Guerre vicine, memorie lontane: perché educare al ricordo oggi è decisivo.

 Guerre vicine, memorie lontane: perché educare al ricordo oggi è decisivo.

di Laura Tussi



In un tempo segnato dal ritorno della guerra in Europa, dal massacro quotidiano di civili, dalla normalizzazione della violenza e dalla rimozione collettiva del passato, la memoria storica non è un esercizio nostalgico né un rituale commemorativo, ma un dispositivo educativo e politico essenziale. Quando i conflitti tornano a bussare alle porte di casa, quando il linguaggio bellico invade l’informazione e anestetizza le coscienze, ricordare diventa un atto di resistenza civile. I Laboratori della Memoria si collocano in questo spazio critico: come pratica pedagogica capace di restituire profondità storica all’esperienza individuale e collettiva, di ricostruire legami tra generazioni e di contrastare l’omologazione, l’oblio e l’indifferenza che alimentano nuovi conflitti.

Laboratori della Memoria

La dimensione pedagogica si confronta oggi con il contrasto profondo tra civiltà e inciviltà e si trova spesso in grave imbarazzo di fronte a fenomeni trasgressivi che assumono la forma di una sfida aperta al mondo e al sistema, generata all’interno dei gruppi.

La preoccupazione per la trasgressione rientra pienamente nella deontologia professionale di ogni educatore e pedagogista, che non può limitarsi a descrivere, osservare e analizzare le fenomenologie sociali – come accade nella psicosociologia o nell’antropologia – ma è chiamato a intervenire nei gruppi in modo concreto e reale. L’intervento educativo assume allora un carattere militante: non per reprimere, ma per rendere i gruppi “impari”, per introdurre al loro interno una scissione feconda, capace di innescare dinamiche di confutazione e di messa in discussione di affinità presunte e idealizzate.

Si tratta di disgregare legami elettivi spesso inibitori, di introdurre diversità scomode e insopportabili, generando una dissociazione feconda degli elementi che consenta di orientarne le energie verso attività costruttive e creative. In questo processo le cariche emotive e pulsionali vengono sublimate, perché “smettere di cercare, di imparare, di avventurarsi altrove è più devastante del morire”.

Il rapporto tra le generazioni

Gli adulti educatori sono chiamati a provocare e a sfidare la coesione apparentemente indissolubile del gruppo, affinché si produca un naturale scioglimento: una scissione interna sofferta, perturbante, spesso accompagnata da sentimenti di nostalgia e di abbandono. Il gruppo dei pari si trasforma così, nel tempo, in un gruppo amicale, non più omogeneo, segnato dalla perdita di alcuni elementi e dall’acquisizione di altri. In questo passaggio i soggetti imparano a elaborare la sofferenza della separazione, il trauma del distacco affettivo, la solitudine, la fatica dell’esistere, trasformando tali vissuti in risorse positive, valoriali e creative, necessarie per accettare la propria identità e proiettarla in un futuro possibile.

L’educatore assume quindi un ruolo scomodo, disgregante e perturbatore. Crea fratture che disorientano, momenti di scarto, condizioni di disagio e di intolleranza, anche a costo di generare ostilità e conflitti, affinché il gruppo possa attribuirsi una nuova identità e accelerare il proprio processo di crescita. Questo implica sradicare convinzioni precostituite, smascherare miti preconfezionati, declassare idoli inconsistenti, esercitando una funzione di decondizionamento dai mass media e proponendo ambienti sociali di disintossicazione dalla mercificazione dei messaggi consumistici, per formare uomini e donne liberi e consapevoli.

Chi attraversa in gioventù questa dinamica processuale affronta la vita adulta con un più accentuato senso di individualità e progettualità. L’identificazione cede il passo all’individuazione: come insegna la psicoanalisi junghiana, individuarsi significa separarsi, disgregarsi dall’insieme, dalla matrice originaria, per divenire soggetto.

Rischi di standardizzazione e omologazione

La società contemporanea ha urgente bisogno di processi di individuazione, poiché attraversa una fase di forte rischio di standardizzazione e omologazione. Il sistema e i mass media concorrono a sradicare la dignità individuale, a mercificare l’interiorità, appiattendo la vita intima e segreta dell’individuo in modelli seriali e consumistici.

La funzione pedagogica dell’educatore consiste allora nel creare ostacoli, fratture emotive e affettive, che rendano inevitabile il passaggio verso una progettualità futura condivisa ma non indistinta. Anche il lavoro di strada si muove in questa direzione, allontanando i ragazzi dai luoghi abituali di ritrovo, generando uno spiazzamento emotivo e cognitivo che introduce la novità, l’alterità, il dubbio. Attraverso linguaggi artistici, espressivi, ludici e sportivi, l’educatore tutela e accompagna questi “incidenti” educativi, rendendoli occasioni di crescita.

In questo quadro si inserisce la pedagogia narrativa, fondata sul metodo autobiografico. Raccontare e ascoltare storie di vita consente di accogliere l’esperienza altrui, di valorizzarla e interiorizzarla. La competenza pedagogica consiste nel raccogliere, rievocare e riconnettere storie che il gruppo non ha mai realmente ascoltato, attualizzando l’antica funzione degli aedi, dei griot, dei cantastorie, che tenevano unite le comunità attraverso la narrazione.

La pedagogia della memoria innesta così processi di autoriflessione e di rimemorizzazione, attingendo al passato personale e collettivo per sviluppare una dimensione progettuale consapevole. La scrittura di sé, la poesia, la narrazione diventano pratiche creative e catartiche, capaci di trasmettere valori intergenerazionali e di risvegliare una coscienza individuale.

Uno sforzo di memoria autobiografica assume quindi uno straordinario valore educativo e culturale: tutela l’unicità delle esperienze soggettive e crea un argine contro la pervasività del pensiero unico, contro l’uniformazione delle coscienze imposta dalla cultura consumistica. È un atto di resistenza contro l’ipocrisia di una rappresentazione virtuale dell’esistenza, contro l’eliminazione delle differenze, contro l’appiattimento della storia su un presente ossessivo, funzionale solo al mercato.

In questo senso, educare alla memoria significa educare alla pace, alla responsabilità e alla libertà, oggi più che mai, quando la guerra torna a presentarsi come destino inevitabile e la rimozione del passato prepara nuove tragedie.

Nota: la paura dei militari in trincea nella prima guerra mondiale. L’effetto della Grande Guerra sulla psiche dei soldati è stato “fotografato” anche dallo psichiatra Marco Levi Bianchini che, nel suo “Diario di guerra”, descrive lo scatenarsi delle tempeste sensoriali conseguenti ai rumori rimbombanti e assordanti: “Rumori aspri e laceranti, le voci e i timbri metallici dei pezzi nostri e nemici, che stridono, fischiano, miagolano, gemono il crepitare della fucileria, il tambureggiare dei cannoni”.

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