Lavoro gratificante? La trappola del quality working
fonte Strategie collaudate per sviluppare test di garanzia della qualità! | Impulso tecnologico di Sulekha
Lavoro gratificante? La trappola del quality working
di Emiliano Gentili e Federico Giusti
L'idea
che il lavoro possa diventare gratificante se svincolato da rigidi orari e
strutturato per obiettivi si va insinuando nelle analisi mediatiche.
Siamo
ancora in attesa di conoscere gli effetti degli anni di smart working
sulla nostra salute psicofisica, come sulle capacità relazionali, e lo stesso
discorso vale per la didattica a distanza cui sono stati sottoposti milioni di
studenti e studentesse.
I
più vecchi ricorderanno un pernicioso dibattito di quasi 20 anni fa che poi spianò
la strada all'attacco del Governo Renzi allo Statuto dei Lavoratori. Si parlava
di eccessive tutele riservate alla forza lavoro "anziana" rispetto a
quella "giovane", auspicando la rinuncia ad alcuni diritti da parte della
prima a solo vantaggio delle accresciute tutele della seconda.
La
storia è andata, come era facile prevedere, in altra direzione: cancellate
determinate tutele e disinnescata la via giudiziaria al reintegro in caso di
licenziamento, le tutele per la forza lavoro giovane non sono mai arrivate e,
anzi, proprio le norme pensate a loro vantaggio si sono rivelate essere una
ghigliottina sospesa sulle loro teste.
Analogo
ragionamento potremmo farlo sulle pensioni. L’introduzione del sistema
contributivo per la tenuta dei conti statali si sta dimostrando una iattura per
chi andrà in pensione tra 20 o 30 anni, tra vuoti contributivi e precarietà
occupazionale e di vita. Anche in quel caso la narrazione mainstream fu
quella che il contributivo dovesse favorire la tenuta dell'intero sistema
previdenziale per assicurare un assegno alle future generazioni, salvo poi
scoprire la esiguità di quell'assegno.
Oggi
un copione analogo vorrebbe orientare i lavoratori verso una scelta di
occupazioni gratificanti ma instabili, perché la certezza del posto
fisso renderebbe uomini e donne infelici, sarebbe meglio, per loro, lavorare ad obiettivi e con un salario non
necessariamente disciplinato da un qualche contratto nazionale.
Nell'immaginario collettivo, l'aspetto economico diventa
una sorta di variabile dipendente dalla propria felicità, salvo poi scoprirsi
precari, stressati e infelici, senza potere di acquisto e incapaci di
programmare scelte importanti per la nostra vita.
Una
sorta di precarietà estrema ma virtuosa, di esistenza liberata dal posto fisso
e dalla rigidità oraria ma all'insegna della precarietà occupazionale e
retributiva.
Il quality
working diventa il cavallo di Troia per la forza lavoro, il
passaggio sicuro per un futuro alla mercè del mercato del lavoro. Non a caso
viene teorizzato dalle associazioni datoriali con apposite ricerche:
«In questo senso, possiamo sostenere che –
guardando alla dimensione del lavoro e alle sue prospettive future, più che di
smart working, siamo al cospetto di quality working: la ricerca “qualità nel
lavoro”. Ben inteso: gli aspetti materiali (condizioni, tutele, salario)
continuano a essere importanti. Ma, a parità di condizioni, diventano centrali
e determinanti altre dimensioni, più espressive e soggettive, come le buone
relazioni nel luogo di lavoro, le possibilità di prospettive di carriera,
l’identificazione e il coinvolgimento nei valori dell’impresa, la formazione e
così via. In una parola, gli aspetti «qualitativi» del lavoro.
Ma
in questa fase storica le aziende stanno già sperimentando le difficoltà di
sedurre e trattenere i/le giovani. Siamo forse all’inizio di una nuova
discontinuità che richiede non solo singole iniziative o di saper rispondere
alle attese di candidati che rispondo alle 9 selezioni “le farò sapere se la
sua offerta mi interessa”, in un rovesciamento di ruoli fra domanda e offerta.
È necessario un ripensamento complessivo dell’organizzazione lavorativa delle
imprese e delle sue politiche per il capitale umano. All’insegna più che dello
smart working, del quality working[1]».
Tra
le motivazioni della diffusione e dell’accettazione, da parte dei lavoratori,
della mobilità occupazionale e del tramonto del posto fisso, si ritrova non
solo la ricerca di migliori retribuzioni ma anche quella di orari flessibili,
che permettano di coniugare i tempi di vita con quelli lavorativi.
Flessibilità
oraria sempre più diffusa e che fa il paio con un altro tipo di flessibilità,
quella operativa, sperimentabile cioè sul posto di lavoro mentre si esegue la
mansione. Lavorare con un sistema di turnazione irregolare, però, specie se per
necessità di vita extra-lavorative, non conduce a una migliore distribuzione
del carico di lavoro nell’arco della settimana, o del mese, ma al contrario
determina l’insorgere di accumuli e quindi di stress psico-fisico, con l’obbligata
adozione di ritmi di lavoro più alti.
Da
parte dell’azienda, la capacità di ottenere una sinergia o quanto meno un
impiego efficiente dei tanti lavoratori che saranno impiegati con turni e orari
diversi non sarà scontata ma andrà ottenuta tramite un processo di evoluzione e
implementazione dell’organizzazione aziendale del lavoro. Tale processo può
necessitare investimenti economici di un certo rilievo e non può essere
innescato da una qualsiasi impresa.
L'idea
di un lavoro non fisso, difatti, è forse nuova nell'immaginario italiano ma
sicuramente presente da decenni nei
capitalismi statunitensi e anglosassoni, nei modelli imperanti nel Nord Europa.
Rimane scarsamente adattabile nel capitalismo “made in Italy” per i
limiti riscontrabili nella nostra organizzazione del lavoro, per la scarsa
propensione ai processi formativi e alla innovazione tecnologica, per l’atavico
tentativo di ridurre sempre e comunque il costo del lavoro nel tentativo di
evitare costosi investimenti che implementino i processi produttivi.
Ecco
allora l’idea della riduzione oraria a parità di salario e di produttività, di
cui abbiamo avuto modo di parlare in passato[2],
che non per caso piace anche ad alcune grandi imprese, speranzose forse di
poter conseguire uno sviluppo dell’organizzazione del lavoro a costi inferiori,
tramite una sperimentazione preventiva. Una sperimentazione che si esegue
riducendo l’orario (si parla di settimana breve, in genere) ma imponendo ritmi
più alti proprio in virtù dell’obbligo (stabilito a livello contrattuale) di
mantenere gli stessi livelli di produttività di prima.
Sullo
smart working il discorso è analogo: non è dimostrabile che rappresenti
una sorta di liberazione dalla fissità degli orari, quando il diritto alla
disconnessione viene facilmente r\aggirato, per non parlare poi delle mansioni
esigibili, in barba alle declaratorie professionali dei contratti nazionali.
Il
fenomeno delle dimissioni o più genericamente la fuga dal lavoro viene
considerato una sorta di processo di autoliberazione dallo sfruttamento,
dimenticando che sono invece i bassi salari e le condizioni materiali in
costante deterioramento della vita lavorativa a determinare questi processi.
Ma
nell'immaginario collettivo costruito ad arte dalle associazioni datoriali
bassi salari, insufficienti tutele collettive, inadeguatezza del welfare
vengono deliberatamente taciute per cedere a una narrazione edulcorata nella
quale la libera scelta individuale viene presentata come espressione di un
radicale cambiamento del paradigma e della cultura.
Il quality
working, quindi, si rivela essere soltanto l’ennesimo tassello di una
tendenza generale all'abbattimento di vincoli e tutele per il lavoro dipendente
in nome di un tipo di professionalità che nasce fra i manager e i
dirigenti [Sennett, 1998], si diffonde nelle fasce alte del lavoro dipendente e
ora pretende di fungere da modello per tutta la forza lavoro. È un abbaglio,
perché la flessibilità operativa, quando non è accompagnata da discrezionalità
e autonomia sul lavoro (com’è invece nel caso di manager e dirigenti),
si traduce automaticamente e per forza di cose in un aumento dei ritmi e nel
deterioramento psicologico del lavoratore.
Detto
in altri termini, la schiavitù del capitalismo della sorveglianza diventa un
inno alla libertà individuale.
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