La valorizzazione dell’insegnante tra precarietà e deriva autoritaria

 

La valorizzazione dell’insegnante tra precarietà e deriva autoritaria. L’ eredità morale di don Milani, del maestro Manzi e di Pasolini contro la retorica del Merito 

di Laura Tussi


Anni di precariato non sono soltanto una condizione lavorativa instabile, ma una prova di resistenza umana, professionale e civile. È questa la realtà vissuta da migliaia di insegnanti che, dopo percorsi lunghi e frammentati, si trovano ancora oggi a fare i conti con difficoltà spesso insormontabili, aggravate da un contesto politico e culturale sempre più ostile alla scuola come luogo di emancipazione.

Il precariato nella scuola non è una parentesi temporanea, ma una condizione strutturale che segna intere carriere. Supplenze annuali, incarichi discontinui, trasferimenti forzati, incertezze economiche e mancanza di riconoscimento professionale hanno prodotto una generazione di docenti logorati, costretti a dimostrare continuamente il proprio valore senza mai vederlo davvero riconosciuto. A questo si aggiunge il peso psicologico di un lavoro che richiede stabilità emotiva, continuità educativa e progettualità a lungo termine, elementi incompatibili con l’instabilità cronica.

Negli ultimi anni, questa condizione si è ulteriormente aggravata a causa di una visione politica che tende a ridurre la scuola a strumento di selezione e disciplinamento. La scelta simbolica e sostanziale di rinominare il dicastero come “Ministero dell’Istruzione e del Merito” non è neutra: introduce una concezione gerarchica e competitiva dell’educazione, che contrasta apertamente con la tradizione pedagogica più alta del Paese.

In questa impostazione viene ripudiata l’eredità di figure come don Lorenzo Milani, che vedeva la scuola come strumento di riscatto per gli ultimi, o del maestro Alberto Manzi (nella foto con i suoi allievi), che fece dell’istruzione un diritto universale e accessibile, capace di parlare a tutti. Anche il pensiero critico di Pier Paolo Pasolini, che denunciava una scuola piegata alle logiche del potere e dell’omologazione, sembra oggi espunto dal dibattito pubblico.

La retorica del merito, calata in un sistema profondamente diseguale, finisce per colpevolizzare insegnanti e studenti, ignorando le condizioni materiali in cui operano. Classi sovraffollate, carenze strutturali, programmi sempre più burocratizzati e una crescente pressione valutativa svuotano il senso educativo del lavoro docente. L’insegnante non è più visto come mediatore culturale e guida critica, ma come esecutore di direttive e compilatore di indicatori.

In questo quadro, parlare di “valorizzazione dell’insegnante” rischia di diventare uno slogan vuoto. La vera valorizzazione passa dal riconoscimento della dignità professionale, dalla stabilità lavorativa, dalla libertà di insegnamento sancita dalla Costituzione e da una visione della scuola come comunità democratica. Senza questi presupposti, ogni riforma si traduce in un ulteriore carico sulle spalle di chi, nonostante tutto, continua a credere che insegnare significhi formare coscienze e non addestrare competenze.

La scuola italiana si trova oggi a un bivio: o torna a essere spazio di inclusione, pensiero critico e giustizia sociale, oppure rischia di diventare un apparato selettivo e autoritario. In questo passaggio, la condizione degli insegnanti precari non è un tema marginale, ma uno specchio fedele dello stato di salute della democrazia nel Paese.

La scuola ha bisogno della Sinistra per non cadere ostaggio della retorica del Merito

Una politica realmente progressista non può accettare che la scuola venga piegata a logiche aziendalistiche e competitive. Difendere l’istruzione pubblica significa difendere un’idea di società fondata sull’uguaglianza sostanziale, sulla rimozione degli ostacoli sociali ed economici e sulla centralità del lavoro educativo come bene comune. La precarizzazione degli insegnanti non è un effetto collaterale, ma il risultato di scelte politiche precise che hanno smantellato il ruolo pubblico dello Stato nella formazione.

La sinistra è chiamata a riappropriarsi del tema della scuola come terreno di conflitto democratico. Non basta opporsi simbolicamente alle riforme del governo: occorre costruire una visione alternativa che rimetta al centro l’inclusione, la cooperazione e la giustizia sociale. Una scuola che seleziona anziché emancipare tradisce il dettato costituzionale e produce diseguaglianze destinate a riprodursi nel tempo.

Restituire dignità agli insegnanti significa anche riconoscere il loro ruolo di intellettuali pubblici, capaci di formare cittadini consapevoli e non semplici esecutori. In questo senso, la battaglia contro il precariato è una battaglia per la democrazia, perché una scuola fragile e obbediente è il terreno ideale per derive autoritarie e revisionismi culturali.

Rivendicare l’eredità di don Milani, del maestro Manzi e di Pasolini non è un esercizio di nostalgia, ma un atto politico. È riaffermare che l’istruzione non è una concessione dall’alto, bensì un diritto universale; che il sapere non serve a classificare, ma a liberare; che la scuola pubblica è uno dei pochi luoghi in cui l’uguaglianza può diventare pratica quotidiana.

Senza una svolta netta, la scuola rischia di perdere definitivamente la sua funzione di ascensore sociale. Per questo una sinistra all’altezza del suo compito deve tornare a difendere l’istruzione pubblica come presidio di democrazia, pace e giustizia sociale, opponendosi con decisione a ogni progetto che trasformi il sapere in privilegio e l’insegnamento in mera funzione amministrativa.

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