I popoli indigeni hanno i loro progetti di vita

I popoli indigeni hanno i loro progetti di vita

                                                   File:Indigenous people of Argentina (from a book Published in 1931) P.363.png 

Francisco López Bárcenas (intervistato da Gloria Muñoz Ramírez)

13 settembre 2024 ojarasca.jornada.com.mx

 

 

Francisco López Bárcenas, avvocato, scrittore, storico e docente ricercatore di origine mixteca, fa il punto sulle politiche nei confronti delle popolazioni indigene durante il mandato di sei anni che sta per concludersi.[1]

L'intellettuale indigeno che ha imparato ad essere indio, come lo descrive Luis Hernández Navarro, parla di politiche pubbliche e diritti dei popoli, della riforma indigena, del nuovo catalogo dei popoli indigeni e afro-discendenti, della criminalità organizzata nelle comunità, dei megaprogetti e del modello estrattivista. Non prevede un futuro catastrofico per i popoli indigeni, perché, dice, essi "hanno i loro progetti di vita".

 

Come riassumi la politica di questi sei anni nei confronti dei popoli originari?

Fin dall'inizio, il presidente ha detto: "per il bene di tutti, in primo luogo dei poveri", e poi, durante un giro che ha fatto al nord, fra gli indigeni Seris, ha detto che si sarebbe occupato di loro come si faceva negli anni 1970. Non ha mai promesso diritti, ha concentrato l’attenzione sulle politiche pubbliche. In questo senso, ha adempiuto, non ha promesso diritti e non ne ha dati. Le politiche sì.

D'altra parte, funzionari di grado minore, a livello medio e superiore, come quello dell'INPI [Istituto Nazionale dei Popoli Indigeni] e dell'INALI [Istituto Nazionale delle Lingue Indigene], hanno parlato di diritti e di altre cose simili. Il direttore generale dell'INPI, Adelfo Regino,[2] prima di entrare in carica, ha detto alla Camera dei deputati che lo stanziamento sarebbe stato aumentato per lo meno del 200 per cento, che era una vergogna che le politiche si elaborassero sulle scrivanie dei funzionari e che sarebbero state fatte nei villaggi. E questo non è successo.

Per cinque anni ho contato il numero di iniziative sui diritti indigeni presentate da diversi partiti. Ho contato 38 iniziative quando Morena[3] aveva la maggioranza qualificata al Congresso, e nessuna è stata approvata. Questo è un segno del disprezzo per i popoli indigeni.

L'altro aspetto riguarda ciò che era già stato legiferato [prima della presidenza di AMLO]. Abbiamo la consultazione, ma non abbiamo una legislazione. Abbiamo tutti i precedenti della Corte Interamericana e tutti i precedenti della Corte Messicana, che è quella con cui hanno conteso i popoli che hanno vinto le consultazioni, come Capulálpam de Méndez a Oaxaca, Cuetzalan e Ixtacamaxtitlán a Puebla, e alcuni a Guanajuato. Era sufficiente perché il governo facesse consultazioni serie, ma non ce ne sono state.

In sintesi, ci sono tre fatti: primo, che il presidente non ha promesso diritti e che alcune istanze governative l’hanno fatto, generando aspettative; secondo, che ciò che il presidente ha promesso erano politiche e che in questo senso è stato coerente, il che non significa che abbia agito bene, ma che ci ha riportato indietro di mezzo secolo; terzo, che dove poteva legiferare non l’ha fatto.

 

In linea generale, tutto questo non è intrinseco al progetto di paese che si sta sbandierando?

Sono convinto che il progetto di questo mandato di sei anni sia neoliberista. Nell'ultimo rendiconto, López Obrador si vantava di non aver rilasciato nessuna concessione mineraria, il che è vero, ma ci sono due terzi del paese che sono già stati concessi. In questo mezzo secolo non hanno bisogno di nessun governo che dia loro un'altra concessione, ma solo che li lascino usufruire di quelle che ci sono.

Non c'è quindi niente di grandioso nella sospensione del rilascio di concessioni. E c'erano cose che avrebbe potuto fare e non ha fatto. Tutte le concessioni minerarie che esistono nei territori indigeni, che sono circa cinquemila, da un punto di vista legale sono illegali perché nessuna di esse è stata oggetto di consultazione. Hanno un vizio di validità. Se il presidente avesse voluto, per decreto o in qualsiasi altro modo, avrebbe potuto cancellarle. Invece, ha cominciato a intraprendere azioni legali contro i popoli che contestavano quelle concessioni.

Quello che stiamo vivendo è la prosecuzione di un progetto che di per sé è distruttivo dei territori indigeni, e inoltre è la continuazione di un disprezzo che si traduce in un annientamento del possibile attore che potrebbe opporsi a quel progetto. Possiamo constatarlo. È vero che l'opposizione a questo tipo di megaprogetti è diminuita, ma questo è avvenuto perché gli indigeni che avevano creduto in Andrés Manuel, e pensavano di potersi aspettare qualcosa da lui, sono rimasti in attesa. E questo li ha smobilitati.

 

Fra le cose più recenti c’è la riforma indigena che è stata approvata in alcune commissioni della Camera dei deputati lo scorso 9 agosto...

Questa riforma è mutilata in due sensi: in primo luogo perché è ben al di sotto degli impegni e degli obblighi internazionali che il governo messicano ha in materia di diritti indigeni; e poi perché il governo stesso ha avviato un processo di forum di consultazione, che non è la stessa cosa di una consultazione, e ha mobilitato la sua base indigena.[4] Il Ministero dell'Interno e l'INPI hanno fatto convocazioni, hanno fornito tutte le facilitazioni per la mobilitazione della gente e hanno generato molte speranze.

Si sono tenuti 52 forum in 27 Stati, il che non è una cosa da poco. Hanno tenuto un forum a Los Angeles per i migranti, ne hanno tenuto un altro a Yalálag, Oaxaca, che è un luogo molto simbolico per la lotta e la struttura che ha. I risultati di quella consultazione sono stati consegnati al presidente in un evento pubblico in cui egli ha detto che stava rivendicando i diritti del popolo Yaqui. Quando il segretario del governo Yaqui glieli ha consegnati, il presidente non l’ha nemmeno ringraziato, non gli ha detto che li avrebbe studiati, niente, li ha presi, se li è infilati sotto il braccio ed è andato via.

Ha ricevuto la proposta e se n’è andato in silenzio, e quel silenzio è durato circa quattro anni. Non è successo nulla fino al 5 febbraio dello scorso anno, quando presenta la proposta in un momento in cui ha già problemi con la maggioranza qualificata di cui ha bisogno al Congresso. E, con sorpresa di tutti, non è quella che gli Yaqui avevano elaborato.

Il testo originale proponeva la modifica di 17 dei 135 articoli della Costituzione; in cinque di essi la proposta di riforma era piuttosto profonda, in 12 si trattava di adattare il linguaggio. Venivano indicati dieci diritti centrali: libera determinazione, autonomia, risorse naturali, territori, proprietà intellettuale, educazione interculturale, sistemi normativi indigeni, governi comunitari. Era un testo abbastanza buono, ma quello presentato il 5 febbraio conteneva un solo articolo e sei diritti: la consultazione e qualcosa riguardo al patrimonio culturale, che già avevamo.

La novità era la consultazione e un tema a cui hanno dato molta importanza: il riconoscimento come soggetti di diritto pubblico. Ma la Camera dei Deputati, che è quella che approva i bilanci, non ha concesso risorse ai popoli indigeni solo perché dicono che ora sono soggetti di diritto pubblico. Ci dovrebbe essere un qualche decreto in qualche legge che lo stabilisca.

La povertà della riforma si ricollega a una questione storica. Se non hanno una propria rappresentanza, i propri diritti politici o il controllo dei territori, dove eserciteranno le loro facoltà?

L'iniziativa fu presentata il 5 febbraio, venne approvata in alcune commissioni alla Camera dei deputati il 9 agosto e venne sollevato un polverone come se fosse già stata approvata. Ma non è vero, perché deve passare alla plenaria della Camera dei deputati, poi alle commissioni del Senato, e poi alla plenaria del Senato. Se tutto va bene, a dicembre o gennaio ci sarebbero novità, ma non hanno fretta. Si trattava solo di dare l'annuncio di ciò che era avvenuto in agosto come se l’approvazione fosse già avvenuta.

Le elezioni ci sono già state, il nuovo governo è già stato formato, a chi può importare ora? È molto probabile che non esca nemmeno, perché può intrecciarsi con altre iniziative che sono attualmente nel pacchetto inviato dal presidente, come la riforma giudiziaria. Molti giuristi sono già arrivati a dire che a questa riforma manca la dimensione indigena. Penso che le manchi, come le mancano molte cose.

 

Lo stesso 9 agosto, il governo federale ha pubblicato il Catalogo Nazionale dei Popoli e delle Comunità Indigene e Afromessicane...

Un catalogo è un elenco di qualcosa che esiste. L'ho letto e dice che si tratta di uno strumento per pianificare la politica indigena. Non è che si stiano riconoscendo le popolazioni indigene, non è che attraverso di esso le popolazioni indigene avranno delle facilitazioni. Sarà più facile per il governo andare nei villaggi. È una forma di controllo.

Nel 1990, il governo messicano aveva fatto qualcosa di simile, ma con i municipi indigeni. C'erano alcuni municipi che erano indigeni perché il 60% o più della loro popolazione era indigeno. Ce n'erano alcuni che, secondo i loro parametri, erano per metà indigeni perché avevano dal 30 al 59 per cento di popolazione indigena, e ce n’erano altri che non erano indigeni perché meno del 30 per cento della loro popolazione era indigeno. A che cosa serviva tutto questo? A limitare l'accesso al bilancio finanziario.

Si resero conto che il budget era diminuito così tanto che non bastava quasi per nulla, per cui si doveva distribuirlo non a chi ne aveva bisogno, ma a chi faceva più richieste. Se c'erano villaggi che non facevano parte di quelli in cui la popolazione indigena era maggioritaria, venivano semplicemente cancellati e trascurati. C'è stato un caso a Hidalgo, con la comunità Otomì di San Ildefonso, che era tra quelle che "non erano" indigene, ma lo erano. Ha chiesto l’amparo,[5] e la Corte ha imposto che non fossero ignorati. Sospetto che la stessa cosa accadrà con il nuovo Catalogo.

Non è l'unico catalogo esistente. Ce ne sono già in diversi Stati, come ad esempio San Luis Potosí e Querétaro. E che cosa è successo? Niente, non ci sono differenze rispetto agli Stati in cui non ci sono diritti riconosciuti. Il catalogo serve soltanto ad addossare agli indigeni la colpa del motivo per cui non ricevono stanziamenti, poiché devono dimostrare di essere indigeni, il che viola il diritto all'autocertificazione e alla rappresentanza politica.

Si tratta sicuramente di uno strumento di controllo da parte dello Stato nei confronti dei popoli indigeni, anche se ci sono molti che credono il contrario, ma l’obiettivo è che abbiano meno risorse e che non rivendichino una rappresentanza politica.

 

Questi cataloghi servono per il riconoscimento dei territori, dato che se ne riconosce l’esistenza?

No, questi cataloghi non hanno funzionato per niente. Il fatto che un popolo sia nel catalogo non significa che il suo territorio sia riconosciuto, perché il territorio è stato definito dal municipio a cui appartiene. Il problema della delimitazione dei territori indigeni è che se non la realizzi con gli indigeni stessi, corri il rischio di fare una barbarie.

Prendiamo, ad esempio, il territorio del popolo Wixárika. Lo assegni a Nayarit, a Durango, a Jalisco o a San Luis Potosí? Dovrebbe essere attribuito a tutti questi, prendendo in considerazione non solo la parte in cui i Wixárika sono riconosciuti come proprietari (del territorio) in quanto membri di un ejido o di una comunità, ma tutto il territorio in cui in qualche modo agiscono. Il luogo più emblematico dei Wixárika è Real de Catorce, nello Stato di San Luis Potosí, di proprietà dell'ejido Real de Catorce. Come si procede al riconoscimento dei territori? Il governo, nell’ambito di altre politiche, ha preso delle disposizioni riguardanti alcuni siti sacri Wixárika, che sono contestate dagli ejidatari. Essi hanno avviato procedimenti di amparo in cui si dice che quei siti sono di loro proprietà e che altri non possono intromettersi.

Quindi, il fatto che un catalogo sia riconosciuto non dà loro nulla, anzi, c'è solo controllo.

 

Che cosa hanno rappresentato i megaprogetti per i popoli indigeni?

Da quando l'estrattivismo è stato adottato in Messico, questo modello ha avuto una ricaduta sulle risorse naturali, sebbene esista anche un estrattivismo culturale, di conoscenze, di pratiche. Le risorse naturali, che sono la parte più notevole, si trovano per lo più nei territori indigeni (il 70 per cento, soprattutto per quanto riguarda la biodiversità).

Anche se molti dicono che non è visibile, esiste una relazione cosmogonica tra i popoli indigeni e la natura. Non si possono trattare le risorse naturali come una merce, è aberrante, ma è così che vengono trattate. Dunque si stanno realizzando megaprogetti sui territori, ma anche sulla vita delle popolazioni indigene. Le privano non solo del loro patrimonio, ma anche della possibilità di vivere come popoli.

 

Nello stesso tempo, c’è un aumento della violenza e della criminalità organizzata nelle aree interessate da questi megaprogetti...

C'è un aumento di tutto: dei profitti, della violenza, degli sgomberi forzati. Gli impatti sono già iniziati, ma sono solo un assaggio di quello che ci aspetta nei prossimi anni. I megaprogetti vanno di pari passo con la criminalità organizzata. C’è molta documentazione su questa guerra al narcotraffico, su come, nelle zone in cui si andava a perseguire il narcotraffico, quelli che cadevano erano leader sociali che si opponevano a quei progetti.

I popoli sono rimasti intrappolati nelle problematiche del che fare, e molti hanno accettato di convivere o sono stati costretti ad accettare il crimine organizzato. Ma ce ne sono altri che l’affrontano, come nel Guerrero, nel Michoacán o nella Sierra Tarahumara, perché non hanno altra scelta e perché trasferirsi altrove non è facile. Il poco o il tanto che hanno per vivere, la loro casetta, le loro galline, non lo possono lasciare. Trasferirsi altrove significa morire come popolo e talvolta come esseri umani.

 

Tutto questo non genera divisioni nella popolazione?

Il neo-indigenismo di oggi ha diverse caratteristiche. Una di queste è che i suoi operatori sono indigeni molto preparati, che sanno cosa stanno facendo e sanno che lo stanno facendo contro i popoli indigeni. L'altra caratteristica è l’assenza di qualsiasi proposta, perché parlano in nome dei diritti, però non sono favorevoli ai diritti, per cui se la cavano con qualche piano o con qualche attività.

Nel 2000, pochi anni dopo la firma degli Accordi di San Andrés, nessun governo, che fosse del PAN [Partito di Azione Nazionale], del PRI [Partito Rivoluzionario Istituzionale], o del PRD [Partito della Rivoluzione Democratica], osava parlare di autonomia, perché era una parola centrale nella rivendicazione dei popoli indigeni. Ora la narrativa dello Stato si è banalizzata al punto che si possono ingannare i popoli e dire che si tratta di autonomia. Sì, perché hanno degli operatori di qualità, che hanno partecipato al movimento zapatista che ha generato tutto questo. Molti di coloro che hanno costruito e fatto parte di quel movimento sono ora operatori di queste politiche. 

Hanno anche deciso di usare la narrativa del “comandare obbedendo”, dell'autonomia e del "Mai più un Messico senza di noi". Nel frattempo, i popoli che hanno creato questi slogan, che hanno creato questa narrazione, continuano a lottare contro i megaprogetti, contro il crimine organizzato e contro le stesse politiche indigeniste.[6]

In generale, la gente non è contraria alle politiche che vengono promosse, non perché le condivide, ma perché è il poco che può ottenere da questo governo, anche se non aderisce ad esso. Quasi tutti accettano il denaro che arriva. 

 

Che cosa pensi che faranno i popoli indigeni?

C'è chi dice che non esiste un movimento indigeno, ma io non sono d’accordo. Da circa venti o trent'anni il movimento indigeno si sta trasformando, quello che stiamo vedendo è ciò che Raúl Zibechi ha percepito chiaramente: non si tratta di movimenti indigeni, ma di interi popoli in movimento.

Se si guarda ai popoli che resistono, vediamo che in genere non hanno un'organizzazione tradizionale, verticale, con un leader. Dirigono le loro assemblee attraverso le loro autorità, e si verifica che un giorno il leader è uno e dopodomani è già un altro, perché cambiano le autorità ma anche perché proteggono i propri rappresentanti.

Lo scenario non è così disastroso come lo vedono alcuni analisti a favore dei diritti dei popoli, che prevedono la scomparsa delle culture di fronte a queste politiche neoliberiste. Questo genere di politiche fa sì che i popoli si trincerino, e questo crea una forte identità. Durante la pandemia, i popoli indigeni si sono chiusi, non hanno lasciato che nessuno entrasse o uscisse dal loro territorio. E hanno usatto la medicina tradizionale, il cibo tradizionale. Questo è ciò che fanno le comunità.

Le culture non scompariranno, perché molti popoli hanno i loro progetti di vita, alcuni abbastanza ben strutturati e altri costruiti in modo intuitivo.



[1] N.d.t. - Il mandato presidenziale di Andrés Manuel López Obrador (noto come AMLO), presidente del Messico da dicembre 2018 a giugno 2024.

[2] N.d.t. - Adelfo Regino, pure lui indigeno, parteggiava per gli zapatisti, ma dopo la nomina divenne di fatto collaborazionista col governo.

[3] N.d.t. - Movimento Rigenerazione Nazionale, il partito presidenziale fondato da Andrés Manuel López Obrador.

[4] N.d.t. - La parte filogovernativa del mondo indigeno.

[5] N.d.t. - Procedura legale che consente di denunciare al tribunale costituzionale le leggi lesive dei diritti fondamentali del cittadino.

[6] N.d.t. - Politiche paternaliste apparentemente a favore degli indigeni ma decise dall’alto senza consultarli, come quelle che erano in auge agli inizi del secolo scorso.

 

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