Crisi energetica: fine della Ue?

 Crisi energetica: fine della Ue?

di Matteo Bortolon


Alcuni commentatori hanno parlato di crollo della Ue a proposito della crisi energetica. Le motivazioni sarebbero che a fronte di difficoltà molto pericolose per le economie europee, la logica giusta sarebbe il coordinamento delle politiche, invece ogni Stato membro cerca di salvarsi per conto proprio; la ciliegina sulla torta è stata il massiccio stimolo fiscale della Germania - si parla di 200 miliardi € - in seguito alla caduta di fornitura dalla Russia. Il paese egemone che dovrebbe guidare il coordinamento delle politiche - si è mai visto una cooperazione riuscita in cui il membro più influente rema contro? - pensa invece ai propri interessi.

Ovviamente non sappiamo dove ci porterà questa dinamica ma sarebbe bene mantenere un minimo di memoria storica. In buona parte, la tutela dei propri interessi nazionali, con una elevata litigiosità dei membri, è sempre stata moneta sonante nell’Unione, per cui possiamo in qualche misura rassicurare gli idealisti: la disunione fattuale c’è già da numerosi anni; dall’altro non sembra inutile ricapitolare alcuni elementi di fatto per cui una unione reale o è impossibile, o (per quello che si potrebbe fare davvero) è non auspicabile. Al di là delle prospettive oniriche di federalismo, unità europea e altre simili amenità.

 La Ue è una entità politica basata sulla coabitazione degli Stati che la compongono nella cornice del diritto comunitario ma con forte enfasi sulla competizione. Le “politiche comuni” non sono vere forme di coordinamento, c’è una decisone condivisa a livello di organi centrali (sia pur con una prevalenza degli Stati più forti) ma poi ognuno se le fa per conto suo, con tanta cooperazione quanto c’è fra gli alunni che svolgono il compitino dettato dalla maestra.

Concorrenza e competizione sono al centro del diritto europeo (che i giuristi più vicini alla Commissione vorrebbero di rango superiore alle costituzioni nazionali) come elementi regolativi all’interno delle società e fra i membri stessi. Le politiche di tutela della concorrenza vedono la loro massima punta d’acciaio nelle normative sugli aiuti di Stato, volte a creare la mitica situazione di mercato paritetica fra i fornitori di merci e servizi. Ma dato che i “campioni nazionali” sono immersi in un ambiente volto alla competizione, ogni Stato cerca di favorirli e foraggiarli con tutti i mezzi. La complessità del sistema ed il fatto che l’ultima parola sia dei governi nazionali nel loro insieme con forme di consenso e accordo fa si che gli Stati più influenti possano usufruire di eccezioni e facilitazioni che altri non hanno. A fronte della ricorrente critica che ha avuto fortuna soprattuto a destra (più di carattere nazionalista che da establishment del Partito popolare europeo) di denazionalizzare e de sovranizzare le politiche, possiamo dire che si tratta di una verità parziale: tutti i paesi membri perdono prerogative sovrane, ma i più forti di fatto le recuperano con una più salde influenza delle istituzioni comunitarie, i più deboli le perdono e basta.

Un sintomo di tale situazione è il grande tema della divergenza fra nucleo e periferia: i paesi del nucleo tedesco (Germania e suoi vicini e satelliti) hanno avuto indici economici superiori a quelli della periferia, soggettava processi di deindustrializzazione e indebitamento privato molto significativi. Quando la crisi del 2007-08 è sbarcata su suolo europeo, tutta la fragilità del contesto comunitario è esplosa: i paesi del “centro” hanno salvato le loro banche e hanno preteso (con successo) un riassetto delle norme comunitarie che implicasse una severa austerità della periferia (i famosi PIIGS: Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia, Spagna), i cui paesi sono stati disgustosamente stigmatizzati come scrocconi e lavatici, attingendo agli indici più fantasiosi o distorsivi. Con una manovra a tenaglia, la occhiuta sorveglianza dei bilanci pubblici (mentre poco e nulla si è fatto per i debiti privati, favoriti per continuare ad ampliare i consumi senza alzare i salari!) si è accompagnata a finanziamenti elargiti dai cosiddetti fondi salva-Stato che servivano ad iniettare soldi dei contribuenti nei paesi della periferia per salvare le banche del centro, sostanzialmente bypassando le prerogative dei rispettivi Parlamenti, dando tutta la colpa alle “cicale” del sud…

La manovra, di rara spregevolezza, è riuscita. Ma ha lasciato sul campo la reputazione dell’europeismo come base politica per misure favorevoli alle classi lavoratrici, facendo sorgere un po’ ovunque buone fette dell’opinione pubblica apertamente ostili alla Ue e a tutto ciò che proviene da essa, e di partiti che attingono a tali sentimenti per la propria identità politica - per lo più schierati a destra, e assai più propensi alla propaganda che ad reale posizionamento politico, mentre quelli progressisti, avendo massicciamente gettato alle ortiche l’analisi di classe, restavano fedeli al “sogno europeo” (quando buona parte del loro elettorato si dileguava in silenzio, avendolo vissuto come incubo). Ma la Ue è sopravvissuta, nonostante abbia perso il Regno Unito con la brexit nel 2016.

Altri momenti di forte tensione che potevano portare ad una frantumazione della Ue sono stati la crisi dei migranti nel 2015-16 e il Covid. La prima è stata una drammatizzazione dei flussi alla fine tamponata dalla stessa Commissione che col placet della Germania si è messa d’accordo con la Turchia per bloccare i flussi.

Il secondo frangente è stato molto più serio, ed ha portato ad una crisi di fiducia nelle istituzioni comunitarie ancora più forte, fino a spingerle ad una inedita concessione: dopo una negoziazione asfissiante che ha dovuto superare l’opposizione dei paesi del nord Europa (fra cui l’Olanda) si è consentito ad un debito condiviso che ha scovato i fondi per il cd. Recovery Fund, ma sganciando i soldi con una occhiuta procedura di sorveglianza sulla spesa, per un ammontare alla fine abbastanza modesto (previsti 750 mld € per 6 anni per tutti i 27 paesi…).

Viste le prove a cui la Ue è sopravvissuta, per ammaccata e per vasti strati di popolazione delegittimata, è incauto prevedere che la crisi attuale ne decreti la fine. Ma un tratto di diversità molto importante è la crisi della Germania, il vero Stato leader dell’Unione durante questi anni. La dipendenza dal gas russo che adesso non c’è più non può venir rimpiazzata a breve, e oltre al danno ai cittadini per le bollette più alte costituisce un serissimo problema per le aziende e la loro capacità produttiva. Un crollo economico della Germania è una possibilità seria e non si può escludere del tutto che Berlino escogiti una via d’uscita che metta in conto l’abbandono del carrozzone comunitario, che tanto ha dato al,paese in termini di vantaggi ma adesso potrebbe rivelarsi una zavorra inutile.

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