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Dossier Ecuador

 riceviamo  dal Giga e pubblichiamo questo mini dossier  da il manifesto

Ecuador, un miliardo di barili di petrolio restano sotto terra







FOSSILI. Gli ecuadoriani, dopo decenni di lotte, con un referendum hanno imposto alla Petroecuador di chiudere i pozzi e di non poterne aprire di nuovi

Maria Cristina Fraddosio

Oltre un miliardo di barili di greggio resterà sepolto sottoterra. Una vasta porzione della foresta amazzonica di circa 78 mila ettari, tra le aree protette più grande dell’Ecuador e più importanti per la biodiversità, è salva. Lo hanno deciso i cittadini ecuadoriani il 20 agosto, dopo una battaglia durata un decennio contro l’apertura di nuovi pozzi nel Parco Nazionale di Yasuní, nel nord-est del Paese. Quest’area della foresta amazzonica dove vivono i popoli indigeni, alcuni in isolamento volontario, è stata dichiarata nel 1989 riserva mondiale della biosfera dall’Unesco. Ha un’estensione totale di più di un milione di ettari, collocati tra le province di Orellana e Pastaza. Con la decisione popolare presa il 20% del totale delle riserve di petrolio del Paese non verrà estratto. La compagnia statale Petroecuador dovrà chiudere i pozzi esistenti e non potrà aprirne di nuovi. La domanda posta ai cittadini è stata: «Vuoi che il governo ecuadoriano mantenga le riserve di petrolio dell’Itt, conosciuto come Bloque 43, nel sottosuolo indefinitivamente?». Il 58,9% degli oltre 10 milioni di cittadini ha risposto di sì. In accordo con quanto stabilito dalla Corte costituzionale, il governo avrà massimo 18 mesi dal risultato referendario per renderlo esecutivo.



«UNA VASTA MAGGIORANZA DI ECUADORIANI con questa decisione ha scelto anche di proteggere i diritti delle popolazioni indigene Tagaeri, Taromenane e Dugakaeri, che vivono in isolamento volontario – fa sapere Amazon Watch, l’organizzazione non governativa con sede in California – si stima – spiega a L’Extraterrestre – che ci siano 1,67 miliardi di barili di greggio nei giacimenti Itt, dove 225 pozzi attivi producono attualmente 54 mila 800 barili al giorno. In totale erano previsti più di 500 pozzi. Ma il voto popolare ha vietato l’apertura di tutti i nuovi pozzi e impone alla compagnia petrolifera statale Petroecuador di chiudere i pozzi in produzione e di smantellare e rimuovere tutte le infrastrutture petrolifere entro un anno. Il governo è ora obbligato a fermare le attività e la produzione di petrolio, a smantellare e rimuovere le infrastrutture e a bonificare e ripristinare l’area entro un anno, come ordinato dalla Corte costituzionale».

I GIACIMENTI, NOTI CON L’ACRONIMO ITT, ovvero Ishpingo, Tiputini e Tambococha, erano divenuti un noto caso internazionale già nel 2007. Quell’anno l’allora presidente Rafael Correa lanciò l’iniziativa Yasuní Itt, che prevedeva il blocco dell’estrazione di petrolio con l’ausilio della comunità internazionale che avrebbe dovuto contribuire devolvendo al Paese latinoamericano la metà degli introiti che avrebbe guadagnato sfruttando i giacimenti.

LA PROPOSTA, CONSIDERATA VISIONARIA, AVREBBE prevenuto la deforestazione che avrebbe inciso sull’emissioni di anidride carbonica, giovando all’intero Pianeta. L’importo da incassare era di 3 miliardi e 600 mila dollari, ma nel 2013 nelle casse dello Stato erano pervenuti solo 13 milioni di dollari, ovvero lo 0,37% del totale. «Non chiedevamo la carità, era una questione di corresponsabilità nella lotta contro i cambiamenti climatici. Il mondo ci ha deluso», disse nel 2013 Correa. Il 15 agosto di quell’anno decise di abbandonare l’iniziativa aprendo alle estrazioni petrolifere. Vennero raccolte circa 760 mila firme ma le autorità governative preposte ad accertarne l’autenticità non le ritennero valide. Per ottenere un certificato di validità delle firme raccolte si è dovuto attendere il 2020. Nel frattempo già dal 2016 erano iniziate le perforazioni. La richiesta per un referendum popolare era già stata formulata nel 2013, dopo la decisione dell’allora presidente, da un gruppo di organizzazioni ambientaliste riunite col nome di Yasunidos. Dopo numerosi cavilli giuridici, il 9 maggio di quest’anno la Corte costituzionale lo ha autorizzato. Il timore che vincesse il fronte del «sì» era trapelato dalle dichiarazioni del ministro dell’Energia Fernando Santos, che ha posto l’attenzione sulle perdite economiche: 1 miliardo e 200 milioni di dollari l’anno in meno «per un Paese con enormi necessità».

NONOSTANTE LA NATURA SIA RICONOSCIUTA dalla Costituzione ecuadoriana come un soggetto di diritto e ai popoli indigeni sia garantita la consultazione prima di avviare iniziative di sfruttamento dei territori, queste norme nel tempo sono state compresse dalla dichiarazione di interesse nazionale rispetto all’approvvigionamento del petrolio. «Poiché l’industria petrolifera è uno dei principali motori della deforestazione – fa sapere Amazon Watch – l’estrazione di petrolio in Amazzonia provoca un danno ancora maggiore, abbattendo foreste fondamentali per l’assorbimento della C02 e la regolazione del clima, creando una bomba di carbonio, alla ricerca di riserve di combustibili fossili che gli scienziati e l’Agenzia internazionale per l’energia concordano sul fatto che debbano essere mantenute nel terreno per evitare i peggiori impatti del cambiamento climatico. Con l’Amazzonia a un punto di svolta dal collasso ecologico, attualmente al 26% di deforestazione e degrado, il bacino amazzonico dovrebbe essere un’area libera dall’estrazione di combustibili fossili».

PURTROPPO NON È ANCORA COSÌ. Nello stesso Parco nazionale di Yasuní esistono vari giacimenti: «Petroecuador – fa sapere l’ong californiana – ha una media di una fuoriuscita a settimana e i due principali oleodotti del Paese, che portano il petrolio dall’Amazzonia attraverso le Ande fino ai porti lungo la costa del Pacifico, hanno subito gravi fuoriuscite negli ultimi cinque anni». I primi a subirne le catastrofiche conseguenze sono i popoli indigeni della foresta amazzonica. Anche per questo la portata del referendum popolare avvenuto in Ecuador è storica. Sono stati preservati i loro diritti. «Le terre dei popoli Tagaeri, Dugakaeri e Taromenane incontattati sono state invase per anni, prima da parte di missionari evangelici, poi dalle compagnie petrolifere – ha dichiarato Sarah Shenker, direttrice della campagna dell’ong Survival International per i popoli incontattati – oggi, finalmente, possono sperare di poter tornare a vivere in pace. Ci auguriamo che l’esito di questo referendum aumenti la presa di coscienza del fatto che, se vogliamo che sopravvivano, tutti i popoli incontattati devono avere i propri territori protetti. Sappiamo che i loro territori costituiscono la migliore barriera alla deforestazione. I popoli incontattati sono nostri contemporanei, una parte vitale della diversità umana e custodi dei luoghi più biodiversi del pianeta».

La catastrofe ecologica durata trenta anni ha esposto la popolazione a danni incalcolabili




FOSSILI. Nell’ambiente sono finite sostanze cancerogene che hanno contaminato l’acqua potabile

La tragica eredità dell’estrazione petrolifera nella foresta amazzonica gli ecuadoriani la conoscono molto bene. Poco più a nord del Parco nazionale di Yasuní ci sono gli impianti petroliferi un tempo della Texaco, poi acquisiti nel 2001 dalla multinazionale statunitense Chevron.

È AMPIAMENTE documentata la catastrofe ecologica nella provincia di Sucumbíos. Tra il 1964 e il 1992 Texaco utilizzò principalmente due pratiche, considerate sotto gli standard mondiali: lo scarico delle acque reflue nella foresta e la costruzione di centinaia di fosse contenenti i residui delle attività di perforazione e pulizia dei pozzi. Oltre 18 miliardi di litri di acque reflue sono stati svuotati nella foresta amazzonica nelle vicinanze dei 339 pozzi petroliferi attivi.

LA MANCATA REINIEZIONE degli scarichi ha esposto la popolazione a danni sanitari incalcolabili. Nell’ambiente sono finite sostanze cancerogene, come il benzene, il toluene, lo xilene, il cadmio, il mercurio, gli idrocarburi aromatici policiclici e altri metalli pesanti. Il numero delle fosse a cielo aperto di contaminanti non è mai stato reso noto dalla società.

NEL 2011, DURANTE un’ispezione, ne vennero individuate 627. Si ritiene che ne esistano alcune migliaia. Molte di queste fosse a cielo aperto sono state tombate senza alcun tipo di bonifica.

SONO STATI BRUCIATI miliardi di metri cubi di greggio, creando una «pioggia nera» tossica che ha disperso nell’aria e sul suolo diossine. Le testimonianze della popolazione che vive vicino agli impianti sono raccolte nel libro Crude Reflections, pubblicato da Lou Dematteis e Kayana Szymczak. Modesta Briones si è vista amputare una gamba a causa di un cancro. Il bestiame nel frattempo è morto.

DOLORES MORALES ha perso suo figlio Pedro di 19 anni per tre tumori. È deceduto in 10 mesi. Un altro dei suoi figli, José, 15 anni, sta combattendo contro la leucemia. Le sostanze cancerogene continuano a contaminare le matrici ambientali.

SECONDO GLI SCIENZIATI l’acqua usata per bere, lavarsi e cucinare contiene un livello di tossine 150 volte superiore agli standard di sicurezza. Nel 2011 è arrivata la sentenza del tribunale di Sucumbíos. Il processo noto come Lago Aspro si è concluso con la condanna delle multinazionali Texaco/Chevron al pagamento di oltre 9 miliardi di dollari per il disastro ambientale. Ma la decisione non è mai stata eseguita.

«HANNO CONTAMINATO fiumi e torrenti che le popolazioni indigene e le comunità locali utilizzano per bere, fare il bagno e pescare, creando una crisi sanitaria nella regione che continua ancora oggi – denuncia l’organizzazione non governativa Amazon Watch – Chevron ha rimosso tutti i suoi beni dalla regione e si è rifiutata di rispettare la sentenza, negando alle comunità la bonifica, l’acqua pulita e l’assistenza sanitaria di cui hanno disperatamente bisogno e a cui hanno diritto».

PER OTTENERE GIUSTIZIA le comunità locali hanno intentato ricorsi nei paesi in cui Chevron è ancora attiva. Nel 2021 l’avvocato dell’accusa Steven Donziger ha rivelato alla rivista Esquire di aver pagato a caro prezzo la sua battaglia legale contro il colosso petrolifero: «Sono stato preso di mira dal contrattacco aziendale forse più feroce della storia americana – ha detto – Ha coinvolto studi legali, duemila avvocati, probabilmente oltre un miliardo di dollari di compensi professionali. Con il chiaro obiettivo di Chevron di demonizzarmi, invece che pagare quanto dovuto ai popoli dell’Amazzonia».

È STATO LUI NEL 1993, insieme all’organizzazione Frente de defensa de la Amazonia, a denunciare Chevron negli Stati Uniti per conto di 30 mila persone. Il caso poi è stato trasferito in Ecuador e si è concluso con la condanna della società, che ha lasciato il Paese senza versare quanto dovuto.

«L’EREDITÀ TOSSICA della Chevron in Ecuador – sottolinea Amazon Watch, intervistata da l’Extraterrestre – è un esempio lampante del perché le trivellazioni petrolifere non dovrebbero avvenire in questi luoghi. I decenni di trivellazioni e discariche della Chevron sono stati uno dei fattori che hanno spinto gli ecuadoriani a prendere la storica decisione di mantenere permanentemente sottoterra i più grandi giacimenti di petrolio di Yasuní».


«In Amazzonia ho visto l’inferno»

INTERVISTA. Il fotografo e regista Lou Dematteis ha vissuto e fotografato i conflitti ambientali e sociali nel mondo. La sue immagini a Corigliano d’Otranto e a Roma

Nell’Amazzonia ecuadoriana ho visto l’inferno dantesco. C’erano piaghe infette sul suolo della foresta pluviale». Lou Dematteis, classe 1948, fotoreporter e regista, ha lavorato per la Reuters e dedicato la vita a raccontare i conflitti sociali, politici e ambientali nel mondo. Ospite della Festa del Cinema del Reale e dell’Irreale, quest’estate ha inaugurato la mostra Five from One. Cinque paesi, cinque storie, a Corigliano d’Otranto (Lecce) fino al 19 ottobre. A dicembre sarà a Roma.

Dopo anni come reporter di guerra in Centro America, lei è arrivato nell’Amazzonia ecuadoriana e ha detto di aver trovato un altro tipo di guerra. In che senso?

Mi sono recato per la prima volta nella regione amazzonica settentrionale dell’Ecuador nel ‘93 per indagare sulle denunce relative a un’estesa contaminazione ambientale e ai danni provocati dall’attività petrolifera. Quella che ho trovato in Ecuador non era una guerra a colpi di arma da fuoco, ma era comunque una guerra contro l’ambiente e gli abitanti. Ho visitato i vecchi pozzi petroliferi della Texaco. Ho visto acque reflue tossiche scaricate in fosse a cielo aperto piene di petrolio greggio. Sembravano piaghe infette sul suolo della foresta pluviale. L’azienda ha lasciato l’Ecuador nel ’92 ed è stata acquistata dalla Chevron. Lo scarico è continuato nei pozzi e negli impianti. Molte fosse sono state incendiate per bruciare il greggio di scarto.

Sono trascorsi 10 anni tra il primo viaggio e il secondo. Com’è cambiata nel frattempo la vita delle popolazioni amazzoniche dell’Ecuador?

Durante il mio primo viaggio, nel ‘93, ho parlato con un medico del Ministero della Salute dell’Ecuador che lavorava dove si trovano i pozzi di petrolio. Lui credeva che la regione fosse una bomba a orologeria a causa della contaminazione da rifiuti tossici. Diceva che ci sarebbero voluti circa 10 anni perché i tumori e le altre patologie gravi e fatali si manifestassero. Il risultato sarebbe stato un’epidemia. Quando nel 2003 sono tornato in Ecuador, ho scoperto che la bomba a orologeria era esplosa. Ovunque mi girassi, incontravo persone che convivevano con gli impatti di questa tragedia ecologica. Erano affette da cancro, malformazioni congenite, malattie respiratorie.

Alcuni dei suoi scatti ritraggono gli effetti di questo disastro ecologico sulle popolazioni locali…

Ho documentato ampiamente i danni ambientali e sanitari causati dalla contaminazione Texaco/Chevron. Una delle prime persone che ho fotografato nell’Amazzonia settentrionale è stata Angel Toala, un attivista del Fronte di difesa dell’Amazzonia. Angel stava morendo di cancro allo stomaco. Era così debole da non riuscire a parlare. Sua moglie lo faceva per lui. La sua testimonianza è contenuta nel mio libro Crude Reflections. Ho scoperto in seguito che Angel è morto il giorno dopo aver scattato quella foto. Ho continuato a fotografare molte altre persone, di tutte le età, che soffrivano di problemi di salute dovuti alla contaminazione.

Per i danni di Texaco e Chevron c’è stato un processo. Come è terminato?

Il processo contro Chevron per la contaminazione ambientale e i conseguenti problemi di salute è iniziato nel 2003 e si è concluso nel 2011 con l’accertamento della colpevolezza della multinazionale, condannata a pagare 9 miliardi di dollari per rimediare ai danni ambientali e occuparsi dell’acqua potabile e delle strutture sanitarie per la popolazione colpita. Purtroppo, Chevron ha fatto ricorso a numerose azioni legali per contrastare la sentenza ed evitare di pagare.

In Ecuador di recente si è svolto un referendum sulle attività petrolifere in Amazzonia. Che valore ha la decisione presa?

Una grande vittoria! Il 20 agosto gli ecuadoriani hanno votato per porre fine alle trivellazioni petrolifere nella regione Yasuní dell’Amazzonia ecuadoriana, uno dei luoghi più ricchi di biodiversità del pianeta. L’ambientalista John Quigley ha scritto: Un momento da celebrare per la Terra e per il futuro della vita su questo pianeta. Ma c’è ancora molto lavoro da fare. Il popolo ecuadoriano deve assicurarsi che il governo prosegua in questa direzione e interrompa effettivamente le attività di trivellazione. La battaglia non è ancora finita. Ma è un ottimo inizio e un esempio di ciò che deve essere fatto in tutta l’Amazzonia.

La sua produzione fotografica e filmica è molto vasta. Qual è l’esperienza che l’ha più segnata?

Come fotoreporter e regista ho cercato di far luce sulle cose che dovremmo custodire e sulle cose che dobbiamo cambiare. Penso che la guerra, la distruzione dell’ambiente e il cambiamento climatico siano i maggiori pericoli che dobbiamo affrontare come esseri umani. Penso che si debba lottare per preservare i diritti umani di tutta la popolazione mondiale. Nel caso delle popolazioni indigene dell’Amazzonia, esse vivono nel profondo rispetto dell’ambiente e delle loro culture. Sono protettori delle foreste e, così facendo, proteggono il nostro pianeta per tutta l’umanità.

In Nicaragua è stato rapito dai controrivoluzionari. In Ecuador è stato seguito. Cosa ricorda di quei momenti?

Al momento della cattura da parte dei ribelli dei Contras in Nicaragua, ricordo di aver pensato che c’era una buona possibilità di perdere la vita. Ma ero calmo perché i ribelli che ci avevano catturato erano molto nervosi ed era importante che rimanessi tranquillo. Dopo alcune ore, io e i miei colleghi fummo liberati. Fu un’esperienza spaventosa. Per il mio lavoro in Ecuador, invece, durante un viaggio i miei spostamenti vennero monitorati da agenti della Chevron. Alcune persone coinvolte nel caso Chevron erano già state uccise, quindi ero molto preoccupato e molto attento.

La prima guerra che l’ha segnata è stata quella in Vietnam. Ha visitato il paese a distanza di anni da giornalista…

La guerra del Vietnam è stata un evento determinante per la mia generazione. È finita nel ‘75. Sono andato per la prima volta in Vietnam a fotografare nel ‘92, 17 anni dopo la fine della guerra. Sono andato a vedere come il Paese, che era stato sottoposto a una lunga e brutale guerra promossa dal mio Paese, si stesse riprendendo e affrontasse il futuro. Alla fine ho visitato il Vietnam quattro volte e i viaggi mi hanno aiutato a guarire personalmente da ciò che avevo vissuto in sei anni di copertura della brutale guerra in Nicaragua.

Il suo legame con l’Italia ha origini antiche. Ha anche realizzato un film «Crimebuster» che lo racconta. Qual è il suo rapporto con il nostro Paese?

Tutti i miei nonni sono emigrati in California dal Nord Italia. Sono cresciuto in una famiglia italoamericana molto orgogliosa del proprio patrimonio. Volevo venire in Italia e dopo la laurea l’ho fatto. Mi sono sentito a casa. Vedendo le opere d’arte e i reperti archeologici, è avvenuta come un’esplosione nella mia testa. Questa esperienza mi ha portato a decidere di diventare fotografo. Ho contribuito alla creazione di una Galleria degli Immigrati presso il Museo Storico della Contea di San Mateo, in California. E il 5 dicembre inaugurerò una mostra al Museo di Roma in Trastevere, composta da 105 foto in bianco e nero dell’Italia che ho scattato tra il ‘72 e l’80. Si intitola A journey back/Un viaggio di ritorno, che diventerà anche un libro.

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