, come fu per l’Unione europea delle origini, l’integrazione regionale deve diventare una politica degli stati, non solo dei governi. Anche se la logica del capitale esiste, essere uniti serve a non farsela imporre. Questo purtroppo non è scontato. I Segretari generali, di qualunque organismo, devono rispondere a chi li ha eletti, non ergersi a presidenti planetari assumendo il punto di vista di una parte sola, come sta facendo Almagro. Lo critichiamo perché con le sue ingerenze viola la sovranità del Venezuela e la legalità delle istituzioni. Non può agire al di fuori del suo mandato.

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