Tutto ciò che ha insanguinato il ’900 continua a riemergere sotto nuove forme.

 

Tutto ciò che ha insanguinato il ’900 continua a riemergere sotto nuove forme.

di Laura Tussi


Non ci siamo lasciati davvero alle spalle gli orrori del Novecento. Le guerre di invasione, i nazionalismi aggressivi, la repressione del dissenso, le disuguaglianze strutturali, la propaganda di massa, l’idea del nemico da annientare: tutto ciò che ha insanguinato il ’900 continua a riemergere sotto nuove forme, spesso con strumenti tecnologici più sofisticati ma con la stessa radice di violenza politica e culturale. Il secolo scorso non è un capitolo chiuso: è uno specchio inquieto che riflette ancora nel presente, ammonendoci su quanto fragile sia il confine tra civiltà e barbarie.

Il Novecento è stato il secolo degli estremi, attraversato da opposti mai ricomposti in un equilibrio definitivo: democrazia e dittatura, ricchezza e miseria, progresso scientifico e regressione umanitaria, emancipazione e oppressione. Il paradosso più devastante — e per molti versi irrisolto — è la contraddizione tra l’enorme potenza dei mezzi tecnici raggiunti dall’umanità e l’incapacità del secolo di perseguire i propri fini etici, sociali e politici senza pagarne un prezzo disumano. L’onnipotenza della tecnica non ha coinciso con l’elevazione dell’uomo, ma spesso con il suo rimpicciolimento morale.

È stato il secolo dell’homo faber, l’uomo definito dal fare, dalla produzione, dalla funzionalità. Su questa centralità del “fare” si è costruita un’antropologia che ha finito per ridurre l’essere umano a ingranaggio produttivo, e il mondo a realtà fabbricata e amministrata. La società fordista, con il suo culto dell’efficienza e della standardizzazione, ne ha incarnato la metafora dominante: relazioni sociali impoverite, creatività subordinata al rendimento, responsabilità individuale assorbita dall’apparato organizzativo. Da questa prospettiva, Auschwitz resta il punto estremo di caduta: l’uomo ridotto a materia di lavoro, utilizzato e distrutto come oggetto. Ma la stessa parabola si ritrova, in forme diverse, dentro la vicenda del comunismo novecentesco: nato come progetto di liberazione dell’uomo dalla sua riduzione a merce, ha spesso generato una società centrata sul lavoro totale, dove l’individuo, invece di emanciparsi, è stato a sua volta incasellato nella funzione produttiva, dentro un apparato totalizzante.

Nazifascismo, Auschwitz e Hiroshima

Nazismo, fascismo e guerra atomica sono le tre fratture simboliche che hanno inciso l’identità del secolo. Il nazifascismo ha elevato la violenza a mezzo fondante del potere: repressione, costrizione, controllo poliziesco — ciò che diceva di voler superare — sono diventati il suo metodo ordinario. Nel campo di sterminio non c’è eterogenesi dei fini, ma totale coincidenza tra mezzi e scopi: lo sterminio non come strumento, ma come orrore fine a se stesso. Eppure, anche qui, l’esito ha distrutto l’attore che avrebbe dovuto potenziare: la potenza nazionale tedesca, l’identità stessa del popolo che il regime pretendeva di rifondare.

Hiroshima, invece, nasce da una discrepanza tragica: scienziati che volevano creare un’arma per fermare il nazismo hanno generato il “tiranno tecnologico assoluto”. L’arma atomica porta in sé un paradosso unico: la sua efficacia non dipende dall’uso, ma dalla minaccia della sua esistenza. Il cosiddetto “equilibrio del terrore” non ha ridotto le guerre: le ha moltiplicate sotto l’ombrello nucleare, spostandole ma non eliminandole. Il potenziale atomico vive proprio nel non diventare atto, perché il suo utilizzo coinciderebbe con la fine dell’utilità e, insieme, della civiltà che lo ha prodotto.

Alle radici del mostruoso

Nel processo di Gerusalemme, Eichmann — uno dei principali responsabili della Shoah — non appare come incarnazione del male metafisico, ma come burocrate qualunque, simbolo della banalità del male: l’orrore compiuto non per demoniaca eccezionalità, ma per obbedienza procedurale, assenza di pensiero critico, deresponsabilizzazione dentro contesti altamente organizzati. È la vittoria della ragione tecnologica sulla verità, dell’apparato sulla coscienza, del linguaggio amministrativo sulla realtà umana delle conseguenze.

Il filosofo Günther Anders individua due radici del mostruoso novecentesco. La prima è la discrepanza tra capacità produttiva e capacità immaginativa: produciamo effetti che non sappiamo più figurare, dominare, giudicare. Da qui il vizio capitale del ’900: la sproporzione tra la potenza dell’oggetto prodotto e l’impotenza del soggetto produttore. La seconda è la macchinazione del mondo: il reale trasformato in apparato, dove l’uomo esiste solo se funziona. In nessun’altra epoca una dittatura aveva concepito la creazione di una razza ex nihilo come atto pseudo-divino: il nazionalsocialismo ha aspirato a un ruolo creatore dal nulla, mostrandosi indifferente perfino allo sterminio degli stessi tedeschi, perché la “nuova razza” doveva nascere dal vuoto, non dall’umano. Una pretesa inaudita, che non può essere archiviata come eccesso storico tra i tanti, ma che continua a imporre una domanda essenziale, sempre aperta e mai banalizzabile: che cos’è stato il nazismo? che cosa resta del fascismo? e quante volte la storia dovrà ripeterci il monito del Novecento prima che impariamo a riconoscerlo, anche quando cambia volto?

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