Il paese dei detenuti bambini.Israele e Palestina secondo Ilan Pappe
“Memorie e Identità”del CONVEGNO L’eredità di Edward Said in Palestina,
TORINO 1-2 MARZO 2018
Aula Magna Campus Luigi Einaudi*
Sono
un professore di storia e vedendo qui studenti, non studenti e
professori nei banchi, credo che farò una lezione molto storica… è nel mio DNA! Metto da parte le questioni più concettuali e teoriche, e avrò un approccio più storico.
Ho
appena firmato un contratto per un libro, che non ho ancora scritto (un
errore!), l’unica cosa che so è il titolo che avrà: “Qual è il senso
della storia?”. Ho scelto questo titolo perché negli ultimi 30-40 anni
c’è stato un grande dibattito tra gli storici e gli accademici, non su
cosa sia il senso della storia, ma su cosa sia la storia. Abbiamo
distrutto cinque belle foreste in Brasile per farne dei libri su cui
scrivere centinaia di pagine, per dire che cosa è la storia, e oggi non
ne sappiamo molto di più. Abbiamo avuto delle scuole di pensiero nel
1900, e sono ancora le stesse. Ancora non sappiamo esattamente che cosa è
la storia. I relativisti e gli empiristi stanno ancora dibattendo se si
può o non si può conoscere esattamente ciò che è accaduto nel passato.
Vico soleva dire “Ciò che sapete del passato è in realtà ciò che sapete
del presente, non di più.” La maggior parte di noi si colloca nel mezzo
tra un punto di vista relativista ed il suo opposto. È tempo di
affrontare un altro problema: quale è il significato della storia.
Il
motivo è che la questione palestinese è diventata un nodo che riporta
ad un problema molto più ampio: che cosa è stata la Palestina negli
ultimi 30-40 anni; è diventata un simbolo, o un oggetto di ricerca, di
questioni che vanno molto al di là della Palestina stessa, come la
giustizia sociale, o la decolonizzazione. Inoltre la Palestina è
diventata importante per la discussione di che cosa sia il senso della
storia. Noi viviamo in una società e in un ambiente neoliberale e anche
l’università è vittima di questo tipo di percezione ideologica ed
economica: da un punto di vista neoliberale l’insegnamento della storia è
inutile e non molto importante. L’insegnamento della letteratura, la
cultura, in generale l’umanesimo non sono considerati molto importanti.
In Gran Bretagna, dove insegno, c’è una nuova idea di rendere la laurea
in materie umanistiche e in scienze sociali molto più economica di
quella in materie scientifiche, perché sono considerate meno importanti,
per cui si paga meno per una laurea in sociologia o storia e molto di
più per laurearsi in legge o in medicina. Non me lo sto inventando, è
ciò che avverrà in Gran Bretagna nei prossimi anni.
Credo
sia importante lottare per l’importanza della storia, non solo per il
passato, ma per tutti noi. Sappiamo tutti che se c’è un vuoto nella
storia, se l’università e gli storici non vengono considerati come una
parte essenziale della nostra società, sappiamo da chi verrà colmato
questo grande gap nella società: lo si è visto in Italia, dove stanno
tornando i nuovi fascisti, quando la storia non viene raccontata
correttamente e quando non viene considerata come questione morale:
allora ci sono persone che propongono una loro narrazione e creano la
base per politiche razziste ed immorali, in questo paese come anche
altrove. Perciò credo che dobbiamo lottare per il diritto di parlare
dell’importanza della storia e non vi è un altro caso che richieda un
così serio approccio quanto il caso della Palestina. Voglio perciò
fornirvi un approccio storico alla lotta contro la cancellazione della
memoria della Palestina.
Il
punto di partenza, che è già stato citato dai due amici che mi hanno
preceduto, è che cerchiamo di guardare al sionismo di Israele oggi come
ad un progetto di colonialismo di insediamento. Sono sicuro che tutti
voi avete già sentito questo termine, colonialismo di insediamento, ma
per essere certo che siamo sulla stessa lunghezza d’onda, chiariamo la
differenza tra colonialismo e colonialismo di insediamento. Quest’ultimo
non è il classico colonialismo. Il colonialismo di insediamento è stato
creato dai rifugiati, da quelli che hanno dovuto fuggire dall’Europa
con l’aiuto di un altro potere colonialista ed in realtà non volevano
tornare in Europa, non cercavano solo una nuova casa, ma una nuova
patria. E tra le sfide in cui potevano imbattersi dovunque andassero, in
America, Australia, Africa o Palestina, la maggiore era che vi fossero
persone che già vivevano là, in un territorio che gli apparteneva, che
per loro era invece il territorio dove costruire una propria nuova
identità. In molti casi questi incontri con popoli indigeni andarono a
finire con il genocidio dei nativi. Nel caso del Sudafrica e della
Palestina vi furono la pulizia etnica, l’apartheid, ed altre atrocità
che dopo la seconda guerra mondiale sono state considerate crimini di
guerra contro l’umanità.
Fin
dall’inizio la storia è molto importante per il colonialismo di
insediamento. Questo intende dire ai popoli indigeni “inferiori, voi non
avete una storia”. Gli indigeni sono stati rimossi dai libri di storia
dei coloni, prima ancora di essere espulsi fisicamente dalla loro terra.
Per esempio, se considerate i pittori sionisti nelle prime fasi del
progetto sionista, alla fine del diciannovesimo secolo – inizio del
ventesimo, se leggete le loro poesie o i loro racconti, ma penso che
soprattutto la pittura sia significativa, potete vedere che i pittori
sionisti guardavano la collina dove noi sappiamo che c’era un villaggio
palestinese, ma nel dipinto o nel disegno il villaggio non c’è. Il
villaggio è stato fisicamente distrutto nel 1948, ma non c’era già più
nel 1910. Si tratta dello stesso approccio, attraverso il disegno, di
rimuovere i nativi prima di eliminarli fisicamente che si trova… per chi
di voi ha visto il muro israeliano intorno a Gerusalemme, là ci sono
dei graffiti israeliani (no, non di Bansky…) di ciò che si può vedere al
di là del muro, perché gli israeliani di Gerusalemme si lamentavano di
dover passare da una parte all’altra della città attraverso un muro
molto brutto, quindi qualcuno ha detto “bene, dipingiamolo e ci
disegneremo un paesaggio che sta oltre il muro”, per cui si possono
vedere le colline, ma non ci sono villaggi né città palestinesi. In
realtà ci sono ancora e noi che abbiamo coscienza sappiamo che è un
brutto segno che nei graffiti israeliani sul muro i villaggi che ancora
esistono, nel disegno non ci sono, il che significa che loro hanno un
piano diverso.
Prendiamo
in considerazione il colonialismo di insediamento, non solo quello
sionista, ma dovunque. Prima che abbiano il potere di espellere la
popolazione indigena, la rimuovono dalla narrazione; ma fanno anche
altro, lo sappiamo riguardo agli Stati Uniti. Si appropriano della
storia degli indigeni come fosse la propria. Prendono la storia dei
palestinesi, dei nativi d’America, degli aborigeni e sostengono che in
realtà quella è la loro storia. Questo è parte di un progetto che
costringe i nativi, la popolazione locale, a lottare per qualcosa che ai
loro occhi è evidente, quindi ci vuole molto tempo prima che i
palestinesi si rendano conto che devono difendere qualcosa che a loro
appare un concetto naturale. Perché dovevano spiegare alle Nazioni Unite
nel 1947 che appartenevano alla Palestina? Perché la popolazione di
Torino dovrebbe spiegare all’Unione Europea che fa parte di Torino? È un
esercizio inutile. Eppure ai palestinesi venne chiesto dalle Nazioni
Unite nel 1947: ‘Diteci, siete voi il popolo della Palestina?’ Risposero
‘Sì, noi siamo palestinesi, siamo il popolo della Palestina.’
‘Sì,
ma voi non lo avete articolato bene, perché ci sono i sionisti che
hanno detto di essere loro il popolo della Palestina.’ Con un’assenza di
2000 anni, è vero, ma …
Questa
sorta di de-indigenizzazione, o di negazione dell’identità indigena dei
nativi, la pretesa che la loro storia sia la vostra, è una potente
azione di cancellazione e ridefinizione della memoria e dobbiamo capire
che la difesa della memoria inizia dal primo momento in cui un colono
ebreo venne in Palestina alla fine dell’800.
I
coloni ebrei, soprattutto quelli arrivati con la seconda ondata, tra il
1905 e il 1920, divennero il gruppo dal quale più tardi nacque la
leadership israeliana fino al 1990, forse fino ad oggi. Molti di loro
sono morti, ma la maggioranza di coloro che hanno impostato il sistema
politico ed economico israeliano erano arrivati in quell’ondata, ciò che
chiamiamo in ebraico la seconda Aliyah, la seconda ondata. Non era un
grande gruppo, ma era molto qualificato. Quelle persone hanno scritto
riguardo a qualunque cosa, ci hanno lasciato montagne di diari e di
giornali ed hanno continuato a scrivere dal momento in cui sono
arrivati, non è sfuggito nulla alla loro attenzione, ogni puntura di
zanzara, ogni goccia d’acqua, se gli piacesse o no, ci hanno riferito
tutto di quel periodo. Ciò che è stupefacente riguardo a questi coloni è
che non erano mai stati prima in Palestina e solitamente hanno passato
la prima notte nella città di Jaffa, dove tra l’altro i palestinesi li
hanno ospitati, perché erano molto poveri; non sapevano dove stare a
Jaffa per cui i palestinesi gli hanno permesso di rimanere gratis almeno
per i primi due giorni prima di tentare di raggiungere le più vecchie
colonie nel nord o nel centro della Palestina. Di notte, probabilmente
usando lampade a petrolio (non c’era elettricità) scrivevano del loro
primo arrivo nei diari o nelle lettere a casa. Erano davvero stupefatti
perché in Polonia o in Russia, da dove provenivano, gli avevano detto
che quando fossero arrivati avrebbero trovato una terra vuota, ma poi
hanno scoperto che non era vuota, quindi vi è già una narrazione della
storia che gli israeliani avrebbero poi portato avanti fino ad oggi, nel
2018. E la narrazione è: noi siamo ospitati da alieni, siamo ospitati
da stranieri della nostra patria, che hanno preso la terra dei nostri
antenati, e noi siamo venuti a riscattarla, quindi la generosità dei
palestinesi, la loro umanità, vengono totalmente ignorate. Ciò che
importa è che qui c’è una sfida, c’è una contraddizione tra l’idea che
la terra che era deserta da 2000 anni doveva essere vuota, ma se ci sono
esseri umani non possono far parte della patria, perciò sono stranieri.
Questa idea che i palestinesi siano stranieri non è mai cambiata nella
concezione degli israeliani, nemmeno di quelli di sinistra oggi: quando
ragionano di compromesso coi palestinesi o quando parlano della
cosiddetta pace con loro, li pensano sostanzialmente come stranieri in
Palestina; anche se da un punto di vista liberale o socialista intendono
arrivare ad un compromesso o a tollerarli in una piccola parte della
Palestina, non li riconosceranno mai come indigeni. E questo fa parte
del sistema educativo israeliano ancora oggi: noi siamo gli indigeni e
chiunque altro è un immigrato, magari ebreo, che si accoglie, oppure è
uno straniero. Anche l’ebraismo ha un ben noto modo di dire, che bisogna
trattare bene lo straniero, quindi c’è un’idea religiosa che dice che
si possono integrare gli stranieri, ma il profondo concetto dei
palestinesi come stranieri esiste fin dall’inizio e i palestinesi hanno
dovuto combatterlo fin dal primo momento.
Negli
anni Trenta per la prima volta la comunità internazionale si è resa
conto che la storia ha svolto un ruolo nel destino palestinese. Come
saprete, negli anni Trenta gli inglesi che occupavano la Palestina dal
1918 cominciarono a pensare che c’era un problema in Palestina fra le
promesse fatte agli ebrei con la Dichiarazione Balfour, che si sarebbe
creata una casa per loro in Palestina, e il fatto che sul terreno c’era
quella che si può definire una popolazione locale, un popolo che
costituiva la schiacciante maggioranza della popolazione [96%], che
aveva aspirazioni diverse rispetto alla terra, all’identità collettiva e
che esistevano già movimenti di liberazione, gruppi di resistenza
all’occupazione. Insomma gli inglesi
capirono di dover trovare un modo per conciliare questi contrasti e non
sapevano bene come rapportarsi alla Storia in merito. Se avessero
utilizzato criteri universali nel 1936, e cioè quante persone,
democraticamente, vogliono che la Palestina sia la Palestina, quante
vogliono che la Palestina sia uno stato arabo, insomma usando i criteri
che le nazioni legalmente usano per stabilire i diritti delle persone
all’autodeterminazione, era molto chiaro che al massimo i coloni ebrei
avrebbero potuto avere una qualche autonomia culturale nelle loro
colonie e che l’aspirazione ebrea di avere una patria a spese dei
palestinesi già nel 1936 non andava d’accordo con il diritto
internazionale all’indipendenza e all’autodeterminazione. È molto
chiaro, come ha detto anche Jamil Khader, che a causa del sionismo
cristiano e di altri elementi in gioco, chi perseguiva quel disegno ha
visto l’occasione di mettere in dubbio il diritto dei palestinesi alla
Palestina attraverso la narrazione di un ritorno in patria dopo 2000
anni di esilio, che di base quella è la patria degli ebrei e i
palestinesi sono stranieri. Ma non funzionò tanto bene, ci furono delle
pressioni sul movimento sionista affinché provasse non solo che la
Palestina fosse disabitata ma anche una continua presenza degli ebrei
dall’epoca Romana. Gli inglesi dissero loro che se avessero potuto
dimostrare una continuità questo avrebbe rafforzato la loro richiesta
della Palestina. Ci fu un famoso incontro, fra David Ben Gurion, capo
della comunità ebrea durante il periodo del mandato inglese, e lo
storico più importante della comunità ebraica Ben-Zion Dinaburg, più
tardi Ben-Zion Dinur, il secondo Ministro all’Istruzione dello Stato
israeliano. Ben Gurion chiamò questo eminente storico sionista e gli
disse “Voglio che tu faccia un grande progetto di ricerca: dimostra,
indaga se c’è stata una presenza continua degli ebrei in Palestina
dall’epoca Romana ai nostri giorni.” – cioè gli anni Trenta. Ben-Zion
era un serio storico professionista e disse “È un grande progetto e mi
piace! Mi darai i fondi?” – ciò che qualsiasi accademico avrebbe chiesto
– e Ben Gurion disse “Certo! Tutto ciò di cui hai bisogno!” e poi gli
chiese “Quanto tempo pensi di metterci per darci i risultati?” e Ben
Zion disse “È un grande progetto, penso una decina d’anni… epoche
differenti, lingue diverse, devo raccogliere un gruppo di ricerca ecc.” e
Ben Gurion disse: “Non capisci. Una commissione d’inchiesta inglese, la
Commissione Peel, arriverà tra un paio di settimane e dunque hai due
settimane per trovare le prove che gli ebrei hanno sempre vissuto in
Palestina; poi avrai altri dieci anni per sostanziare il tuo lavoro.” E
in effetti se leggete il documento ebreo, sionista, consegnato alla
Commissione Peel, c’è questa incredibile falsificazione di una continua
presenza degli ebrei in Palestina, poiché questo avrebbe fornito la
giustificazione morale al diritto degli ebrei di costruire una loro
nazione in Palestina. I palestinesi all’epoca non capirono affatto la
spaventosa sfida che dovevano affrontare: lo vediamo quando gli inglesi
ne ebbero abbastanza della Palestina e demandarono il problema all’ONU e
l’ONU creò una speciale commissione di inchiesta, l’UNSCOP, e anche
UNSCOP era interessato alla Storia. Voleva capire i racconti, le
narrazioni storiche di entrambe le parti. I palestinesi dissero – ed è
probabilmente comprensibile – “Non vogliamo fornirvi la narrazione
storica, non abbiamo intenzione di fornire le giustificazioni morali” –
come penso sappiate, i palestinesi boicottarono la commissione speciale
d’inchiesta dell’ONU, pensando “Noi siamo palestinesi in Palestina,
perché dovremmo aver bisogno di andare all’ONU a dimostrare che è
così!?” Ma quando sei un colonizzatore con il progetto di insediarti,
sei bravissimo in storia, e la ricostruzione storica che il movimento
sionista consegnò all’UNSCOP è un documento impressionante, di
invenzione e falsificazione, ma comunque un documento impressionante:
più note a pié pagina di quanto in Italia un dottorando metterebbe nella
sua tesi, un mucchio di note, incredibile, è così sostenuto e
comprovato e con tanti e tali riferimenti incrociati che prenderebbe 100
su 100 come lavoro storico se sottoposto ad una giuria accademica –
quanto alla validità delle affermazioni… lasciamo stare. Era chiaro già
nel 1946 allo stesso movimento sionista come alla comunità
internazionale che fosse essenziale una narrazione storica, quand’anche
falsa e inventata, per giustificare l’immorale idea di dare la Palestina
al popolo ebreo come ricompensa in generale per l’antisemitismo e in
particolare per l’Olocausto. Non si può procedere direttamente
dall’argomento morale: non basta che gli ebrei meritino una patria a
causa dell’antisemitismo, bisogna motivare perché in Palestina e a spese
dei palestinesi e ottimi storici erano presenti sia nel movimento
sionista che alle Nazioni Unite nel 1946… e dunque qual è il senso della
storia? di fornire giustificazione morale ad azioni di disumanizzazione
[riduzione demografica], pulizia etnica, colonizzazione, che hanno
fatto davvero tante vittime umane. Allora “Storia” non è soltanto il
nome di una pratica accademica, è anche la narrazione che giustifica
l’umanità [nel suo agire]. Dopo il 1948, per la prima volta vediamo i
palestinesi rivolgersi di nuovo alla storia, specialmente alla storia
recente. I palestinesi, malgrado il trauma dei fatti del 1948, cercarono
di spiegare al mondo, con libri storici, cosa era accaduto in quel 1948
– fra questi uno famoso è quello di Walid Khalid [All That Remains: The Palestinian Villages Occupied and Depopulated by Israel in 1948].
Ma nel 1949 e nemmeno negli anni cinquanta il mondo era minimamente
interessato a sentire la versione storica di un palestinese, che fosse
di uno storico professionista o di livello amatoriale. È molto
interessante: Walid l’ha studiata per tutta la vita, è considerato oggi
uno storico palestinese dei più importanti e voleva fare un PhD a
Oxford, nel 1949-’50, usando la sua memoria ancora molto fresca dei
fatti accaduti in Palestina e anche ricostruendo una narrazione e
spiegando chiaramente quali fossero i risultati della risoluzione
dell’ONU e dell’atteggiamento internazionale rispetto alla Palestina. Fu
però convinto dal suo professore della prestigiosa università inglese a
non trattare di quei fatti perché erano troppo politici, troppo
emotivi, troppo vicini nel tempo, e lui fece un PhD su un altro
argomento. Anni dopo avrebbe contribuito alla nostra conoscenza storica
della Palestina, ma nei tardi anni quaranta e cinquanta, nella memoria
degli studi universitari la versione degli israeliani era considerata
professionale, valida, accademica, mentre gli storici palestinesi… chi
erano? erano considerati degli emotivi, orientali, che lavoravano su
visioni di fantasia piuttosto che sui fatti. Ma è incredibile che gli
israeliani scrissero un numero incredibile di libri, specialmente i
generali che avevano partecipato alle pulizie etniche del 1948 scrissero
le proprie memorie, erano chiamati “i libri della Brigata” in Israele,
una letteratura enormemente vasta che uscì in ebraico nel 1950 e ’51, in
base a cui infatti qualcuno di noi – ma nessuno di noi lo fece –
insomma se qualcuno fra gli ebrei vivo e abbastanza cosciente nel 1951
avesse voluto, avrebbe potuto scrivere quella che fu in seguito chiamata
la “nuova storia” del 1948, avrebbe potuto farlo nel 1950 senza un solo
documento degli Archivi israeliani. Sapete, il mito che dovessimo
aspettare la desecretazione degli archivi nel 1978 per sapere cosa fosse
accaduto in Palestina nel 1948, è un’assurdità: nel 1950 i generali, i
militari, le truppe che avevano preso parte alla pulizia etnica della
Palestina scrissero molto onestamente di ciò che avevano fatto, ma
quando non hai le giuste lenti ideologiche, morali, non leggi
correttamente quella produzione di conoscenza, non capisci che la parola
“nemico” vuol dire “donne e bambini”, non capisci che la parola “base
nemica” vuol dire “un villaggio o un quartiere”, non capisci che
l’espressione “eliminare il nemico” vuol dire “distruggere un’intera
comunità”; è solo dopo, quando il dizionario ideologico cambia e si
inizia a rileggere
queste fonti – disponibili, non desecretate – capisci che non era
necessario aspettare il 1978, che già nel 1950 era possibile scrivere la
vera storia del 1948. Ma di certo Israele allora era protetto da quella
nuova idea degli storici che un documento in un archivio scritto da un
politico, un militare – il genere di persone più inattendibili che ci
sia al mondo – insomma che questo scritto, già coperto dalla polvere di
30 anni, non debba essere altro che la verità e nient’altro che la
verità e questa era una cosa su cui anche i palestinesi sfortunatamente
cominciarono a riflettere più tardi, quando la nuova storia di Israele
cominciò ad apparire. Cominciarono a tenere in considerazione i
documenti dell’esercito israeliano sui fatti del 1948, pensando che
contenessero la sola versione possibile degli eventi rispetto alle
testimonianze orali o ad altri mezzi che si usano per ricostruire cosa
accadde nel passato. Per questo la nostra battaglia contro il memoriale è
anche la nostra battaglia contro la gerarchia, che considera dei
documenti politici e militari desecretati possedere una sorta di
validità che ogni altra fonte che usiamo per ricordare e rammentare non
possiede. Penso a questo proposito al lavoro di Jacques Derrida e di
Michel Foucault sugli archivi, che aiutano molto a invalidare gli
Archivi Nazionali in quanto deposito di fatti manipolati e aggiustati
dallo Stato, e non una via diretta alla verità del passato.
Procedo
verso il prossimo punto, con cui concluderò. Una cosa importante da
ricordare riguardo ad Edward Said è che scrisse un libro, The Question of Palestine,
pubblicato negli anni Settanta e dunque prima che si avesse accesso
agli archivi israeliani, o agli archivi britannici o americani. E questo
perché lui aveva idea che ciò che è importante dei fatti sia il loro
significato piuttosto che la loro autenticità; lui fu in grado per la
prima volta di articolare in modo molto chiaro una narrativa
palestinese, che naturalmente compare più tardi nell’atto costitutivo
dell’OLP e nella Dichiarazione di Indipendenza nel 1988; per la prima
volta i lettori inglesi ebbero a disposizione una narrazione concisa,
che conteneva ciò che è importante in una narrazione e cioé non i
dettagli, ma lo scheletro della storia, una storia di colonizzazione,
spossessamento – non una storia complicata, infatti è il primo a dire
che ciò che fa Israele erige anche uno schermo di complessità. Penso che
ognuno di voi che abbia discusso in veste ufficiale o con un portavoce
informale di Israele sa che il maggiore genere di rivendicazione di
Israele è che la cosa è troppo complessa, voi non riuscirete mai a
capire, solo Israele la capirebbe. E questa complessità della storia è
costruita, perché purtroppo la storia non è affatto complessa, di gente
che arriva e caccia via altra gente, è già accaduto e purtroppo accadrà
ancora, e la domanda è se si possa fermare piuttosto che se si possa
comprendere. Come sapete negli anni ottanta capitarono due cose, e con
questo concludo. Apparve il grande articolo di Edward Said che hanno
menzionato i miei colleghi, Permission to Narrate, un articolo
molto importante che vi raccomando di leggere se non l’avete già fatto,
che Said scrisse immediatamente dopo l’invasione israeliana del Libano,
nel 1982. Dopo l’invasione del Libano del 1982, che in Israele è
chiamata la Prima Guerra del Libano, l’ONU nominò una commissione
d’inchiesta con a capo una persona di nome Sean McCright, un irlandese
che era famoso nel mondo come l’avvocato più autorevole per i Diritti
Umani, e fu nominato dall’ONU anche perché aveva effettivamente a
livello internazionale la reputazione di persona integra e questo
avvocato produsse un report molto incriminatorio della guerra in Libano,
specialmente [delle azioni] contro i campi profughi palestinesi, report
che fu completamente ignorato dalle Nazioni Unite, dai media
internazionali e questo irritò molto Said. E fu così che iniziò a
scrivere il suo articolo.
E la seconda cosa che successe, che lo irritò, fu che il buon amico Noam Chomsky scrisse un libro intitolato Il triangolo palestinese
e concludeva il libro dicendo che, riguardo alla questione palestinese,
se si guardavano realmente le cose in faccia, i palestinesi non
avrebbero avuto proprio alcuna possibilità di cambiare la realtà. Non so
che cosa l’abbia irritato di più, se il report di McCright o le
conclusioni di Chomsky, ma scrisse l’articolo con molta rabbia, questo è
evidente. E nell’articolo dice, e questo è molto importante, che non
solo i palestinesi hanno il permesso di avere la loro narrazione, e che
anche se l’equilibrio di potere è contro di te, non hai il potere
militare, non hai il potere economico, non hai il potere diplomatico,
nessuno può toglierti il potere di raccontare la tua storia.
Ma
questo non è il punto principale, il punto principale è che Said ha
detto a Chomsky: se i fatti sono così deprimenti devi raccontarli in
modo che si possa scegliere di venirne fuori. Il ruolo della Storia non è
quello di dire le cose così come sono state, la Storia racconta le
storie del passato con una visione di cambiamento della realtà nel
futuro. Certo, così dicendo Said entrava in conflitto con la percezione
professionale accademica del lavoro della Storia in quanto imparziale,
oggettiva, priva di agenda politica, e diceva: la gente non ha un’agenda
politica, una posizione morale e se si ricostruisce la storia della
Palestina senza alcun impegno, si finisce certo con il rappresentare dei
fatti che perpetuano la realtà. Mentre le persone che scrivono
assumendosi un impegno, possono anche contribuire scrivendo a produrre
un cambiamento nella realtà.
Lui
credeva che la penna possa a volte essere più potente dei pensieri; la
maggior parte di voi è molto giovane e magari non sa che cos’è una
penna, allora diciamo che una tastiera può essere più potente dei
pensieri…..Ma Said da più punti di vista non era certo naïf su
questo, semplicemente pensava che questa fosse una parte importante
della lotta. Permettetemi di finire dicendo che oggi in Palestina, in
Israele, nei Territori Occupati e all’interno della comunità palestinese
Said lancia un appello al permesso di narrare, e cioè “io ho il diritto
di raccontare la mia storia anche se sono occupato, anche se sono
colonizzato e anche se sono rifugiato”, e ho il diritto come storico
professionista di essere un attivista. Queste sono le due
raccomandazioni di Said per il futuro per noi storici professionisti.
Lui viene preso molto sul serio dalla società civile, ma ancora non
abbastanza sul serio dalla comunità accademica, purtroppo. Quindi molte
delle cose che Said avrebbe voluto veder accadere in ambito accademico –
cioè che avremmo fatto lezioni sul 1948 come pulizia etnica, che
avremmo fatto lezioni sulla Palestina nei nostri corsi sul colonialismo,
che avremmo fatto lezioni su Gaza nei nostri corsi sul genocidio, negli
studi sul genocidio – non è successo. Questo non è successo, né in
Italia, né in Inghilterra, in nessun posto, quindi non sentitevi
esclusi. In nessuna parte del mondo è facile cambiare il piano di studi
in modo che rappresenti il tema Palestina come una conquista nella
produzione accademica di conoscenza.
Ma
nella società civile, che è meno inibita dalla nuova scuola di pensiero
liberale, lo stanno facendo, e in Palestina potete vedere progetti di
storia orale, progetti di ricostruzione di modelli dei villaggi
distrutti, il racconto di storie attraverso interviste individuali o
spettacoli o folclore. Il permesso di narrare è ciò che Gramsci
probabilmente chiamava resistenza culturale, come prova concessa alla
resistenza politica. Come sapete Gramsci diceva che se non si può fare
resistenza politica, si fa una resistenza culturale nel senso che questa
è il banco di prova concesso alla resistenza politica. E da più punti
di vista gli Israeliani stanno iniziando a capire il progetto culturale
di memoria che i giovani palestinesi hanno intrapreso non solo in
Israele, ma anche in altri paesi, in Palestina e fuori dalla Palestina, e
improvvisamente stanno capendo, senza comprendere appieno il perché,
che si sentono spaventati da questo molto più che dai missili che Hamas
lancia contro di loro da Gaza o dai missili di Hezbollah ed è per questo
che hanno approvato delle leggi, di cui la più famosa è la legge sulla
Nakba, hanno approvato una legge che dice che i palestinesi non hanno il
permesso di fare riferimento agli eventi del 1948 come Nakba. Credo che
persino George Orwell non avrebbe potuto inventare una legge di questo
tipo, voglio dire che è incredibile il modo in cui lo fanno, ma lo fanno
perchè percepiscono che in qualche modo la società civile palestinese,
non quella accademica, ricorda il 1948 come un evento contemporaneo.
Come ha detto Jamil Khader a questo proposito, è la “Al-Nabka
al-Mustamirra” [“La Nakba ininterrotta”, ndt], voglio dire che non sono
riusciti nonostante i fatti, nonostante abbiamo cancellato i villaggi e
le foreste ora coltivate con alberi europei, nonostante il fatto che
abbiano costruito le colonie, eliminando quartieri e villaggi,
nonostante tutto lo smantellamento che hanno fatto e continuano a fare,
non possono controllare un progetto di questo tipo, che riporta e ripete
la storia di Israele in modo da dimostrargli che il loro progetto di
spopolare la Palestina dei palestinesi non è riuscito.
E
questo richiede un grosso sforzo ed ottimismo, lo so, ed i tempi non ci
offrono una buona ragione per essere ottimisti, ma ritengo che Said, il
permesso di narrare di Said, ci dimostri che qualsiasi sia l’equilibrio
di potere – e nessuno può pensare uno squilibrio di potere peggiore tra
i palestinesi e gli Israeliani, non me ne viene in mente uno, almeno
non nella storia contemporanea –, qualunque sia lo squilibrio, un fatto
resta innegabile: gli Israeliani vogliono avere una vita normale, essere
accettati come una normale parte organica della Palestina – cosa che
potrebbe anche diminuire la possibilità di una prevedibile terza ondata
di coloni – ed essere parte del Medio Oriente, gli Israeliani vogliono
questo tipo di normalità. L’unico popolo che può garantirgli questo,
sfortunatamente per loro, sono i palestinesi, non gli americani, non i
cinesi, non gli indiani, non gli europei. È in qualche modo assurdo,
perchè i palestinesi sono le vittime principali, sono stati oppressi,
colonizzati, è stata fatta una pulizia etnica nei loro confronti, ma
sono l’unico popolo che può dar loro legittimità; ora certo gli
Israeliani hanno sufficiente potere per fare a meno della legittimità,
ma lo potete vedere nella reazione alla campagna del BDS: la
delegittimazione è qualcosa con cui gran parte degli Israeliani non
sarebbe in grado di coesistere per lungo tempo. E questo è qualcosa che
noi dovremmo comprendere, è qualcosa che noi dovremmo utilizzare e non
perdere la speranza, nonostante la discordia, lo squilibrio di potere,
una comunità internazionale indifferente, nonostante tutto questo,
perché ciò che è successo in quell’area del mondo non si dovrebbe mai
permettere che accada, pensando positivamente alla Palestina, nonostante
tutto questo o il colonialismo dei coloni è trionfante, come in caso di
genocidio, o alla fine è destinato a perdere, come è successo in
Algeria o in Sud Africa.
Quella
è la speranza, che la Palestina nel 2055 sia insegnata in questa
università come caso della possibilità di sconfitta del progetto
colonialista.
Grazie!
(traduzione di Cristiana Cavagna, Luciana Galliano e Paola Merlo)
vers. orig. https://www.youtube.com/watch?v=e2Y7ZH27Tt4,video a cura di Invicta Palestina
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