Quell’inedita sfida politica del fascismo

Quell’inedita sfida politica del fascismo

 
– Davide Conti, 25.10.2022
Marcia su Roma La sconfitta della sinistra non si giocò allora solo sul piano militare. La
genesi della dittatura non mostrò solo la feroce violenza dello squadrismo ma anche la
capacità di sintesi e unità dei ceti agrari-rurali con la piccola borghesia urbana
Il 21 luglio 1921 a Sarzana una colonna di cinquecento fascisti capeggiati da Amerigo
Dumini (futuro assassino di Giacomo Matteotti) si presentò alla stazione ferroviaria per
assaltare la cittadina e ottenere la scarcerazione di Renato Ricci, arrestato per omicidi e
violenze squadriste. L’azione fu respinta da militari e carabinieri comandati dal capitano
Guido Jurgens, dagli Arditi del Popolo e da contadini e operai sarzanesi. Il Presidente della
Repubblica Sandro Pertini avrebbe affermato anni dopo «se tutte le città avessero fatto
come Sarzana il fascismo non sarebbe passato». Le cronache e la storia hanno, invece,
raccontato altro.
LO STESSO 21 LUGLIO 1921 su L’Ordine Nuovo Antonio Gramsci descriveva lo
squadrismo in ben altro contesto in tutto il Paese, preconizzando gli sviluppi che avrebbero
determinato l’avvento del fascismo al potere: «Intere regioni sono messe a ferro e a fuoco
dalla guardia bianca, l’attività sindacale è completamente spezzata, non sussiste più
nessuna garanzia costituzionale per gli individui e per le associazioni, gli operai e i contadini
vengono fucilati impunemente da bande armate mercenarie. Esiste in Italia la possibilità di
un colpo di Stato? Non viviamo oggi in Italia in piena atmosfera di colpo di Stato?».
La crisi del regime liberale; gli sconvolgimenti della vita civile successivi alla devastante
esperienza della Grande Guerra; l’urto definitivo delle masse nella vita pubblica; la crisi
economico-sociale e le fratture interne alla società post-bellica; la paura della rivoluzione
(che nel 1917 da fantasma o utopia era divenuta corpo vivo della storia) rappresentarono
alcuni dei nodi di fondo da cui presero forma le linee di faglia destinate a riemergere «a
specchio» dopo l’8 settembre ’43 con la nascita della Resistenza, quando – insegna Claudio
Pavone – la «Guerra civile» e la «Guerra di classe» (combattute e vinte dal fascismo nel ’22
e poi perdute dallo stesso nel ’43-45) si affiancarono alla «Guerra di Liberazione nazionale».
L’ALBA DELLA DITTATURA non mostrò solo la feroce violenza dello squadrismo ma anche
la capacità di sintesi e unità (attorno ad un’azione reazionaria di massa) dei ceti agrarirurali
con la piccola borghesia urbana. Un legame stretto in una funzione subordinata al
carattere più generale di quel «sovversivismo delle classi dirigenti» italiane così
profondamente radicato nella vicenda storico-unitaria del Paese. Dall’altra parte la sconfitta
militare del fronte antifascista si compose di più elementi connessi tra loro.
Da un lato il piano tattico-militare, dall’altro quello strategico-politico. Una figurazione
rappresentata da Angelo Tasca che nel suo Nascita e avvento del fascismo segnala come
«il fattore militare del successo fascista è diventato decisivo nella misura in cui la classe
operaia, il movimento socialista hanno perduto la partita sul terreno politico. Gli
avvenimenti che vanno dalla seconda metà del ’21 all’ottobre ’22 dimostrano ancor più
chiaramente che l’inferiorità militare della classe operaia italiana è stata la conseguenza di
un’inferiorità politica». Un fenomeno emerso dalla tragica modernità post-bellica e
destinato a non restare confinato in Italia ma a diffondersi, pur in chiavi nazionali, in tutto il
mondo.
UN FENOMENO LA CUI ANALISI di complessità ha restituito chiavi di lettura e azione
politica all’antifascismo storico di ieri (nel contesto della dittatura e della guerra) e
all’antifascismo di oggi (nel contesto della pace e della Costituzione). A patto di evitare
semplificazioni e strabiche simmetrie. Togliatti nel suo Corso sugli avversari ammoniva a
non sostituire «allo studio approfondito di questo fenomeno l’esposizione di
generalizzazioni del tutto astratte e non corrispondenti alla realtà» e a non designare
fascismo ogni forma dih reazione.
Senza dubbio esso fu «reazione capitalistica» ma corredata da fattori e frazioni di altre
classi sociali portatrici di interessi molteplici che affondavano in profondità nella società, al
netto del colore nero della camicia. Solo così diviene possibile da un lato capire il nesso tra
la fine del regime ed il suo persistere nella «continuità dello Stato» (negli apparti di forza,
nella magistratura, nella pubblica amministrazione) e dall’altro comprendere perché,
attraverso lo spregiudicato uso pubblico della storia del revisionismo, siano state accolte da
consistenti componenti dell’opinione pubblica vulgate controfattuali volte tanto alla
rappresentazione autoassolutoria degli italiani in rapporto al regime quanto alla diffusione
di sentimenti anti-partigiani e di estraneità alla Resistenza.
IN QUESTO QUADRO, aggiornato dalla Guerra Fredda, maturarono «congelamento
costituzionale»; impunità per i crimini fascisti; perdurare nel corpo della Repubblica di leggi
e uomini eredi del regime; nascita del Msi; stragismo neofascista nella sua variante filoatlantica
degli anni ’70. Così, un secolo dopo, mentre viene rivolto uno sguardo
preoccupato alla ricerca di similitudini con il passato, i movimenti riemersi da quelle ceneri
si presentano come espressione concreta del presente, sussumendo eco e radici di quei
fatti e imbarazzando non poco chi, designato custode dell’eredità antifascista, di quel
lascito non ha saputo colpevolmente essere interprete.
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