Bolivia, fallito attentato della destra contro Arce
Bolivia, fallito attentato della destra contro Arce
Non è bastata la vittoria nettissima riportata da Luis Arce alle elezioni del 18 ottobre, né il suo riconoscimento da parte sia del suo avversario Carlos Mesa che della presidente golpista Jeanine Áñez e neppure il giudizio unanime degli osservatori internazionali, compresi quelli dell’Osa, sulla regolarità del processo elettorale. Per l’estrema destra boliviana, semplicemente, il Movimiento al Socialismo non deve tornare al potere.
E così, dopo la prima giornata di blocchi stradali realizzati da organizzazioni intrinsecamente golpiste come il Comité Cívico Potosinista e quello di Santa Cruz per protestare contro inverosimili brogli elettorali, l’estrema destra ha persino giocato la carta di un attentato dinamitardo contro il presidente eletto, uscito fortunatamente illeso, mentre era impegnato in una riunione presso la sede del partito a La Paz.
«Questo è il clima che stiamo vivendo e speriamo che non si complichi», ha denunciato il portavoce del Mas Sebastián Michel, lamentando che il governo de facto non si sia pronunciato contro l’aggressione né abbia mostrato alcuna volontà di garantire la sicurezza di Arce.
Procedono intanto i preparativi per la cerimonia di insediamento di domenica presso la sede dell’Assemblea legislativa plurinazionale, preceduta ieri da una cerimonia indigena in cui Luis Arce e il suo vice David Choquehuanca hanno ricevuto l’investitura tra le rovine incaiche di Tiwanaku, secondo un rito, già realizzato in passato con Evo Morales, diretto a riaffermare l’identità indigena del Mas. E per oggi è atteso l’arrivo delle delegazioni ufficiali invitate a presenziare a uno spettacolo decisamente inedito: quello di un governo de facto costretto a restituire il potere a solo un anno dal golpe.
Ad assistere all’evento, che si aprirà con un’offerta alla Pachamama e si concluderà con una festa popolare, saranno, tra gli altri, il re di Spagna Felipe VI, il vicepresidente del governo spagnolo Pablo Iglesias, i presidenti Iván Duque, Sebastián Piñera, Mario Abdo e Alberto Fernández e quello iraniano Hassan Rohani. Non è stata invece ancora confermata la presenza di Nicolás Maduro, il quale ha ricevuto l’invito da Arce, ma non dal governo de facto, che invece ha provveduto a invitare l’autoproclamato Guaidó. Ad attendere il neo presidente dopo l’insediamento sarà poi un compito tutt’altro che agevole: quello di dar vita a un governo che sia distante dall’«evismo», risponda alle richieste della base sociale del Mas e sia all’altezza della sfida posta dalla crisi economica attraversata dal paese.
Le polemiche, al riguardo, non mancano: le organizzazioni sociali che sostengono il partito rivendicano per sé la maggior parte dei ministeri, opponendosi tassativamente a qualsivoglia presenza dell’entourage di Morales, cioè di tutto quel gruppo di intellettuali ed esponenti della classe media che hanno operato spesso e volentieri contro gli interessi dei settori indigeni e contadini, per poi darsi alla fuga dopo il golpe («si sono nascosti come topi», è stato il durissimo commento del presidente uscente della Camera dei deputati Sergio Choque).
«Hanno esaurito il loro ciclo e ora c’è bisogno di rinnovamento», ha rassicurato Arce. Ma dall’Argentina Morales, che rientrerà nel paese il giorno dopo l’insediamento, ha già avuto qualcosa da dire, auspicando al contrario un equilibrio tra fondatori del partito, ex ministri e volti nuovi:
«Credo che alcuni compagni sbaglino. Dicono no all’entourage di Evo, ma chi ne fa parte da più tempo sono proprio Arce e Choquehuanca. Ci sono alcuni problemi interni, un po’ di confusione. Voglio tornare per chiarire, per allineare».
In Brasile il primo voto dopo Bolsonaro
Due anni dopo le presidenziali. Il Paese torna alle urne. Si tratta di elezioni municipali, ma con al centro la disastrosa gestione sanitaria e sociale della pandemia da parte del governo
In Brasile si torna alle urne per la prima volta dopo l’avvento di Bolsonaro. Sono 148 milioni gli elettori chiamati a votare il 15 novembre per scegliere i prefeitos (sindaci) e i vereadores (consiglieri) dei 5570 municipi brasiliani.
Anche se si tratta di elezioni municipali, il confronto tra le forze politiche è centrato sui grandi temi che agitano il paese: l’emergenza sanitaria e la gestione della pandemia, la crisi economica e le misure adottate per fronteggiarla. L’onda conservatrice che aveva portato nel 2018 l’ex capitano alla presidenza della repubblica non si è arrestata, ma deve fare i conti con la catastrofe sanitaria e sociale che sta colpendo il paese e le profonde trasformazioni nella vita collettiva e individuale.
SONO 545 MILA GLI ASPIRANTI prefetti e consiglieri, con le forze di destra che hanno presentato il maggior numero di liste e candidati. Si tratta di elezioni atipiche, senza le tradizionali iniziative di propaganda che animano i municipi brasiliani ad ogni tornata elettorale. La propaganda e la ricerca del consenso si sviluppano attraverso le reti sociali, con una massiccia comunicazione digitale che tiene mobilitati gli elettori. Il voto in Brasile è obbligatorio, ma nelle ultime due votazioni era cresciuto l’astensionismo, con il 20% degli elettori che non si era recato alle urne. Ora la pandemia può accentuare il fenomeno.
L’attenzione è rivolta alle grandi città, perché saranno i risultati dei più importanti municipi a dare la misura degli effetti prodotti da Bolsonaro e dalla pandemia. San Paolo e Rio sono le osservate speciali. Nel consiglio municipale di Rio era stata eletta nel 2016 con 46 mila voti Marielle Franco, assassinata nel marzo 2018 da una banda di miliziani che coltivava stretti rapporti con la famiglia Bolsonaro. Secondo uno studio realizzato per la Rete Fluminense di ricerca sulla violenza, le milizie continuano a imperversare, controllando un quarto dei quartieri e il 60% del territorio e riuscendo a condizionare fortemente queste elezioni. Il voto libero e la protezione dei candidati si ripresentano in modo drammatico nell’area di Rio.
IL PRESIDENTE BOLSONARO partecipa attivamente alla campagna elettorale, pur non avendo un partito di riferimento. La sua Alleanza per il Brasile, fondata dopo aver lasciato il Psl, nelle cui file era stato eletto, non è presente in queste elezioni. Si sta spendendo molto nel sostegno di alcuni candidati appartenenti al blocco di destra, come Celso Russomando a San Paolo e Marcelo Crivella a Rio, pastore evangelico e attuale sindaco della città. Nella sua ultima scorribanda elettorale nello stato di Pernambuco, nord-est del Brasile, il presidente ha fatto un appello per scegliere sindaci e consiglieri che «hanno nel loro cuore Dio, patria e famiglia».
Le indicazioni di voto e gli appelli di Bolsonaro hanno come obiettivo il rafforzamento di un largo campo conservatore su cui poter contare alle presidenziali del 2022. La sicurezza pubblica nelle città è l’altro tema che il presidente agita con forza, non avendo dati positivi da sbandierare in campo economico e sociale. Le prese di posizione di Bolsonaro sulla sicurezza hanno favorito la presenza nei partiti di destra di un numero record di candidati provenienti da forze armate, polizia militare e civile e altre aree della sicurezza.
SECONDO I DATI del Tribunale superiore elettorale sono ben 8730 i candidati che arrivano da questi settori (più 21% rispetto alle precedenti elezioni) e che, invocando «legge e ordine», vanno a rafforzare la «bancada da bala» (fronte del proiettile).
Anche la chiesa evangelica, che sta ampliando la sua presenza nelle aree urbane e rurali del paese, gioca a tutto campo. Dopo aver svolto un ruolo decisivo nell’elezione di Bolsonaro, ora è fortemente impegnata nel sostenere quei candidati che si mostrano sensibili alle sue invocazioni.
LA SINISTRA ARRIVA a queste elezioni in una condizione di debolezza, senza una opposizione sociale in grado di ostacolare il processo di «corrosione della democrazia» portato avanti dall’attuale governo. Ma la perdita di consenso per il Pt di Lula si era manifestata prima dell’avvento di Bolsonaro. Le elezioni municipali del 2016, segnate dall’operazione Lava Jato, le accuse contro Lula e la destituzione di Dilma, avevano registrato per il Pt un crollo del 60% nel numero di eletti alla carica di prefetto rispetto al 2012, passando da 644 a 255. Inoltre, in nessuna delle 100 maggiori città del Brasile era stato eletto un prefetto del Pt. Una crisi grave che ha visto in questi anni il maggiore partito della sinistra sulla difensiva sia nelle aule giudiziarie che in parlamento e nei municipi.
In vista di questa scadenza elettorale sono stati numerosi gli appelli a costituire un ampio fronte con tutte le forze della sinistra e i movimenti sociali, ma nella maggior parte dei municipi non si è riusciti a proporre candidati comuni in grado di arrivare al ballottaggio. Si spera, comunque, in una inversione di tendenza, con un riposizionamento dell’elettorato. L’espressione gramsciana su «il pessimismo della ragione e l’ottimismo della volontà» è risuonata spesso all’interno della sinistra brasiliana in queste settimane.
ANCHE LE COMUNITÀ INDIGENE, pur con tutte le difficoltà legate alla pandemia, vedono in queste elezioni una occasione per aumentare la loro rappresentanza nei consigli municipali. Una presenza che ha l’obiettivo di salvaguardare i territori e la salute. Sono 2194 i candidati indigeni alle municipali, un terzo rappresentato da donne, con un aumento del 28% rispetto alle elezioni del 2016, quando erano stati eletti 167 consiglieri.
Sono molteplici gli interessi in gioco nel grande paese latino-americano e anche attraverso queste elezioni municipali la fragile democrazia brasiliana cerca una via d’uscita dal bolsonarismo e dalla pandemia.
Almeno la non ingerenza: Cuba e Venezuela ci sperano
Presidenziali Usa 2020. L'America Latina socialista e la nuova Casa Bianca
Donald Trump ha imposto senza mezzi termini una riedizione della dottrina Monroe, ovvero che l’America latina è da considerarsi il patio trasero degli Usa, dove il gigante del Nord detta legge e gli alleati-vassalli ubbidiscono. La domanda che accomuna i principali leader latinoamericani è come la vittoria di Joe Biden potrà cambiare questa situazione. II presidenti di Cuba e Venezuela – i due principali bersagli di Trump in America latina – si augurano che la prossima presidenza del leader democratico possa aprire una nuova tappa, basata sul dialogo e non sulla politica di ingerenza volta a abbattere i governi eletti nei due paesi.
IL PRIMO, Miguel Díaz-Canel, in modo più politico e ribadendo la orgogliosa difesa della sovranità dell’isola nelle sue scelte politiche, ha scritto su Twitter: «Riconosciamo che, nelle sue elezioni presidenziali, il popolo degli Usa ha optato per una nuova linea. Crediamo nella possibilità di una relazione bilaterale costruttiva e rispettosa delle differenze». Il secondo, Nicolás Maduro, ha rivolto esplicite felicitazioni al presidente eletto Biden e si è detto disposto a «un dialogo» per raggiungere «un’intesa con il popolo e il governo» degli Stati uniti.
LA CAUTELA DEL MESSAGGIO del presidente cubano non nasconde che il vertice politico dell’isola ha tirato un gran sospiro di sollievo. Nel corso della sua presidenza, Trump ha messo in atto 150 misure e sanzioni contro Cuba che, secondo il quotidiano del Pc Granma, sono costate «cinque miliardi di dollari» di perdite. Nella sua ventilata foga di «liberare il popolo di Cuba» dal supposto giogo del «regime comunista» anche in concomitanza dei drammatici effetti del Covid-19, The Donald ha causato – e causa – enormi sofferenze ai cubani che pretende di salvare e ha pesantemente concorso a portare l’economia dell’isola sull’orlo del collasso.
Per questa ragione le presidenziali sono state seguite con un interesse senza precedenti dalla gente comune oltre che dal governo. Gran parte dei cubani ricorda quei giorni di apertura economica e respiro politico quando nel 2014 i presidenti Barack Obama e Raúl Castro decisero di voltar pagina e di ristabilire le relazioni diplomatiche.
LE DICHIARAZIONI fatte da Biden pochi giorni prima delle elezioni soffiano sulle ceneri di questa nostalgia: «La politica di Trump verso Cuba è stata un totale fallimento», ha affermato il nuovo presidente eletto, che si è detto disposto a riprendere la politica di apertura di Obama, iniziando con l’eliminare i limiti imposti da Trump alle rimesse dei cubanoamericani, le restrizioni ai viaggi nell’isola e la concessione di visti ai cittadini cubani. Biden però ha ribadito che intende «difendere i diritti umani a Cuba, come l’ho fatto quando ero vicepresidente».
Queste concessioni sono di fatto un’arma a doppio taglio agitata nei confronti del governo cubano. Che giustifica la prudenza di Díaz-Canel. Da un lato, una politica di aperture degli Usa è – come minimo – assai importante nel momento un cui il governo cubano si appresta a lanciare una serie di riforme economiche per aumentare la capacità produttiva dell’isola e ridurre le importazioni, assieme al “Nuovo ordine monetario” che implica l’eliminazione della doppia moneta circolante nell’isola. Gli investimenti esteri – e con essi le relazioni con Fmi e Banco mondiale – costituiscono una parte essenziale di tali riforme e non possono prescindere dalle relazioni con Washington.
MA IL VERTICE POLITICO cubano non è disposto a mettere sull’altro piatto della bilancia di future aperture economiche e politiche un’ingerenza nella propria politica interna. E neppure di dare l’impressione – anche a livello interno – che lo sviluppo economico dell’isola dipenda dalle elezioni di un altro paese, come se l’isola fosse uno dei tanti Stati vassalli statunitensi dell’America latina.
Il subcontinente latinoamericano non è una delle priorità del presidente eletto. Questo Biden lo ha messo ben in chiaro. Però durante la presidenza di Obama, l’allora vicepresidente ha avuto un ruolo importante nelle politica estera, specie in America latina. Vi è dunque da supporre che – pur tendendo conto della differenza di situazione rispetto a quattro anni fa – vi sarà una buona quota di continuismo nelle linee guida del leader democratico. Il Venezuela costituirà il problema più spinoso. Quanto dipenderà anche dall’esito – sempre che non vi sia un pericoloso colpo di coda di Trump – delle elezioni politiche del 6 dicembre.
Colombia – anche durante la campagna elettorale, Biden ha ribadito la fiducia al presidente Iván Duque nonostante l’impressionante continuità di massacri di leader sociali – e Messico saranno i principali partner. Con quest’ultimo anche per affrontare la questione dell’immigrazione dai paesi del Centro America.
IL BRASILE del presidente Bolsonaro – fanatico fan di Trump – rappresenta la maggiore incognita, visto il peso del gigante sudamericano nella politica di contenimento della penetrazione cinese in America latina che Biden dovrà affrontare. Le prossime elezioni comunali (15 dicembre) serviranno a chiarire gli equilibri di forze in Brasile
L’ultimo golpe trumpiano fallito: Arce è insediato, Evo è tornato
Bolivia. Evo ha attraversato ieri il confine dalla città argentina di La Quiaca ed è giunto nella località boliviana di Villazón, dove è stato accolto da una folla di militanti
La Bolivia volta pagina. E il neopresidente Luis Arce, durante la grande festa del suo insediamento, lo ha evidenziato con forza: «Vogliamo iniziare una nuova tappa della nostra storia. Il nostro governo si impegnerà a ricostruire la nostra patria nell’unità e nella pace».
Un inizio che non si annuncia tutto rose e fiori: «In un anno siamo tornati indietro rispetto a tutte le conquiste popolari», ha spiegato Arce, ponendo l’accento sull’aumento di disoccupazione, povertà e disuguaglianze. E l’opera di ricostruzione richiederà davvero «la forza, l’intelligenza e la saggezza» invocate dagli sciamani su Arce e sul suo vice Choquehuanca durante l’offerta alla pachamama che ha preceduto la cerimonia di insediamento presso l’Assemblea legislativa plurinazionale.
Per il neo presidente il compito non si annuncia facile. Artefice di quel «miracolo economico» dell’era Morales lodato persino dalla rivista Forbes – ma certo non esente da contraddizioni rispetto all’ideale andino del Suma Qamaña (buen vivir in aymara) inscritto nella Costituzione – Arce sarà chiamato a operarne un altro, ma su nuove basi, «senza ripetere gli errori del passato», come egli stesso ha ripetuto più volte in campagna elettorale. E dovrà recuperare l’economia distrutta dal governo golpista – i cui rappresentanti, a cominciare dall’autoproclamata Áñez, hanno abbandonato le loro funzioni addirittura due giorni prima dell’insediamento – mantenendo l’equilibrio tra due forze ben distinte del processo di cambiamento boliviano.
Quella delle basi indigene e contadine del Mas che si riconoscono principalmente in David Choquehuanca – il cui primo discorso da vicepresidente si è svolto tutto, non a caso, nel segno del buen vivir – e che risulteranno decisive per spostare a sinistra l’asse del governo Arce, e quella che fa capo a Evo Morales, tuttora capo politico del Mas, che ha dalla sua buona parte dei quadri intermedi del partito e può contare sul pieno sostegno del nuovo presidente del Senato, Andrónico Rodríguez, leader del Trópico de Cochabamba, la base cocalera dell’ex presidente.
E non c’è dubbio che, all’indomani dell’insediamento, la ribalta sia tutta per lui, ritornato trionfalmente in Bolivia dopo un anno di esilio. Accompagnato dal suo fedelissimo ex vicepresidente Álvaro García Linera, esponente di punta di quell’entourage di classe media bianca e intellettuale verso cui nutre non poco risentimento la base indigena del Mas, Morales ha attraversato ieri il confine dalla città argentina di La Quiaca ed è giunto nella località boliviana di Villazón, dove è stato accolto da una folla di militanti. Da lì, scortato da una carovana di almeno 800 veicoli, proseguirà per Potosí e Oruro fino ad arrivare mercoledì a Chimoré, dove culminerà la festa per il suo rientro.
Come un Tren Maya
Messico. Il megaprogetto del "cavallo di fuoco", simbolo dell’amministrazione Amlo, procede a colpi di retorica e promesse. Per la resistenza indigena resta un furto di terre legalizzato. oltre che un crimine ambientale. Il poeta e attivista Pedro Uc: «Non vogliamo finire in uno zoo»
Tsíimin K’áak’ significa cavallo di fuoco in Maya yucateco, la lingua parlata da quasi due milioni di persone nella regione messicana formata dagli stati di Campeche, Yucatán e Quintana Roo.
econdo l’attuale presidente Andrés Manuel López Obrador, detto Amlo, Tsíimin K’áak’ significa treno e ha deciso di tradurre cosí Tren Maya, il megaprogetto simbolo della sua amministrazione.
AMLO AFFERMA che il suo cavallo di fuoco, alimentato a diesel ed elettricità «migliorerà la qualità della vita, proteggerà l’ambiente e farà esplodere lo sviluppo sostenibile», percorrendo a 160 km orari i 1,554 km di binari che attraverseranno 3.024 siti archeologici, 15 aree naturali protette e 1.400 comunità indigene.
«Non vogliamo che la nostra terra sia trasformata in uno zoo – spiega Pedro Uc, professore, poeta e portavoce dell’assemblea Múuch’ Xíinbal che da due anni informa e lotta contro i megaprogetti nella penisola -. Essere maya non dipende dal colore della pelle o dalla lingua che si parla. Significa riconoscersi negli animali, nelle piante, nel sole, come parte di un sistema che coltiva la vita e che a volte la uccide ma per sopravvivere, non per riempirsi le tasche. Se smettiamo di pensare e comportarci cosí, l’unico valore delle nostre vite sarà quello del capitale e del denaro, come succede già a molti».
UN GOVERNO COME QUELLO di López Obrador, che ha proibito il neoliberismo per decreto, non dovrebbe preoccuparsi. Il presidente dice che tutto sarà fatto nel pieno rispetto dell’ambiente, della cultura e delle popolazioni maya che anzi, saranno beneficiate dal maggior turismo e da nuovi posti di lavoro. Il progetto è stato affidato ad un ente pubblico, il Fondo Nacional de Fomento al Turismo (Fonatur) e al suo direttore Rogelio Jiménez Pons, che ha segmentato il Tren Maya in sette tramos ed è stato incaricato di trovare le imprese costruttrici. Il progetto dovrebbe costare 15 miliardi di dollari: il 90% della spesa verrà assorbita dal capitale privato e solo il 10% graverà sulle casse pubbliche. Le imprese costruttrici avranno per 30 anni i guadagni derivati dalla gestione del tratto di loro competenza.
La penisola dello Yucatán e i sette «tramos», i tratti previsti dal tracciato completo del Tren Maya (lopezobrador.org.mx)Il Tren Maya non si limiterà al trasporto di merci e persone ma sarà un progetto integrale di riordinamento territoriale del sud-est messicano. Le previsioni del governo parlano di 800 mila posti lavoro – «ben retribuiti» – per la sua costruzione, 15 nuove stazioni con relativi centri urbani dove i maya dispersi nelle piccole comunità potranno andare a vivere e lavorare. «Anche a elemosinare – spiega Pons -. Ma col vantaggio di poterci andare a piedi».
QUESTE STAZIONI saranno il centro di nuove città chiamate in un primo momento «Poli di Sviluppo» e ora rinominate «Città Sostenibili». Per finanziarle, Fonatur si incaricherà di gestire i Fideicomisos de Infraestructura y Bienes Raíces (Fibra): strumenti finanziari quotati in borsa e usati per sovvenzionare progetti immobiliari.
Le assemblee di contadini maya che gestiscono la terra in maniera comunitaria diventeranno socie di questi fideicomisos, contribuendo con terreni che misurano dai 50 ai 100 ettari. In cambio riceveranno utili variabili, in base all’andamento dei Fibra in borsa. Se andassero male, i soci potrebbero perdere tutto. Il governo però assicura che in qualsiasi momento le comunità potranno tornare in possesso delle loro terre, a patto di poter pagare le infrastrutture costruite su di esse.
«È UN FURTO LEGALIZZATO – commenta Pedro Uc -, gli imprenditori vogliono ipotecare una terra che non gli appartiene e Fonatur dice ai contadini che non dovranno vendere le loro terre, ma entrare in società con le imprese costruttrici. Ma è una società diabolica: se nei villaggi chiedi cosa sono i Fibra, non lo sanno o pensano che sia la fibra ottica».
Amlo non è il primo a immaginare un simile megaprogetto nel sud del Messico. Dal 1997 in poi tutti i governi hanno cercato di implementare corridoi logistico/industriali o turistici come il tren trans-istmico nell’Istmo di Tehuantepec o il tren trans-peninsular per collegare Yucatán e Quintana Roo. Nonostante il treno trans-istmico sia in costruzione e verrà collegato al tracciato del Tren Maya, e che quest’ultimo coincida in parte con il progetto transpeninsular Amlo rivendica una distanza profonda dalla corruzione e dallo spregio per i diritti umani che hanno contraddistinto i suoi predecessori.
A DIFFERENZA DEI GOVERNI precedenti, le popolazioni maya e il loro sviluppo sostenibile sono ora al centro della retorica presidenziale. In diretta tv, López Obrador ha chiesto il permesso alla terra con una sedicente cerimonia maya e ha incaricato Fonatur di organizzare una consulta attenendosi alla convenzione 169 dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo) e alla dichiarazione Onu sui diritti dei popoli indigeni. Il 14 e 15 dicembre 2019 la consulta ha dato risultati sorprendenti: ha partecipato il 70% delle 1.078 comunità indigene convocate e il 92,3% dei votanti lo ha approvato.
Secondo Pedro Uc più che di una consulta si è trattato di una manipolazione: «Fonatur chiedeva alla gente: ti piacerebbe che venga il treno? Porterà acqua, case, lavoro, medicine, televisori e strade. Chiaro che tutti dicevano di sì! Avrebbero dovuto chiedere, per esempio, se preferivano dare la priorità al treno o alla costruzione di ospedali e scuole».
ANCHE L’ONU HA DENUNCIATO alcune irregolarità: i votanti sono stati informati solo delle ripercussioni positive del progetto, le traduzioni in maya del materiale informativo sono state fatte in modo scorretto e le donne sono state quasi assenti dai seggi. Inoltre è sembrato che il governo avesse già deciso di costruire il mega progetto prima di sapere il risultato della consulta. «Ovviamente la decisione è stata già presa, altrimenti non si potrebbe fare la consulta. Sa quanto dobbiamo investire per realizzare una consulta di queste dimensioni?», rispondeva Pons in una intervista a febbraio 2019.
Quest’anno i cantieri sono rimasti aperti nonostante la pandemia, ripristinando parti del tracciato preesistente del tramo 1 e secondo Amlo il Tren Maya sarà terminato entro il 2023, malgrado non sia stato ancora presentato un progetto definitivo e completo.
«Lúumil significa territorio – conclude Pedro Uc -, è lo spazio che usiamo per generare la vita. Pensiamo che la salute dell’ambiente e quindi la nostra, sia il valore fondamentale della vita, per questo abbiamo bisogno di un territorio e per questo lo difendiamo».
Commenti
Posta un commento