LE “MAGNIFICHE SORTI E PROGRESSIVE”
LE “MAGNIFICHE SORTI E PROGRESSIVE” di Franco Astengo
Dall’esaltazione delle “magnifiche sorti e progressive” alla
demonizzazione del periodo di “sprechi e corruzione” il crollo del ponte di
Genova ha messo in moto un dibattito molto ampio sui temi dell’intervento
pubblico in economia, delle nazionalizzazioni, del rapporto tra i privati e lo
Stato: un dibattito nel corso del quale si stanno sprecando i riferimenti alle
fasi pregresse della ricostruzione del Paese dopo la guerra, dell’avvento del
consumismo, della dismissione dell’intervento pubblico, del ruolo dei partiti,
degli industriali, dei banchieri fino ai processi economici, sociali e politici
verificatisi nel corso degli ultimi anni.
Un dibattito che merita una brevissima chiosa.
A posteriori, paradossalmente ma non troppo, si può
affermare con sicurezza che è più semplice, nell’enormità delle difficoltà
materiali, ricostruire un Paese distrutto dalla guerra così come si presentava
l’Italia nel 1945.
Più semplice per un motivo di fondo: esisteva un “idem
sentire” quello – appunto – della ricostruzione materiale delle fabbriche,
delle case, dei ponti, delle strade, delle ferrovie.
Un “idem sentire” che permise il varo di una Costituzione
Repubblicana molto avanzata nei suoi enunciati ma anche molto complessa da
attuare.
Ogni tassello che si aggiungeva era una vittoria di tutti,
rappresentava un ritorno alle condizioni di una qualche – sia pure precaria –
normalità: si usciva dalla disoccupazione, dall’abitare in scantinati o
coabitando con estranei, era possibile tornare a viaggiare con i treni e con
gli autobus. Insomma: cambiava il modo di vivere quotidiano.
E’ questo un punto da sottolineare con grande evidenza, assieme a quello di un’analisi sociale che registrava un assetto con poche sfumature.
E’ questo un punto da sottolineare con grande evidenza, assieme a quello di un’analisi sociale che registrava un assetto con poche sfumature.
Una società suddivisa in blocchi abbastanza omogenei con
chiare distinzioni sul piano dello status, delle condizioni di vita, delle
stesse abitudini e propensioni individuali e collettive. Non semplice, all’epoca,
salire sull’”ascensore sociale”, bloccato soprattutto da una scuola di “classe”.
Lo scontro politico era molto aspro, teso, contrapposto tra
sintesi “a priori”: certo influivano le vicende internazionali, la logica dei blocchi,
la Corea, Berlino, la Cecoslovacchia e quant’altro; soprattutto però era
lineare il confronto di classe che aveva base nelle grandi fabbriche che
rappresentavano,comunque, il luogo dell’agognata ricostruzione.
Così si formò, nel fuoco della necessità, l’intervento dello
Stato in Economia posto in parallelo (e in intreccio) con quello dei grandi
gruppi privati.
Fu la stagione delle grandi PPSS del dopoguerra, l’IRI,
l’Intersind, la Grande ENI di Mattei, il piano siderurgico di Sinigaglia, la
nazionalizzazione dell’energia elettrica, la STET (che Agnelli poi si portò a
casa pagando lo 0,6% del capitale), delle banche di stato: l’Italia più minuta
conobbe l’energia elettrica e il telefono.
Si crearono le condizioni per il welfare, un’operazione
realizzata sicuramente scontando lo scotto di grandi distorsioni ma anche con
efficacia soprattutto per il ruolo tenuto dagli Enti Locali che rappresentarono
all’epoca un tessuto prezioso di integrazione e di sviluppo.
In tempi di riformismo annunciato è bene anche ricordare
cosa accadde in quella fase: già citata la nazionalizzazione dell’energia
elettrica occorre aggiungere l’istituzione della scuola media unica, lo statuto
dei lavoratori, il superamento delle gabbie salariali, l’istituzione delle
Regioni (che in quella fase si pensava rappresentassero un tassello
fondamentale per una crescita della capacità inclusiva della democrazia), la
scala mobile, la riforma pensionistica, la riforma fiscale (dalla “Vanoni” in
avanti), l’equo canone, il servizio sanitario nazionale, l’istituzione dei
servizi sociali nei comuni con il superamento dei cosiddetti “enti inutili”
(decreto 616 del 78), la legge 285 sulla disoccupazione giovanile, i grandi
interventi al Sud, la costruzione della rete autostradale.
Difficile anche in poche righe elencare le contraddizioni: la
sovranità limitata e la conseguente “conventio ad excludendum”, il dualismo
nord sud, la speculazione edilizia, forme di clientelismo politico spiccato, lo
spreco di danaro pubblico che iniziò in allora e poi crebbe in modo
esponenziale a partire dagli anni’70, fino a minare alla base il sistema.
Ribadisco, però: al fondo c’era il comune afflato per
ricostruire.
Era la “Repubblica dei Partiti”, come l’ha definita a suo
tempo Pietro Scoppola: partiti che svolgevano anche un’essenziale funzione
pedagogica, di vere e proprie sedi di acculturamento collettivo.
Più complicata e difficile fu la fase successiva, quella del
passaggio verso il consumismo al riguardo del cui avvento fu scelta la strada
della possessione individualistica e del rapido consumo dei beni, di tutti i
beni anche quelli pubblici come il suolo, l’ambiente, i servizi.
L’agire politico stava perdendo la propria capacità di
“visione” che era stata prerogativa dei grandi partiti di massa negli anni
precedenti . Si verificò un’accentuazione nella “cessione di sovranità” alla
spinta di lobbie, corporazioni, gruppi di potere, “capitani coraggiosi” di
vario ordine e grado.
Soprattutto si era persa la capacità di “pensare”
collettivamente, di disporre di un obiettivo comune: non riuscirono a
rappresentare questo obiettivo, via via, le privatizzazioni, la prospettiva
europea, l’idea del superamento della mediazione politica tramite i partiti.
Anzi questi passaggi hanno funzionato da fattore di allontanamento, di
divisione, di separatezza culturale e politica, di dispersione sociale.
Progressivamente si
addivenne a una dismissione, a un arretramento, a uno sfrangiamento della
società in parallelo con lo sfaldarsi dell’azione politica (Bauman aveva
scritto di “società liquida”: si può aggiungere a “società liquida” non poteva
che corrispondere una “politica liquida”).
Si mostrava un’evidente incapacità da parte dei partiti di
riuscire a interpretare e far sintesi nell’emergere di nuove contraddizioni
portate anche e soprattutto dal mutare dei costumi (nell’accentazione della
spinta ai diritti individuali) e dal presentarsi di novità fondamentali nella
vita quotidiane. Novità dettate dall’avvento di una tecnologia il cui uso è
stato mirato anch’esso, pressoché esclusivamente, in funzione della chiusura
individualistica (televisione compresa, che pure nella prima fase aveva
funzionato da medium unificante).
Si era smarrito anche il senso dell’identità della propria
appartenenza materiale, di quella che si dovrebbe ancora definire come “identità
di classe”.
Così riassunta per sommi capi la vicenda: all’interno di
questa dissoluzione sociale e politica si sono inseriti gli elementi del
risentimento di massa espresso dai tanti trascurati e maltrattati nella rincorsa
darwiniana al benessere nella riscoperta del “familismo amorale” descritto da
Banfield.
Il quadro generale, è
bene ricordarlo, era composto da “meriti” in gran parte fasulli e da “bisogni”
artatamente indotti).
Gli elementi del
formarsi e del crescere del fenomeno del risentimento di massa sono stati del
resto ben analizzati con vera capacità di visione, da parte di chi ha saputo
interpretare la “pars destruens” di questa complessa vicenda.
Oggi, quindi, ci troviamo di fronte ad una metà dell’azione
politica possibile: quella della distruzione, della negazione, nell’incapacità
di delineare un orizzonte, nell’assenza di una visione di sistema, di un progetto,
del delinearsi di una prospettiva.
In sostanza siamo:
1) Nell’episodicità della propaganda misurata
sulle pulsioni immediate di una indistinta “opinione pubblica” regolata dai
social, e nell’esaltazione acritica di una “escludente” visione della politica
contrabbandata come “democrazia diretta”.
2) Nell’assenza
di una visione adatta per guardare avanti e di una mancanza di capacità
d’interpretazione delle diverse fasi storiche.
Tutto pronto,insomma, per passare finalmente alla fase di “dialogo
diretto tra un Capo e le Masse” tanto agognata in passato da epigoni rivelatisi
incapaci di realizzare il sogno dell’autoritarismo.
Non a caso, in queste ore, si è tornato a parlare di
elezione diretta di un non meglio identificato “Presidente”.
E a sinistra?
A sinistra forse potrebbe aiutare il recupero di determinate
coordinate di fondo nel frattempo colpevolmente smarrite.
Si tratta di far capire che è tempo di ricostruzione senza
arrendersi al nichilismo della sovranità della tecnica e al peso soffocante di
inaccettabili disuguaglianze, non solo economiche.
Una ricostruzione che non potrà essere avviata in nome della
chiusura egoistica e dell’individualismo competitivo ma attraverso l’espressione
di un’idea di progettualità collegata direttamente con l’azione politica.
Una connessione di progettualità magari inizialmente attuata
anche in una forma molto parziale, per far sì, almeno, sia nelle istituzioni
sia nello svilupparsi della vita quotidiana, si possa ricominciare a sentire la
voce di chi non si abbandona all’apparente ineluttabilità dell’esistente.
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