Rodrigo rivas riflessione post ferragosto... --Divagazioni ferragostane

“Le stelle sono tante, milioni di milioni”, cantava Francesco de Gregori (“Niente da capire”, 1974). Non era un’opinione: nella sola Via Lattea, galassia a spirale che gli astronomi definiscono di medie dimensioni, ce ne sono 400 miliardi di stelle di varie dimensioni e luminosità e, nel nostro “Universo osservabile”, la regione dello spazio distante da noi fino a 13,8 miliardi di anni luce in tutte le direzioni, ce ne sono oltre 170 miliardi di galassie.
Se supponiamo che il numero di stelle di ogni galassia sia simile, moltiplicando il numero di stelle della nostra galassia per il numero di galassie del nostro Universo osservabile avremo trilioni di stelle (1.000.000.000.000.000.000.000).
Ma, per quanto imponente, questo numero è probabilmente inferiore alla realtà.
Il fatto è che possiamo fare questi calcoli basandoci sul nostro Universo osservabile, una “bolla” di spazio di 47 miliardi di anni luce, ma nulla sappiamo su cosa ci sia oltre.
E non essendo escluso che il cosmo sia molto più grande e persino infinito, la conclusione è ovvia: il numero di stelle potrebbe essere molto superiore al trilione se non addirittura infinito.

Diversamente dalle stelle, i giorni dell’anno sono contati. Qualcuno li definisce persino “irrilevanti. Cominciano e finiscono senza che nel mezzo accada nulla di memorabile” (“500 Days of summer”, 2009).
Sotto il nostro bellissimo ma innocentemente stolto cielo blu, simili baggianate non sono quasi mai il prodotto di senili o precoci idiozie, ma sono spesso percorsi induttivi utili alla contemplazione incontrastata, assorta ed esportabile del proprio ombelico.
Le affermazioni e abitudini non contrastate diventano quasi sempre necessità e/o verità virali che si spostano nel tempo e nello spazio. Infatti, dalla irrilevanza dei giorni siamo passati alla irrilevanza del pensiero e dalla irrilevanza dei fatti alla irrilevanza degli altrui corpi …
Lungo questo percorso l’irrilevanza ha assunto caratteristiche simili a quelle che i fascisti primigeni tradussero nel concetto “me ne frego”: “O fascisti, avanti, avanti, che già venne la riscossa, or non più la turba rossa questo suol calpesterà! Per d'Annunzio e Mussolini, eia, eia, eia, alalà! Me ne frego, me ne frego, me ne frego è il nostro motto, me ne frego di morire per la santa libertà!”
Questa versione, anonima, del “Me ne frego”, è stata “aggiornata” da un’altrettanto pessimo Anonimo del  dopoguerra: ”Me ne frego è il nostro motto, me ne frego di morire, me ne frego di Togliatti e del sol dell'avvenire. Se il sol dell'avvenire è rosso di colore, me ne frego di morire sventolando il tricolore! Ce ne freghiamo della galera, camicia nera trionferà. Se non trionfa sarà un macello col manganello e le bombe a man!”

Lo stesso accadde oggi, spesso attraverso fenomeni espressivi che possono apparire persino simpatici ed innocenti. Come annota Primo Levi, “ogni tempo ha il suo fascismo. Se ne notano i segni premonitori dovunque la concentrazione di potere nega al cittadino la possibilità di esprimere ed attuare la sua volontà. A questo si arriva in molti modi, non necessariamente con l'intimidazione poliziesca, ma anche negando o distorcendo l'informazione, inquinando la giustizia, paralizzando la scuola, diffondendo in molti modi sottili la nostalgia per un mondo in cui regnava sovrano l'ordine, ed in cui la sicurezza dei pochi privilegiati riposava sul lavoro forzato e sul silenzio forzato dei molti” (“Un passato che credevamo non dovesse tornare più”, “Corriere della sera”, Milano 8 maggio 1974. Successivamente pubblicato nella raccolta “L'asimmetria e la vita. Articoli e saggi 1955-1987”, Einaudi, Torino 2002).

Applicata alla vita e alla morte degli altri, l’irrilevanza acquista pienamente le fattezze di un concetto barbarico proprio da primati primitivi. Ma, di solito, la sua origine non è affatto primitiva.
Adoperata da piccoli e grandi arruffapopoli o di perenni aspiranti al ruolo, ai giorni nostri l’irrilevanza costituisce spesso un modo verbalmente sofisticato per farci accettare la paura quale elemento ordinativo della nostra vita senza nemmeno chiedercelo.
Questo meccanismo, alla base di comportamenti assai diffusi spiega, ad esempio, la nostra quotidiana e supina accettazione di “riforme” che diminuiscono la qualità della nostra vita.

Dovunque, la paura è un’arma assai efficace nelle mani delle autorità. Se, ad esempio, queste minacciano i cittadini di sgozzarli ma poi si limitano a frustarli e a sfruttarli, vorranno persino essere ringraziati. Non sempre riescono ad essere ringraziati, ma di certo accadde molto spesso che i cittadini concludano che non sia successo nulla di così grave e, anzi, che di certo poteva andare molto peggio.

La paura paralizza, impedisce di reagire, vieta di andare avanti. Come la sua sorella avidità, è più forte della fratellanza, della verità o dell’amore.
Ai giorni nostri, giornali, TV e governi dedicano buona parte della loro raramente lodevole attività a propinarci un’abbondante e quotidiana razione, di paura e di avidità.
In questa forma, e non per un qualche errore di percorso, è avvenuto che malgrado molti si aspettassero che la transizione denominata globalizzazione trovasse sbocco in un nuovo Rinascimento - l’ha detto la TV per anni - siamo invece ripiombati nel Medioevo.

E’ vero. Il nostro può essere definito come un Medioevo a colori.
Ma è vero pure che, tramite un rosario di continue irrilevanze, prima è stata eliminata ogni razionale speranza di trasformazione, poi eliminati molti diritti lavorativi e sociali e, infine, si è in procinto di eliminare le libertà civili.
Non parlo, va da sé, del COVID-19.
Come aveva pronosticato Kunt, marziano mediamente sano di mente, ”l'evo moderno è finito. E’ in corso il medio-evo degli specialisti. Da queste parti oggi anche il cretino è specializzato” (Enzo Flaiano, “Un marziano a Roma”, Einaudi, Torino 1960).

Probabilmente, a tutti ci servirebbe ritrovare a spasso, almeno ogni tanto, dei marziani mediamente sani di mente. Purtroppo, non capita spesso. Forse perché non ci sono o forse perché, come afferma l’astrofisico direttore del Hayden Planetarium di New York, Tyson Neil deGrasse, “gli alieni ci evitano poiché, dopo attenta osservazione della condotta e dei comportamenti umani, sono arrivati alla conclusione che sulla terra non vi sia alcun segno di vita intelligente!” (denebofficial.com, 30 novembre 2013).

Per consolarci e rifocillare il nostro ego e prosopopea, potremmo estendere ai marziani una massima attribuita a Franco Basaglia: “Visto da vicino, nessuno è normale”che sarebbe stata pronunciata durante il suo ciclo di “Conferenze brasiliane” (Raffaello Cortina editore, Milano 2000). Le conferenze si svolsero a San Paolo, Rio de Janeiro e Belo Horizonte nel giugno-luglio 1979, ma Basaglia non è l’autore della frase pur se ne aveva anticipato il concetto nel 1967: “La follia è una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia, invece incarica una scienza, la psichiatria, di tradurre la follia in malattia allo scopo di eliminarla. Il manicomio ha qui la sua ragion d'essere” (“Che cos’è la psichiatria”, Einaudi, Torino 1973).

Proprio quando Basaglia girava il Brasile, Caetano Veloso cantava in “Vaca profana”: “Mas eu também sei ser careta. De perto, ninguém é normal. Às vezes, segue em linha reta. A vida, que é 'meu bem, meu mal'” (Ma so anche essere maschera. Da vicino, nessuno è normale. Ci sono volte in cui la vita, che è 'il mio diritto e il mio male', segue una via retta”).
Poiché pure le idee giuste si propagano, anche se normalmente avviene per vie più tortuose e impervie e a volte persino inconsciamente, nel 1974 Giorgio Gaber cantava (“Far finta di essere sani”): “Vivere, non riesco a vivere. Ma la mente mi autorizza a credere. Che una storia mia, positiva o no, è qualcosa che sta dentro la realtà. Nel dubbio mi compro una moto, telaio e manubrio cromato, con tanti pistoni, bottoni e accessori più strani, far finta di essere sani”. Nel frattempo, il “de perto ninguém è normal” approdava a Trieste con Izabel, volontaria brasiliana e assistente sociale nel DSM di Trieste, e Gian Ugo, operatore sociale italiano. Pino Rosati, direttore artistico del laboratorio di arti visive e serigrafia del Parco dell’ex OPP di San Giovanni, l’aiutava a prendere le ali. Quindi, lo ritroviamo in Giappone e nell’isola greca di Leros dove, nel 1994, un gruppo di operatori italiani e olandesi impegnati nella chiusura del locale manicomio la stampavano a caratteri cubitali in una maglietta: ”APO KONDÁ KANENAS EINAI KANONIKÁ”…

E’ essenziale liberarsi dall’ombelicocentrismo (autoreferenzialità, direbbe un sociologo).
Se prendessimo sul serio l’idea di Franklin Delano Roosevelt, “la sola cosa di cui avere paura è la paura stessa”, probabilmente sarebbe più facile: Se i nostri passi inventano il sentiero semplicemente andando avanti, per riuscirci bisognerà guardare avanti e affidarci ai nostri piedi guardandoci attorno con attenzione.
Diciamola con René Magritte: “Non è necessario avere paura della luce con il pretesto che quasi sempre è servita per illuminare un mondo miserabile. Sotto tracce nuove e incantevoli, le sirene, le porte, i fantasmi, gli dei, gli alberi, tutti quei oggetti dello spirito saranno restituiti alla vita interna delle luci vive nel isolamento dell’universo mentale. Tutto avviene nel nostro universo mentale. Per universo mentale è necessario intendere forzatamente, assolutamente, tutto ciò che possiamo percepire con i sensi, i sentimenti, l’immaginazione, la ragione, l’illuminazione, il sogno o qualsiasi altro” (“Manifesto N°1”, 1946).

Così facendo verificheremo non solo che ogni giorno ha un senso, che comporta relazioni, che si trascina un carico di pene, di allegrie, di delusioni e di speranze ma, anche, che ogni giorno apre una scia sulla quale avventurarsi ben sapendo che le strade, che non ci sono, si fanno camminando.
Per dirla con Ernst Bloch, “la ragione non può fiorire senza speranza, la speranza non può parlare senza ragione” (“Il principio speranza”, Garzanti, Milano 1985), affermazione che intendo come l’atteggiamento indispensabile per provare a passare dall'oscuro al chiaro senza cancellare gli elementi di oscurità e considero una pretesa genuinamente sovversiva come una delle tante enunciate da Pablo Neruda: “Tra morire e non morire, mi decisi per la chitarra. E in questa intensa professione il mio cuore non conosce tregua. Perché, anche laddove meno mi aspettano, arriverò col mio bagaglio a mietere il primo vino nei cappelli dell’autunno” (“Testamento d’autunno”, in “Stravagario”, Passigli Editori, Firenze 1995).
E verificheremo pure che i giorni non sono neutri ed alcuni sembrano particolarmente adatti perché il potere possa perpetrarci impunemente le sue nefandezze.
Succede, ad esempio, con molte delle ricorrenze che compongono il binomio panem et circenses di millenaria memoria. 

Nell’emisfero nord, dove fino a pochi anni fa risiedevano tutti quelli che contano, agosto, il mese privilegiato dei vacanzieri, è da sempre prediletto da ogni potere per comunicare le sue scelte più controverse e antipopolari.
Il 15, suo epicentro, è stato prescelto solo recentemente dalla chiesa cattolica per celebrare l’Assunzione di Maria (il dogma è stato proclamato da Pio XII soltanto il 1° novembre 1950), ma già nel VI secolo l’Imperatore d’Oriente Mauro Flavio Mauritius Tiberio l’aveva dedicato a scopi analoghi proclamandone, a nome e per conto delle Chiese ortodossa e apostolica armena, la Dormizione di Maria.
L'uso del termine "dormizione" (in latino dormitio) deriva dalla dottrina, sostenuta da gran parte dei teologi cristiani ortodossi e armeni, che Maria non sarebbe veramente morta, ma soltanto caduta in un sonno profondo, dopodiché sarebbe stata assunta in cielo).

L’ombelico d’agosto non santifica solo Maria ma anche riti più prosaici. Ad esempio, in Irlanda moltiplica i bagni di mare poiché, secondo un’antica leggenda locale, quel giorno sortiscono particolari effetti benefici; a Siviglia sfila la processione della Vergine e fiumi di birra e sangria inondano la Spagna dalle coste all'entroterra; l’Acadian Day ricorda ai canadesi la prima colonia francese dell’America settentrionale, e cioè lo sbarco della civiltà diffusasi poi a suon di cannonate, stragi, latrocini e torture; in Italia si celebra Ferragosto (dalla locuzione latina feriae Augusti, riposo di Augusto), festività istituita dall’imperatore Augusto nel 8 a. C. per onorare il proprio natalizio.
Eccetera.

Il ferragosto dell’A.D. 1971 capitò di domenica.
In giornata, l’Assunta era stata commemorata dalla chiesa cattolica con la lettura dell’apposito brano del Vangelo secondo Luca, in Spagna non si era verificato alcun aumento significativo delle indigestioni né in Irlanda dei raffreddori. A sera inoltrata, davanti alle chiese e alle scuole greche si mangiavano porchetta, insalata greca e souvlaki condite con birra, vino e ouzo che facilitavano le sinuose cadenze del sirtaki inventato poco prima da Mikis Theodorakis (è stato creato da Theodorakis nel 1964 per il film “Zorba il greco” sommando due versioni, una normale e un'altra più lenta, della danza greca hasapiko).
A Siena, come avviene dal XII-XIII secolo, era in programma per il giorno dopo il Palio di Mezzo Agosto.
Complice l’usura degli anni, però, né a Siena né in Italia gli animali da tiro erano stati dispensati dal lavoro né agghindati con fiori come avveniva in epoca romana, i lavoratori non avevano reso omaggio ai loro padroni in cambio di una mancia come aveva reso obbligatorio lo Stato pontificio in età rinascimentale, non si erano moltiplicate le corse da cavalli come accadeva fino alla seconda guerra mondiale né ascoltato lamenti per la scomparsa dei “Treni popolari di Ferragosto” diffusi dalle associazioni dopolavoristiche durante il ventennio fascista …

Probabilmente, verso l’imbrunire al “Circolo anarchico Gaetano Bresci” di Mantova e a quello di “Ponte della Ghisolfa” di Milano si cantava “quella sera a Milano era caldo. Ma che caldo che caldo faceva”, per commemorare il felino e non riuscito tentativo di volo dell’anarchico Giuseppe Pinelli dalla questura di Milano da dove, parola del questore, era precipitato da una finestra del quarto piano gridando: “È la fine dell'anarchia!”.
“La ballata del Pinelli”, improvvisata da 4 anarchici mantovani il 21 dicembre 1969, il giorno dopo i funerali dell’anarchico Giuseppe Pinelli, commemora l’uomo arrestato dopo la strage compiuta dai fascisti di Ordine Nuovo nella sede della Banca d’agricoltura a Piazza Fontana (Milano, 12 dicembre 1969). Pinelli è morto perché, ignaro della legge di gravità, quale nuovo Icaro si buttava da una finestra del quarto piano della questura di Milano. Almeno, questa è stata la spiegazione del questore Marcello Guida nella conferenza stampa successiva alla sua morte: “Improvvisamente, il Pinelli ha compiuto un balzo felino verso la finestra, che per il caldo era stata lasciata socchiusa, e si è lanciato nel vuoto”.
“Roma - come recita l’Incipit della narrazione del film “Il sorpasso” (1962) - “era deserta come in un Ferragosto qualunque”.
Complice l’afa, dovunque la giornata scivolava placidamente e bucolicamente e, forse, solo alcuni nottambuli apprezzavano “live” lo sguardo torvo e la voce rauca del presidente Richard Nixon mentre comunicava urbi et orbi la decisione di liquidare l’intera struttura finanziaria del secondo dopoguerra.
Qualche giorno dopo il suo Segretario al Tesoro, John Connally, ne traduceva il significato agli ignari governi europei - sempre stupiti ma raramente innocenti - che attendevano pazientemente il materializzarsi del verbo: “The dollar is our currency and your problem” (il dollaro è la nostra valuta e il vostro problema).
Era una spiegazione breve ma sicuramente esauriente come testimoniano le numerose foto di gruppo corredate da ottime dentiere e da interminabili abbracci tra i convenuti.

“Landolfo, cronista del Millecento, ci ha tramandato le «Storie del Comune di Milano», fra cui questa del giudizio di Dio, protagonista prete Liprando. Noi abbiamo cercato di musicarla con un certo impegno, e la dedichiamo a tutti quelli - e sono tanti - che pur essendo testimoni di fatti importantissimi e determinanti dell'avvenire della civiltà, neanche se ne accorgono!” (Enzo Jannacci, “Prete Liprando”, 1965).
“«Liprando, a 'sto punto esigo il Giudizio di Dio: dovrai camminare sui carboni (s'intende, ardenti!); le fascine di legna, quaranta (“Quaranta?”) s'intende, le pago io. Se tu non uscirai per niente arrostito, io me ne andrò dalla città solo e umiliato, e per giunta, appiedato!»”

Nel 1075 quando, secondo Jannacci, il Prete Liprando si sottoponeva volontariamente al “giudizio di Dio”, riusciva a convocare il “popolo pio venuto a Santambrogio fin da Venegòno e da Biandrate” anche se, purtroppo, vedeva poco o nulla: “«Indietro, su, non spingete, per Diana! C'è il fuoco, non lo vedete?» «Ma io non vedo niente; non vedo un'accidente! Son venuto da Como per niente, per niente!»”.
Nel 1971 la comunicazione nixoniana coinvolgeva tutti i terricoli e tutti avrebbero potuto vederla comodamente in TV ma, probabilmente, quelli che ne colsero la portata sono stati ancor di meno del popolo pio di Venegòno e di Biandrate.
I “gufi” dell’epoca dissero che la decisione serviva a finanziare la guerra del Vietnam senza provocare eccessivi disavanzi pubblici né aumentare le tasse.
I “realisti” affermarono che serviva ad evitare che prosperasse la minaccia della discola Francia presieduta dal generale de Gaulle, scambiare i dollari in suo possesso per l’equivalente in oro come avevano stabilito gli accordi di Bretton Woods.

Alla conferenza di Bretton Woods (1-22 luglio 1944) presero parte 730 delegati di 44 nazioni alleate chiamati a stabilire le regole da applicare ai rapporti commerciali e finanziari tra i principali Paesi industrializzati del mondo. Dopo tre settimane di dibattito, firmarono gli “Accordi di Bretton Woods”, e cioè un sistema di regole e procedure atto a regolare la politica monetaria internazionale.
Il sistema aveva due caratteristiche principali:
a) l'obbligo per ogni Paese di adottare una politica monetaria tesa a stabilizzare il tasso di cambio ad un valore fisso rispetto al dollaro, eletto a valuta principale, consentendo solo lievi oscillazioni delle altre valute;
b) la creazione di due istituzioni incaricate di risolvere gli squilibri causati dai pagamenti internazionali, il Fondo Monetario Internazionale (FMI) e la Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo (BIRD), successivamente Banca Mondiale (BM), diventate operative nel 1946. Nel 1947 la trimurti è stata completata con l’aggiunta dell’Accordo Generale sulle Tariffe ed il Commercio (GATT), rimpiazzato nel 1995 dalla Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC).
Si sa che nell’induismo la trimurti è una trinità modale indicante i tre principali aspetti divini che si manifestano nelle forme di tre importanti divinità archetipiche: Brahmā il Creatore, Visnù il Preservatore e Śiva il Distruttore.
E si sa pure che nella trimurti nostrana domina senza contrappesi Śiva.

Alle discussioni di Bretton Woods si presentarono due progetti alternativi. Il primo, quello del delegato degli USA, Harry Dexter White. Il secondo, quello del delegato britannico John Maynard Keynes.
Quest’ultimo non prevedeva il predominio di una moneta nazionale ma la costituzione di una stanza di compensazione alla quale i Paesi membri avrebbero partecipato con quote rapportate al volume del loro commercio internazionale medio dell'ultimo triennio. La compensazione tra debiti e crediti sarebbe avvenuta tramite una moneta denominata Bancor.
Approvando la proposta statunitense, si adottava invece un sistema di “gold exchange standard” basato su rapporti di cambio fissi tra le valute, tutte agganciate al dollaro, a sua volta agganciato all'oro.
Diversamente del sistema precedente (Gold Standard), questo sistema limitava la mobilità dei capitali per l'enorme peso che la loro mobilità aveva avuto nel determinare la crisi del '29.

Nel 1950 le riserve in oro degli USA equivalevano a 7 volte i dollari in circolazione fuori dagli USA. Quindi, effettivamente chiunque avesse avuto dollari, avrebbe potuto scambiarli per oro.
Nel 1967, le riserve statunitensi in oro equivalevano al 78% dei dollari in circolazione fuori dagli USA.
Nell’agosto 1971, alla immediata vigilia del discorso nixoniano, equivalevano al 22% dei dollari in circolazione fuori dagli USA.
Quindi, la conversione in oro era diventata impossibile.
Tuttavia, la questione essenziale era un’altra: da quel ferragosto, un dollaro vale un dollaro solo sulla parola, ossia sulla fiducia concessa al governo di Washington.
Ovvero, abbandonate la parità oro-dollaro e l’obbligo di determinare il valore delle monete in funzione delle riserve in oro accumulate dalle banche centrali di ogni Paese, il valore del denaro utilizzato nelle transazioni commerciali è diventato assolutamente fittizio.

Il re era nudo ma la folla di governi ed esperti non lo vedevano. Erano accecati dalla fiducia, probabilmente molto più del popolo pio ritrattato da Enzo.
Ma i carboni, s’intende ardenti, sono cosa ben materiale, mentre la fiducia è immateriale, ovvero non concedeva né concede alcuna base materiale al dollaro che, da quel dì, si sostiene sul nulla galleggiando in aria con la leggerezza di una pompa di sapone senza averne la grazia.

Sui gusti individuali non c’è né può esserci disputa, ma nella nuda vita materiale dei terricoli, grazie agli “eurodollari” la moneta diventava la principale esportazione degli USA.
Poi, grazie ai successivi “petrodollari”, gli USA potevano accumulare enormi debiti senza doverne rispondere a chicchessia (ma per essere giusto va ricordato che nessuno chiedeva loro alcuna risposta).

La comunicazione nixoniana era una prima per i processi d’accumulazione di capitale in Occidente, non una novità assoluta.
Mille anni prima, nel “Periodo delle sei dinastie e dieci regni” (960-1279), con l’introduzione - per la prima volta - della carta moneta stampata (“Jiaozi”, ossia “pagabile a vista” nel dialetto del Sichuan), la dinastia Song aveva imposto una decisione molto simile ai malcapitati cinesi.
C’era, tuttavia, una piccola differenza: nella Cina del X secolo ogni protesta dei sudditi era impensabile; nel XX secolo protestare, e persino ribellarsi, sarebbe stato possibile e giuridicamente irreprensibile.
Andò comunque a finire come all’epoca dei mandarini e, salvo garbate proteste del governo francese, nessuno disse neppure pio pio.

A posteriori, possiamo supporre che il valore fittizio del dollaro è stato accettato dovunque per una serie di ragioni: il fascino esercitato dall’economia statunitense, la paura provocata dall’enorme capacità militare degli USA, l’incanto pervasivo della loro egemonia culturale e, infine, l’accettazione indiscussa dei loro valori.
E constatiamo che, grazie ai dollari e ai buoni del tesoro diventati riserve in valuta per i Paesi creditori, gli USA hanno istituito un nuovo signoraggio assai simile al tentativo - fallito - che i signori feudali di tutta Europa avevano cercato di imporre nel Medioevo attribuendosi sia il diritto a battere moneta che la titolarità dei relativi redditi (per approfondimenti vedere Carlo Maria Cipolla, “Currency Depreciation in Medieval Europe”, in “The Economic History Review”, New Series, Vol. 15, No. 3, Londra 1963).
Buttiamola sul banale: dopo Bretton Woods, chiunque volesse importare qualsiasi cosa doveva prima acquistare i dollari necessari a finanziare l’operazione.
Gli Stati dovevano costituire le proprie riserve valutarie in dollari.
Privati e Stati dovevano ovviamente comprarli.

Per gli USA, ne derivarono tre costi: la carta, l’inchiostro e la messa in moto della zecca. Questo, non altro, è il valore reale intrinseco di qualsiasi moneta.
Ma l’ancoraggio del dollaro all’oro e alle altre valute, ne limitava la capacita operativa impedendo agli USA di distribuirlo arbitrariamente.
Dopo il 1971, liberati da ogni vincolo monetario, gli USA hanno finanziato i loro deficit e le loro operazioni militari all’estero incrementando l’offerta monetaria, ovvero semplicemente stampando moneta e buoni del tesoro.
Si deve aggiungere che dal loro punto di vista non c’è nulla da eccepire: scambiano, contro semplici pezzi di carta, prodotti, materie prime, aziende e proprietà di tutti gli altri Paesi.
Va da sé: l’ukase imperiale non era farina della sacca nixoniana ma rispondeva alle trasformazioni avvenute nel sistema capitalistico nel secondo dopoguerra.

Nel 1944 la preminenza del dollaro non era né la sola né la migliore scelta tecnica possibile e le considerazioni tecniche contenute nei piani presentati alla conferenza di Bretton Woods per disegnare il nuovo ordine economico non furono affatto determinanti (per approfondimenti vedere Eric Touissaint, “Autour de la fondation des institutions de Bretton Woods”, in “Les 70 ans de Bretton Woods, de la Banque mondiale et du FMI I”, CADTM, Bruxelles luglio 2014).
Si trattò solo di una scelta squisitamente politica derivata, come già accennato, dall’indiscussa preminenza dell’economia statunitense.

Nel 1944, gli USA rappresentavano da soli il 50% del Prodotto Lordo Mondiale (PLM), non erano stati danneggiati dalla guerra, le sue fabbriche operavano a pieno ritmo per la produzione militare, la sua infrastruttura era intatta e la sua forza lavoro sosteneva la produttività.
Conclusa la guerra, i dollari statunitensi avrebbero finanziato la ricostruzione europea e l’aumento delle esportazioni attraverso le nuove istituzioni create dalla conferenza: il FMI e la BM, responsabili di garantire la stabilità finanziaria, di evitare gli squilibri, le svalutazioni e l’eccessivo indebitamento, di mantenere le capacità di pagamento e di finanziare i nuovi progetti.
Questo sistema, al quale Nixon mise formalmente fine, funzionò fin quando gli enormi squilibri economici internazionali prodotti dalla guerra non furono superati.

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