RICORDANDO ALDO NATOLI E LUCIANO GALLINO
RICORDANDO ALDO NATOLI E LUCIANO GALLINO
Ricorre l'8 novembre 2020, il decimo anniversario della scomparsa di Aldo Natoli ed il quinto anniversario della scomparsa di Luciano Gallino, che entrambi annoveriamo tra i nostri maestri.
Alla scuola delle loro scelte, all'ascolto delle loro esperienze e riflessioni, leggendone le opere di studiosi e militanti, abbiamo appreso e confermato verita' necessarie, preso decisioni impegnative ed irrevocabili, siamo entrati e restati anche noi nella lotta contro tutte le oppressioni, contro tutte le ingiustizie, in difesa dell'eguaglianza di diritti di tutti gli esseri umani, per contrastare la barbarie dei poteri dominanti e costruire una societa' libera, giusta e solidale in cui da ciascuna persona sia dato secondo le sue capacita' ed a ciascuna persona sia dato secondo i suoi bisogni.
La nonviolenza in cammino si nutre di molte radici, conosce molte compagne e molti compagni, s'invera in molteplici vicende di resistenza all'inumano, convoca a riconoscere e contrastare la violenza, a recare soccorso a chi soffre, a costruire la liberazione comune, a condividere il bene ed i beni.
Tra i molti maestri e compagni alla cui sequela ci siamo posti anche Aldo Natoli e Luciano Gallino ricordiamo, con gratitudine che non si estingue.
*
Un ritratto di Aldo Natoli scritto da Rossana Rossanda (2003)
Su Aldo Natoli riproponiamo ancora una volta il seguente profilo scritto da Rossana Rossanda e pubblicato sul quotidiano "Il manifesto" del 20 settembre 2003 in occasione del suo novantesimo compleanno.
Rossana Rossanda: Un amico
Aldo Natoli e' un bellissimo uomo che compie oggi novanta anni. Asciutto, scattante, elegante - mi si permetta di cominciare in questo modo poco canonico.
Lo conobbi verso la meta' degli anni cinquanta, e mi colpi' quanto poco somigliasse al comunista popolano anzi plebeo cantato da Pasolini e che i "romani" opponevano con ironia a noi milanesi cultori del poco pittoresco proletariato di fabbrica.
Aldo Natoli non era certo un'anima semplice, e aveva un passato favoloso: era stato un cospiratore antifascista, condannato da uno degli ultimi processi del regime, aveva fatto la Resistenza e poi, primo segretario della federazione, aveva costruito il partito comunista a Roma. Dal Campidoglio aveva lanciato con "L'Espresso" la campagna "Capitale corrotta, nazione infetta", era deputato, era medico, sapeva di letteratura francese quasi quanto il fratello Glauco, e tutto di storia e politica del Novecento. E sempre senza scomporsi parlava al microfono d'una piazza, della Camera, in borgata o si appartava a leggersi i lirici tedeschi. Insomma un compagno importante, non molto piu' grande ma quanto bastava per impormi rispetto.
Lo trovavo al comitato centrale, dove arrivavo assai dopo di lui e alla Camera e a "Rinascita" - nel breve periodo in cui Togliatti la cambio'. Ci riconoscevamo presto come coloro fra i compagni cui la fine degli anni cinquanta poneva molti interrogativi. Non quelli sull'Urss, che ci avevano angosciato nel 1956 e avrebbero indotto Natoli a lavorare sullo stalinismo; ma una domanda sul Pci davanti alla prima grande modernizzazione del paese, che ne cambiava lo scenario sociale. Un giorno che ero calata da Milano per non so quale riunione, mi invita a colazione come niente fosse in via Veneto (il poverismo del 1968 non era ancora di moda, si era poveri davvero) e al momento di pagare scopri' di non avere il portafoglio. Un gentiluomo assai confuso e io deliziata della sua confusione, da quel momento diventammo amici.
Assieme o da vicino e da lontano, formavamo con altri quella sinistra ingraiana, che Ingrao non si sogno' mai di organizzare - e non si organizzo' mai come frazione; erano comuni le domande, i dubbi, il confronto delle diverse esperienze -, l'Italia cambiava, l'economia era partita nel boom, mutavano le soggettivita' operaie, specie degli immigrati dal sud al nord, mutavano i costumi e i valori privati. L'estate del 1960 vide i ragazzi in maglietta a striscie scendere in strada a Genova e, assieme ai portuali, cacciare i fascisti del Msi. La Cgil, dove aveva preso un grande ruolo Trentin alla testa della Fiom, cresceva. Alle elezioni del maggio 1963 il Pci fece un balzo in avanti, la Democrazia cristiana prese un colpo solenne e Aldo Moro pianse a San Pellegrino. Insomma andavamo forte, ma andavamo giusto?
Con Aldo si compartiva un dubbio di fondo: il gruppo dirigente era persuaso che il capitale fosse incapace di fare il suo mestiere e che l'apertura della Dc ai socialisti avrebbe trascinato anche noi al governo. Noi dubitavamo e degli effetti della modernizzazione capitalista e del centrosinistra.
Io ero ormai a Roma, responsabile degli intellettuali a Botteghe Oscure dove demolivo coscienziosamente le commissioni dei pittori, cinematografari, scrittori, scienziati comunisti che venivano a prendere la linea, convinta che su questi terreni il Pci non dovesse metter becco, occupandosi invece sul serio degli apparati ideologici dello stato, impostando una ricerca non "marxista leninista" o "nazional popolare" ma marxista, cosa poco praticata e anzi sospetta.
Natoli lo incontravo nel Comitato centrale, dove avanzavamo le prime sortite - il mondo si muoveva, l'Algeria si liberava, cominciava l'agitazione nei campus americani sui diritti civili, contro la guerra al Vietnam. Della quale Natoli si occupava specialmente e con cui tesse' rapporti che durarono a lungo. Non ci persuadeva la pacifica coesistenza mentre gli Usa compivano l'escalation militare. E si era aperta la falla tra Urss e Cina.
Molti di noi volevano andare a fondo in quello spaccarsi della terra e delle idee. E neppure ci rendemmo conto quanto fastidio dessimo. Con la morte di Togliatti si era aperta la successione, era una battaglia di linea fra Amendola e Ingrao. Nel 1966 all'XI congresso Berlinguer si alleo' ad Amendola e si passo' allo sterminio degli ingraiani. Io ero gia' stata liquidata nel 1965, e non pianse nessuno. Natoli restava un outsider a Roma, mentre Pintor, Magri, Castellina furono tutti emarginati.
Col risultato che - esplosione del 1968 e invasione della Cecoslovacchia aiutando - quello che sarebbe stato "Il manifesto" dette battaglia da tutte le parti: esprimevamo inquietudini e bisogni comuni. Al XII congresso nel 1969 arrivammo solo in tre con diritto di parola, Natoli, Pintor ed io, e solo io con diritto di voto: il meccanismo delle recinzioni era perfetto. Parlammo per tre mattine di fila, ascoltati da una immensa sala che si riempiva presto per assistere al torneo, giornalisti inclusi - i comunisti adoravano il dissenso di sinistra purche' alla fine rientrasse.
Natoli, Pintor ed io fummo riproposti al comitato centrale. Ma non avemmo piu' nessun incarico - ammessi ma all'indice. Cosi' nacque l'idea di dare alle nostre idee una continuita', un laboratorio - una rivista.
Aldo Natoli, Lucio Magri, Luigi Pintor, Luciana Castellina, Ninetta Zandegiacomi, Valentino Parlato ed io pensammo che stavamo sfidando il partito e imponendo un dibattito. Il dibattito dilago' ma, in capo a tre comitati centrali, il Pci ci mise fuori. Proprio ad Aldo, Paolo Bufalini doveva dire che i sovietici avevano messo in riscossione la cambiale - che forse Berlinguer aveva simbolicamente firmato riproponendoci in comitato centrale dopo i forti attacchi all'Urss. Nella seduta del Comitato centrale del 24 novembre 1969 ci tenevamo vicini, Natoli, Pintor ed io, quando si aprirono le porte, sempre sbarrate, ai fotografi perche' fotografassero liberamente i reietti. Fu Aldo a fare la dichiarazione finale e non gli perdonarono di avere detto, con l'abituale nettezza, che si poteva essere comunisti senza la tessera del Pci.
Aldo scrisse sul "Manifesto" mensile fin dal primo numero - discutevamo assieme tutto piu' volte alla settimana. A lui interessava naturalmente di batter la linea di Amendola e la voglia di entrare al governo, ma il suo lavoro piu' profondo era sul Vietnam e la controversia fra Urss e Cina, che investiva la natura stessa d'una transizione e l'idea del socialismo.
Sul "Manifesto" la rivoluzione culturale cinese fu approfondita con documenti e analisi come in nessun'altra parte d'Europa, con l'aiuto di Lisa Foa e Maria Regis.
Ma Aldo fu anche d'accordo con l'avventura del quotidiano proposta da Luigi Pintor, se pur la famosa grafica di Trevisani non lo entusiasmo'. Lo irritava supremamente il dover attenersi non alla dimensione del ragionamento ma a quella della messa in pagina. Ma lavorammo felici, Lisa Foa, lui ed io ed un solo giornalista vero, Luca Trevisani. Eravamo tutto il giorno in via Tomacelli a pesare fra le avare agenzie, e a commentare il mondo, come allora nessun giornale faceva e da noi imparo' a fare. Solo che Aldo non si divertiva affatto nel casino che imperversava in un quotidiano povero, militante, pieno di ragazzi che aborrivano ogni disciplina e piu' inclini allo slogan che alla riflessione, e che in piu' si doveva fare e chiudere in fretta. Eternamente un semilavorato, non c'era mai tempo di discutere a fondo qualcosa. Ma questa era una questione di metodo, che bruciava alla sua cultura esigente.
Piu' grave fu il suo dissenso sul fare del "Manifesto", che era ormai una societa' diffusa, un vero e proprio partito. Tutta l'ondata del sessantotto tendeva a coagularsi in gruppi, che ci annusavano, diffidando peraltro di noi ex comunisti, quindi sospetti di non farla facile e di eccessi di prudenza. Natoli preferiva un lavorio alla base che una organizzazione verticalizzata e il confronto con gruppi leaderisti e tendenti all'estremismo. Ma anche la maggior parte di quella che stava diventando la nostra base premeva per darsi una organizzazione, un nome, un peso nelle citta' dove operava, non le bastava leggere e diffondere "Il manifesto", premeva per una accelerazione.
Su questo la pensavamo diversamente e la divisione avvenne sulle elezioni del 1972: essere presenti o no? Assenti, dicemmo Natoli ed io. Presenti, dissero Pintor e Parlato e quasi tutto il "Manifesto" periferico. Presenti disse, dopo una esitazione, Magri che dirigeva la rete centrale e periferica. La gente accorse in grandiosi comizi, ci applaudi' e voto' per il Pci, scatto' il voto utile. Disperdemmo un milione di suffragi. Natoli si dimise dal gruppo dirigente.
Continuo' a scrivere sul giornale, ma allora fini' la storia comune con "Il manifesto", che avrebbe conosciuto altre separazioni, speranze e delusioni.
Aldo continuo' a lavorare con alcuni circoli di Roma, e si deve anche a lui se furono a lungo attivi e riflessivi.
Ma in lui si faceva sempre piu' forte il bisogno di interrogarsi sulla storia del movimento comunista - e a questo si dedica da allora, spesso in collaborazione con l'Universita' di Urbino.
Negli archivi dell'Istituto Gramsci avrebbe incontrato il carteggio di Gramsci con Tatiana Schucht, sul quale nessuno s'era ancora soffermato. Gramsci fra partito in carcere e partito a Mosca, Gramsci e la sua famiglia, una storia straziante e decisiva per capire molte cose. Natoli fu il primo a inoltrarvisi, con scrupolo da filologo e intelligenza di mezzo secolo di milizia comunista. Non fu accolto con grande entusiasmo ne' dall'Istituto Gramsci ne' dagli storici di professione, che non amano le incursioni dei non addetti ai lavori. E' una ricerca che continua.
C'e' un carattere "natoliano", qualcosa di indelebilmente suo? Si', c'e'. E' il rigore nel metodo, la capacita' di guardare ai processi in tempi lunghi, la diffidenza dallo scommettere sul breve termine. Sulla sua linea "Il manifesto" si sarebbe radicato di piu' nella societa', sarebbe riuscito a impedire la deriva che oggi sta portando alla fine di quella che era stata la piu' forte sinistra d'Europa? Non saprei affermarlo. Forse era tardi, le culture della sinistra erano spezzate e non componibili. Forse si soffoca nei tempi lunghi come nella stretta dei tempi brevi.
Tutte le domande che ci facemmo nella seconda meta' del secolo sono aperte. Non hanno vinto le idee in cui credevamo, e vediamo i piu' andarsene come pecore matte verso un futuro crudele pensando che eravamo noi a esser pazzi.
Pazzi? Non credo. Et s'il etait a' refaire, je referais ce chemin, ebbe a scrivere Eluard. Si', se fosse da rifare, Aldo Natoli rifarebbe questa strada. Non c'e' neppur bisogno di augurargli di essere ancora a lungo quel che e'. La storia non e' finita e gli uomini come lui hanno piantato dei semi che germineranno.
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Una ricordo di Luciano Gallino scritto da Marco Revelli (2015)
Su Luciano Gallino riproponiamo il seguente ricordo scritto da Marco Revelli ed apparso sul quotidiano "Il manifesto" l'11 novembre 2015.
Marco Revelli: Luciano Gallino, intellettuale di fabbrica
Luciano Gallino ha scritto fino all'ultimo, fino a pochi giorni fa, quando le forze sono venute meno.
Perche' sentiva l'importanza – forse anche l'angoscia – di cio' che aveva da dire. E cioe' che il mondo non e' "come ce lo raccontano". Che il meccanismo che le oligarchie finanziarie e politiche dominanti stanno costruendo e difendendo con ogni mezzo – quello che in un suo celebre libro ha definito il Finanz-capitalismo – e' una follia, "insostenibile" dal punto di vista economico e da quello sociale. Che l'Europa stessa – l'Unione Europea, con la sua architettura arrogantemente imposta – e' segnata da un'insostenibilita' strutturale. E che il dovere di chi sa e vede – e lui sapeva e vedeva, per il culto dei dati e dell'analisi dei fatti e dei numeri che l'ha sempre caratterizzato -, e' di dirlo. A tutti, ma in particolare ai giovani. A quelli che di quella rovina pagheranno il prezzo piu' amaro.
Non per niente il suo ultimo volume (Il denaro, il debito e la doppia crisi) e' dedicato "ai nostri nipoti". E reca come exergo una frase di Rosa Luxemburg: "Dire cio' che e' rimane l'atto piu' rivoluzionario".
Eppure Gallino non era stato, nella sua lunga vita di studio e di impegno, un rivoluzionario. E neppure quello che gramscianamente si potrebbe definire un "intellettuale organico".
La sua formazione primaria era avvenuta in quella Camelot moderna che era l'Ivrea di Adriano Olivetti, all'insegna di un "umanesimo industriale" che ovunque avrebbe costituito un ossimoro tranne che li', dove in una finestra temporale eccezionale dovuta agli enormi vantaggi competitivi di quel prodotto e di quel modello produttivo, fu possibile sperimentare una sorta di "fordismo smart", intelligente e comunitario, in cui si provo' a coniugare industria e cultura, produzione e arte, con l'obiettivo, neppur tanto utopico, di suturare la frattura tra persona e lavoro. E in cui poteva capitare che il capo del personale fosse il Paolo Volponi che poi scrivera' Le mosche del capitale, e che alla pubblicita' lavorasse uno come Franco Fortini, mentre a pensare la "citta' dell'uomo" c'erano uomini come Gallino, appunto, e Pizzorno, Rozzi, Novara... il fior fiore di una sociologia critica e di una psicologia del lavoro dal volto umano.
Intellettuale di fabbrica, dunque. E poi grande sociologo, uno dei "padri" della nostra sociologia, a cui si deve, fra l'altro, il fondamentale Dizionario di sociologia Utet. Straordinario studioso della societa' italiana, nella sua parabola dall'esplosione industrialista fino al declino attuale. E infine intellettuale impegnato – potremmo dire "intellettuale militante" – quando il degrado dei tempi l'ha costretto a un ruolo piu' diretto, e piu' esposto.
Gallino in realta', negli ultimi decenni, ci ha camminato costantemente accanto, anzi davanti, anticipando di volta in volta, con i suoi libri, quello che poi avremmo dovuto constatare. E' lui che ci ha ricordato, alla fine degli anni '90, quando ancora frizzavano nell'aria le bollicine della Milano da bere, il dramma della disoccupazione con Se tre milioni vi sembran pochi, segnalandolo come la vera emergenza nazionale; e poco dopo, nel 2003 – cinque anni prima dell'esplodere della crisi! – ci ha aperto gli occhi sulla dissoluzione del nostro tessuto produttivo, con La scomparsa dell'Italia industriale, quando ancora si celebravano le magnifiche sorti e progressive della new economy e del "piccolo e' bello".
E' toccato ancora a lui, con un libro folgorante, ammonirci che Il lavoro non e' una merce, per il semplice fatto che non e' separabile dal corpo e dalla vita degli uomini e delle donne che lavorano, proprio mentre tra gli ex cultori delle teorie marxiane dell'alienazione si faceva a gara per mettere a punto quelle riforme del mercato del lavoro che poi sarebbero sboccate nell'orrore del Jobs act, vero e proprio trionfo della mercificazione del lavoro.
Poi, la grande trilogia – Con i soldi degli altri, Finanzcapitalismo, Il colpo di Stato di banche e governi -, in cui Gallino ci ha spiegato, praticamente in tempo reale, con la sua argomentazione razionale e lineare, le ragioni e le dimensioni della crisi attuale: la doppia voragine della crisi economica e della crisi ecologica che affondano entrambi le radici nella smisurata dilatazione della ricchezza finanziaria da parte di banche e di privati, al di fuori di ogni limite o controllo, senza riguardo per le condizioni del lavoro, anzi "a prescindere" dal lavoro: produzione di denaro per mezzo di denaro, incuranti del paradosso che l'esigenza di crescita illimitata dei consumi da parte di questo capitalismo predatorio urta contro la riduzione del potere d'acquisto delle masse lavoratrici, mentre la spogliazione del pianeta da parte di una massa di capitale alla perenne ricerca d'impiego distrugge l'ambiente e le condizioni stesse della sopravvivenza.
E intanto, nelle stanze del potere, si mettono a punto "terapie" che sono veleno per le societa' malate, cancellando anche la traccia di quelle ricette che permisero l'uscita dalla Grande crisi del '29.
E' per questo che l'ultimo Gallino, quello del suo libro piu' recente, aggiunge ai caratteri piu' noti della crisi, anche un altro aspetto, persino piu' profondo, e "finale".
Rivolgendosi ai nipoti, accennando alla storia che vorrebbe "provare a raccontarvi", parla di una sconfitta, personale e collettiva. Una sconfitta – cosi' scrive – "politica, sociale, morale". E aggiunge, poco oltre, che la misura di quella sconfitta sta nella scomparsa di due "idee" – e relative "pratiche" – che "ritenevamo fondamentali: l'idea di uguaglianza e quella di pensiero critico".
Con un'ultima parola, in piu'. Imprevista: "Stupidita'". La denuncia della "vittoria della stupidita'" – scrive proprio cosi' – delle attuali classi dominanti.
Credo che sia questo scenario di estrema inquietudine scientifica e umana, il fattore nuovo che ha spinto Luciano Gallino a quella forma di militanza intellettuale (e anche politica) che ha segnato i suoi ultimi anni.
Lo ricordiamo come il piu' autorevole dei "garanti" della lista L'Altra Europa con Tsipras, presente agli appuntamenti piu' importanti, sempre rigoroso e insieme intransigente, darci lezione di fermezza e combattivita'. E ancora a luglio, e poi a settembre, continuammo a discutere – e lui a scrivere un testo – per un seminario, da tenere in autunno, o in inverno, sull'Europa e le sue contraddizioni, per dare battaglia. E non arrendersi a un esistente insostenibile...
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Anche nel ricordo di Aldo Natoli e di Luciano Gallino continuiamo nell'impegno nonviolento in difesa della vita, della dignita' e dei diritti di tutti gli esseri umani.
Anche nel ricordo di Aldo Natoli e di Luciano Gallino continuiamo nell'impegno nonviolento in difesa dell'intero mondo vivente, casa comune dell'umanita'.
Oppresse e oppressi di tutti i paesi, unitevi.
Alla barbarie onnidistruttiva dei poteri dominanti opponiamo la lotta nonviolenta liberatrice.
Salvare le vite e' il primo dovere.
Alla scuola delle loro scelte, all'ascolto delle loro esperienze e riflessioni, leggendone le opere di studiosi e militanti, abbiamo appreso e confermato verita' necessarie, preso decisioni impegnative ed irrevocabili, siamo entrati e restati anche noi nella lotta contro tutte le oppressioni, contro tutte le ingiustizie, in difesa dell'eguaglianza di diritti di tutti gli esseri umani, per contrastare la barbarie dei poteri dominanti e costruire una societa' libera, giusta e solidale in cui da ciascuna persona sia dato secondo le sue capacita' ed a ciascuna persona sia dato secondo i suoi bisogni.
La nonviolenza in cammino si nutre di molte radici, conosce molte compagne e molti compagni, s'invera in molteplici vicende di resistenza all'inumano, convoca a riconoscere e contrastare la violenza, a recare soccorso a chi soffre, a costruire la liberazione comune, a condividere il bene ed i beni.
Tra i molti maestri e compagni alla cui sequela ci siamo posti anche Aldo Natoli e Luciano Gallino ricordiamo, con gratitudine che non si estingue.
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Un ritratto di Aldo Natoli scritto da Rossana Rossanda (2003)
Su Aldo Natoli riproponiamo ancora una volta il seguente profilo scritto da Rossana Rossanda e pubblicato sul quotidiano "Il manifesto" del 20 settembre 2003 in occasione del suo novantesimo compleanno.
Rossana Rossanda: Un amico
Aldo Natoli e' un bellissimo uomo che compie oggi novanta anni. Asciutto, scattante, elegante - mi si permetta di cominciare in questo modo poco canonico.
Lo conobbi verso la meta' degli anni cinquanta, e mi colpi' quanto poco somigliasse al comunista popolano anzi plebeo cantato da Pasolini e che i "romani" opponevano con ironia a noi milanesi cultori del poco pittoresco proletariato di fabbrica.
Aldo Natoli non era certo un'anima semplice, e aveva un passato favoloso: era stato un cospiratore antifascista, condannato da uno degli ultimi processi del regime, aveva fatto la Resistenza e poi, primo segretario della federazione, aveva costruito il partito comunista a Roma. Dal Campidoglio aveva lanciato con "L'Espresso" la campagna "Capitale corrotta, nazione infetta", era deputato, era medico, sapeva di letteratura francese quasi quanto il fratello Glauco, e tutto di storia e politica del Novecento. E sempre senza scomporsi parlava al microfono d'una piazza, della Camera, in borgata o si appartava a leggersi i lirici tedeschi. Insomma un compagno importante, non molto piu' grande ma quanto bastava per impormi rispetto.
Lo trovavo al comitato centrale, dove arrivavo assai dopo di lui e alla Camera e a "Rinascita" - nel breve periodo in cui Togliatti la cambio'. Ci riconoscevamo presto come coloro fra i compagni cui la fine degli anni cinquanta poneva molti interrogativi. Non quelli sull'Urss, che ci avevano angosciato nel 1956 e avrebbero indotto Natoli a lavorare sullo stalinismo; ma una domanda sul Pci davanti alla prima grande modernizzazione del paese, che ne cambiava lo scenario sociale. Un giorno che ero calata da Milano per non so quale riunione, mi invita a colazione come niente fosse in via Veneto (il poverismo del 1968 non era ancora di moda, si era poveri davvero) e al momento di pagare scopri' di non avere il portafoglio. Un gentiluomo assai confuso e io deliziata della sua confusione, da quel momento diventammo amici.
Assieme o da vicino e da lontano, formavamo con altri quella sinistra ingraiana, che Ingrao non si sogno' mai di organizzare - e non si organizzo' mai come frazione; erano comuni le domande, i dubbi, il confronto delle diverse esperienze -, l'Italia cambiava, l'economia era partita nel boom, mutavano le soggettivita' operaie, specie degli immigrati dal sud al nord, mutavano i costumi e i valori privati. L'estate del 1960 vide i ragazzi in maglietta a striscie scendere in strada a Genova e, assieme ai portuali, cacciare i fascisti del Msi. La Cgil, dove aveva preso un grande ruolo Trentin alla testa della Fiom, cresceva. Alle elezioni del maggio 1963 il Pci fece un balzo in avanti, la Democrazia cristiana prese un colpo solenne e Aldo Moro pianse a San Pellegrino. Insomma andavamo forte, ma andavamo giusto?
Con Aldo si compartiva un dubbio di fondo: il gruppo dirigente era persuaso che il capitale fosse incapace di fare il suo mestiere e che l'apertura della Dc ai socialisti avrebbe trascinato anche noi al governo. Noi dubitavamo e degli effetti della modernizzazione capitalista e del centrosinistra.
Io ero ormai a Roma, responsabile degli intellettuali a Botteghe Oscure dove demolivo coscienziosamente le commissioni dei pittori, cinematografari, scrittori, scienziati comunisti che venivano a prendere la linea, convinta che su questi terreni il Pci non dovesse metter becco, occupandosi invece sul serio degli apparati ideologici dello stato, impostando una ricerca non "marxista leninista" o "nazional popolare" ma marxista, cosa poco praticata e anzi sospetta.
Natoli lo incontravo nel Comitato centrale, dove avanzavamo le prime sortite - il mondo si muoveva, l'Algeria si liberava, cominciava l'agitazione nei campus americani sui diritti civili, contro la guerra al Vietnam. Della quale Natoli si occupava specialmente e con cui tesse' rapporti che durarono a lungo. Non ci persuadeva la pacifica coesistenza mentre gli Usa compivano l'escalation militare. E si era aperta la falla tra Urss e Cina.
Molti di noi volevano andare a fondo in quello spaccarsi della terra e delle idee. E neppure ci rendemmo conto quanto fastidio dessimo. Con la morte di Togliatti si era aperta la successione, era una battaglia di linea fra Amendola e Ingrao. Nel 1966 all'XI congresso Berlinguer si alleo' ad Amendola e si passo' allo sterminio degli ingraiani. Io ero gia' stata liquidata nel 1965, e non pianse nessuno. Natoli restava un outsider a Roma, mentre Pintor, Magri, Castellina furono tutti emarginati.
Col risultato che - esplosione del 1968 e invasione della Cecoslovacchia aiutando - quello che sarebbe stato "Il manifesto" dette battaglia da tutte le parti: esprimevamo inquietudini e bisogni comuni. Al XII congresso nel 1969 arrivammo solo in tre con diritto di parola, Natoli, Pintor ed io, e solo io con diritto di voto: il meccanismo delle recinzioni era perfetto. Parlammo per tre mattine di fila, ascoltati da una immensa sala che si riempiva presto per assistere al torneo, giornalisti inclusi - i comunisti adoravano il dissenso di sinistra purche' alla fine rientrasse.
Natoli, Pintor ed io fummo riproposti al comitato centrale. Ma non avemmo piu' nessun incarico - ammessi ma all'indice. Cosi' nacque l'idea di dare alle nostre idee una continuita', un laboratorio - una rivista.
Aldo Natoli, Lucio Magri, Luigi Pintor, Luciana Castellina, Ninetta Zandegiacomi, Valentino Parlato ed io pensammo che stavamo sfidando il partito e imponendo un dibattito. Il dibattito dilago' ma, in capo a tre comitati centrali, il Pci ci mise fuori. Proprio ad Aldo, Paolo Bufalini doveva dire che i sovietici avevano messo in riscossione la cambiale - che forse Berlinguer aveva simbolicamente firmato riproponendoci in comitato centrale dopo i forti attacchi all'Urss. Nella seduta del Comitato centrale del 24 novembre 1969 ci tenevamo vicini, Natoli, Pintor ed io, quando si aprirono le porte, sempre sbarrate, ai fotografi perche' fotografassero liberamente i reietti. Fu Aldo a fare la dichiarazione finale e non gli perdonarono di avere detto, con l'abituale nettezza, che si poteva essere comunisti senza la tessera del Pci.
Aldo scrisse sul "Manifesto" mensile fin dal primo numero - discutevamo assieme tutto piu' volte alla settimana. A lui interessava naturalmente di batter la linea di Amendola e la voglia di entrare al governo, ma il suo lavoro piu' profondo era sul Vietnam e la controversia fra Urss e Cina, che investiva la natura stessa d'una transizione e l'idea del socialismo.
Sul "Manifesto" la rivoluzione culturale cinese fu approfondita con documenti e analisi come in nessun'altra parte d'Europa, con l'aiuto di Lisa Foa e Maria Regis.
Ma Aldo fu anche d'accordo con l'avventura del quotidiano proposta da Luigi Pintor, se pur la famosa grafica di Trevisani non lo entusiasmo'. Lo irritava supremamente il dover attenersi non alla dimensione del ragionamento ma a quella della messa in pagina. Ma lavorammo felici, Lisa Foa, lui ed io ed un solo giornalista vero, Luca Trevisani. Eravamo tutto il giorno in via Tomacelli a pesare fra le avare agenzie, e a commentare il mondo, come allora nessun giornale faceva e da noi imparo' a fare. Solo che Aldo non si divertiva affatto nel casino che imperversava in un quotidiano povero, militante, pieno di ragazzi che aborrivano ogni disciplina e piu' inclini allo slogan che alla riflessione, e che in piu' si doveva fare e chiudere in fretta. Eternamente un semilavorato, non c'era mai tempo di discutere a fondo qualcosa. Ma questa era una questione di metodo, che bruciava alla sua cultura esigente.
Piu' grave fu il suo dissenso sul fare del "Manifesto", che era ormai una societa' diffusa, un vero e proprio partito. Tutta l'ondata del sessantotto tendeva a coagularsi in gruppi, che ci annusavano, diffidando peraltro di noi ex comunisti, quindi sospetti di non farla facile e di eccessi di prudenza. Natoli preferiva un lavorio alla base che una organizzazione verticalizzata e il confronto con gruppi leaderisti e tendenti all'estremismo. Ma anche la maggior parte di quella che stava diventando la nostra base premeva per darsi una organizzazione, un nome, un peso nelle citta' dove operava, non le bastava leggere e diffondere "Il manifesto", premeva per una accelerazione.
Su questo la pensavamo diversamente e la divisione avvenne sulle elezioni del 1972: essere presenti o no? Assenti, dicemmo Natoli ed io. Presenti, dissero Pintor e Parlato e quasi tutto il "Manifesto" periferico. Presenti disse, dopo una esitazione, Magri che dirigeva la rete centrale e periferica. La gente accorse in grandiosi comizi, ci applaudi' e voto' per il Pci, scatto' il voto utile. Disperdemmo un milione di suffragi. Natoli si dimise dal gruppo dirigente.
Continuo' a scrivere sul giornale, ma allora fini' la storia comune con "Il manifesto", che avrebbe conosciuto altre separazioni, speranze e delusioni.
Aldo continuo' a lavorare con alcuni circoli di Roma, e si deve anche a lui se furono a lungo attivi e riflessivi.
Ma in lui si faceva sempre piu' forte il bisogno di interrogarsi sulla storia del movimento comunista - e a questo si dedica da allora, spesso in collaborazione con l'Universita' di Urbino.
Negli archivi dell'Istituto Gramsci avrebbe incontrato il carteggio di Gramsci con Tatiana Schucht, sul quale nessuno s'era ancora soffermato. Gramsci fra partito in carcere e partito a Mosca, Gramsci e la sua famiglia, una storia straziante e decisiva per capire molte cose. Natoli fu il primo a inoltrarvisi, con scrupolo da filologo e intelligenza di mezzo secolo di milizia comunista. Non fu accolto con grande entusiasmo ne' dall'Istituto Gramsci ne' dagli storici di professione, che non amano le incursioni dei non addetti ai lavori. E' una ricerca che continua.
C'e' un carattere "natoliano", qualcosa di indelebilmente suo? Si', c'e'. E' il rigore nel metodo, la capacita' di guardare ai processi in tempi lunghi, la diffidenza dallo scommettere sul breve termine. Sulla sua linea "Il manifesto" si sarebbe radicato di piu' nella societa', sarebbe riuscito a impedire la deriva che oggi sta portando alla fine di quella che era stata la piu' forte sinistra d'Europa? Non saprei affermarlo. Forse era tardi, le culture della sinistra erano spezzate e non componibili. Forse si soffoca nei tempi lunghi come nella stretta dei tempi brevi.
Tutte le domande che ci facemmo nella seconda meta' del secolo sono aperte. Non hanno vinto le idee in cui credevamo, e vediamo i piu' andarsene come pecore matte verso un futuro crudele pensando che eravamo noi a esser pazzi.
Pazzi? Non credo. Et s'il etait a' refaire, je referais ce chemin, ebbe a scrivere Eluard. Si', se fosse da rifare, Aldo Natoli rifarebbe questa strada. Non c'e' neppur bisogno di augurargli di essere ancora a lungo quel che e'. La storia non e' finita e gli uomini come lui hanno piantato dei semi che germineranno.
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Una ricordo di Luciano Gallino scritto da Marco Revelli (2015)
Su Luciano Gallino riproponiamo il seguente ricordo scritto da Marco Revelli ed apparso sul quotidiano "Il manifesto" l'11 novembre 2015.
Marco Revelli: Luciano Gallino, intellettuale di fabbrica
Luciano Gallino ha scritto fino all'ultimo, fino a pochi giorni fa, quando le forze sono venute meno.
Perche' sentiva l'importanza – forse anche l'angoscia – di cio' che aveva da dire. E cioe' che il mondo non e' "come ce lo raccontano". Che il meccanismo che le oligarchie finanziarie e politiche dominanti stanno costruendo e difendendo con ogni mezzo – quello che in un suo celebre libro ha definito il Finanz-capitalismo – e' una follia, "insostenibile" dal punto di vista economico e da quello sociale. Che l'Europa stessa – l'Unione Europea, con la sua architettura arrogantemente imposta – e' segnata da un'insostenibilita' strutturale. E che il dovere di chi sa e vede – e lui sapeva e vedeva, per il culto dei dati e dell'analisi dei fatti e dei numeri che l'ha sempre caratterizzato -, e' di dirlo. A tutti, ma in particolare ai giovani. A quelli che di quella rovina pagheranno il prezzo piu' amaro.
Non per niente il suo ultimo volume (Il denaro, il debito e la doppia crisi) e' dedicato "ai nostri nipoti". E reca come exergo una frase di Rosa Luxemburg: "Dire cio' che e' rimane l'atto piu' rivoluzionario".
Eppure Gallino non era stato, nella sua lunga vita di studio e di impegno, un rivoluzionario. E neppure quello che gramscianamente si potrebbe definire un "intellettuale organico".
La sua formazione primaria era avvenuta in quella Camelot moderna che era l'Ivrea di Adriano Olivetti, all'insegna di un "umanesimo industriale" che ovunque avrebbe costituito un ossimoro tranne che li', dove in una finestra temporale eccezionale dovuta agli enormi vantaggi competitivi di quel prodotto e di quel modello produttivo, fu possibile sperimentare una sorta di "fordismo smart", intelligente e comunitario, in cui si provo' a coniugare industria e cultura, produzione e arte, con l'obiettivo, neppur tanto utopico, di suturare la frattura tra persona e lavoro. E in cui poteva capitare che il capo del personale fosse il Paolo Volponi che poi scrivera' Le mosche del capitale, e che alla pubblicita' lavorasse uno come Franco Fortini, mentre a pensare la "citta' dell'uomo" c'erano uomini come Gallino, appunto, e Pizzorno, Rozzi, Novara... il fior fiore di una sociologia critica e di una psicologia del lavoro dal volto umano.
Intellettuale di fabbrica, dunque. E poi grande sociologo, uno dei "padri" della nostra sociologia, a cui si deve, fra l'altro, il fondamentale Dizionario di sociologia Utet. Straordinario studioso della societa' italiana, nella sua parabola dall'esplosione industrialista fino al declino attuale. E infine intellettuale impegnato – potremmo dire "intellettuale militante" – quando il degrado dei tempi l'ha costretto a un ruolo piu' diretto, e piu' esposto.
Gallino in realta', negli ultimi decenni, ci ha camminato costantemente accanto, anzi davanti, anticipando di volta in volta, con i suoi libri, quello che poi avremmo dovuto constatare. E' lui che ci ha ricordato, alla fine degli anni '90, quando ancora frizzavano nell'aria le bollicine della Milano da bere, il dramma della disoccupazione con Se tre milioni vi sembran pochi, segnalandolo come la vera emergenza nazionale; e poco dopo, nel 2003 – cinque anni prima dell'esplodere della crisi! – ci ha aperto gli occhi sulla dissoluzione del nostro tessuto produttivo, con La scomparsa dell'Italia industriale, quando ancora si celebravano le magnifiche sorti e progressive della new economy e del "piccolo e' bello".
E' toccato ancora a lui, con un libro folgorante, ammonirci che Il lavoro non e' una merce, per il semplice fatto che non e' separabile dal corpo e dalla vita degli uomini e delle donne che lavorano, proprio mentre tra gli ex cultori delle teorie marxiane dell'alienazione si faceva a gara per mettere a punto quelle riforme del mercato del lavoro che poi sarebbero sboccate nell'orrore del Jobs act, vero e proprio trionfo della mercificazione del lavoro.
Poi, la grande trilogia – Con i soldi degli altri, Finanzcapitalismo, Il colpo di Stato di banche e governi -, in cui Gallino ci ha spiegato, praticamente in tempo reale, con la sua argomentazione razionale e lineare, le ragioni e le dimensioni della crisi attuale: la doppia voragine della crisi economica e della crisi ecologica che affondano entrambi le radici nella smisurata dilatazione della ricchezza finanziaria da parte di banche e di privati, al di fuori di ogni limite o controllo, senza riguardo per le condizioni del lavoro, anzi "a prescindere" dal lavoro: produzione di denaro per mezzo di denaro, incuranti del paradosso che l'esigenza di crescita illimitata dei consumi da parte di questo capitalismo predatorio urta contro la riduzione del potere d'acquisto delle masse lavoratrici, mentre la spogliazione del pianeta da parte di una massa di capitale alla perenne ricerca d'impiego distrugge l'ambiente e le condizioni stesse della sopravvivenza.
E intanto, nelle stanze del potere, si mettono a punto "terapie" che sono veleno per le societa' malate, cancellando anche la traccia di quelle ricette che permisero l'uscita dalla Grande crisi del '29.
E' per questo che l'ultimo Gallino, quello del suo libro piu' recente, aggiunge ai caratteri piu' noti della crisi, anche un altro aspetto, persino piu' profondo, e "finale".
Rivolgendosi ai nipoti, accennando alla storia che vorrebbe "provare a raccontarvi", parla di una sconfitta, personale e collettiva. Una sconfitta – cosi' scrive – "politica, sociale, morale". E aggiunge, poco oltre, che la misura di quella sconfitta sta nella scomparsa di due "idee" – e relative "pratiche" – che "ritenevamo fondamentali: l'idea di uguaglianza e quella di pensiero critico".
Con un'ultima parola, in piu'. Imprevista: "Stupidita'". La denuncia della "vittoria della stupidita'" – scrive proprio cosi' – delle attuali classi dominanti.
Credo che sia questo scenario di estrema inquietudine scientifica e umana, il fattore nuovo che ha spinto Luciano Gallino a quella forma di militanza intellettuale (e anche politica) che ha segnato i suoi ultimi anni.
Lo ricordiamo come il piu' autorevole dei "garanti" della lista L'Altra Europa con Tsipras, presente agli appuntamenti piu' importanti, sempre rigoroso e insieme intransigente, darci lezione di fermezza e combattivita'. E ancora a luglio, e poi a settembre, continuammo a discutere – e lui a scrivere un testo – per un seminario, da tenere in autunno, o in inverno, sull'Europa e le sue contraddizioni, per dare battaglia. E non arrendersi a un esistente insostenibile...
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Anche nel ricordo di Aldo Natoli e di Luciano Gallino continuiamo nell'impegno nonviolento in difesa della vita, della dignita' e dei diritti di tutti gli esseri umani.
Anche nel ricordo di Aldo Natoli e di Luciano Gallino continuiamo nell'impegno nonviolento in difesa dell'intero mondo vivente, casa comune dell'umanita'.
Oppresse e oppressi di tutti i paesi, unitevi.
Alla barbarie onnidistruttiva dei poteri dominanti opponiamo la lotta nonviolenta liberatrice.
Salvare le vite e' il primo dovere.
Il "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo
Viterbo, 8 novembre 2020
Mittente: "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo, strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: centropacevt@gmail.com
Il "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo e' una struttura nonviolenta attiva dagli anni '70 del secolo scorso che ha sostenuto, promosso e coordinato varie campagne per il bene comune, locali, nazionali ed internazionali. E' la struttura nonviolenta che oltre trent'anni fa ha coordinato per l'Italia la piu' ampia campagna di solidarieta' con Nelson Mandela, allora detenuto nelle prigioni del regime razzista sudafricano. Nel 1987 ha promosso il primo convegno nazionale di studi dedicato a Primo Levi. Dal 2000 pubblica il notiziario telematico quotidiano "La nonviolenza e' in cammino" che e' possibile ricevere gratuitamente abbonandosi attraverso il sito www.peacelink.it
Il "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo e' una struttura nonviolenta attiva dagli anni '70 del secolo scorso che ha sostenuto, promosso e coordinato varie campagne per il bene comune, locali, nazionali ed internazionali. E' la struttura nonviolenta che oltre trent'anni fa ha coordinato per l'Italia la piu' ampia campagna di solidarieta' con Nelson Mandela, allora detenuto nelle prigioni del regime razzista sudafricano. Nel 1987 ha promosso il primo convegno nazionale di studi dedicato a Primo Levi. Dal 2000 pubblica il notiziario telematico quotidiano "La nonviolenza e' in cammino" che e' possibile ricevere gratuitamente abbonandosi attraverso il sito www.peacelink.it
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