Affari con le colonie in Palestina......
Il coordinamento del Giga invita ad aderire alla campgna internazionale Basta affari con le colonie al link
Dai cittadini europei alla Ue: «Basta affari con le colonie, ovunque si trovino»
Europa. Parte oggi la raccolta di un milione di firme per chiedere alla Commissione un quadro normativo sul commercio con i territori occupati. Dagli insediamenti israeliani a quelli marocchini: l’Ice promossa da oltre cento organizzazioni è diretta a tutti i casi di colonizzazione nel mondo
Basta affari con le colonie, è tempo di regolamentare le transazioni commerciali dell’Europa con entità basate su territori illegalmente occupati secondo il diritto internazionale. Ovvero di impedire l’ingresso nei mercati dell’Unione dei prodotti provenienti da colonie, ovunque si trovino.
È partita oggi la raccolta firme, lunga un anno, con cui una rete di oltre cento organizzazioni non governative europee e internazionali, movimenti di base e sindacati chiede all’Unione europea coerenza.
Si chiama Ice, Iniziativa dei Cittadini europei, e non è una semplice petizione: se paragonata al sistema legislativo italiano, è una sorta di legge di iniziativa popolare.
Ovvero uno strumento di democrazia diretta con cui i cittadini dell’Unione possono muovere una proposta legislativa alla Commissione, in qualità di – si legge nel testo dell’Ice – «Guardiana dei Trattati» e dunque responsabile della «coerenza delle politiche dell’Unione e il rispetto dei diritti fondamentali».
A promuovere l’iniziativa è il Coordinamento europeo per la Palestina. Con un obiettivo importante: un milione di firme da raccogliere entro un anno in tutti i paesi della Ue (ognuno con una soglia da raggiungere, pena la non ammissibilità dell’intera Ice: per l’Italia un minimo di circa 55mila firme) perché la Commissione europea discuta del blocco dell’importazione e dello scambio di merci con tutti gli insediamenti illegali costruiti in territori occupati, da quelli israeliani nei Territori palestinesi a quelli marocchini nel Sahara occidentale.
Si chiede dunque di fornire un quadro normativo applicabile a tutte le occupazioni e non a casi specifici (per i quali si opera con sanzioni mirate), sulla base di quanto dettato dal diritto internazionale che considera la colonizzazione di un territorio occupato crimine di guerra.
«La Ue considera gli insediamenti illegali un ostacolo alla pace e alla stabilità internazionali. Nonostante ciò la Ue autorizza il commercio con tali entità. Un commercio che genera profitto dall’annessione e che contribuisce all’espansione di insediamenti illegali nel mondo», spiega la campagna.
Per l’Italia, tra i tanti promotori dell’iniziativa ci sono Cobas, Fiom-Cgil, Arci, Assopace Palestina, Cospe, Libera, Medicina democratica, New Weapons Research Group, Ebrei contro l’occupazione, Fondazione Basso, Upp, Cultura è Libertà. Potete trovare la lista completa, italiana e internazionale, su stopsettlements.org, dove da oggi ogni cittadino e cittadina italiani può depositare la propria firma.
Tre generazioni sotto sgombero
Gerusalemme. La storia di Fatima Salem è quella di altre 27 famiglie palestinesi di Sheikh Jarrah: le case minacciate di esproprio, le violenze dei coloni israeliani e una giustizia dal doppio standard
Esile, lenti spesse, velo nero, Fatima Salem spazza davanti casa. Rimuove cartoni, metalli, cassette di legno, rifiuti di ogni tipo. Prova a rendere più vivibile il terreno intorno alla sua abitazione diventato nelle ultime settimane un campo di battaglia. Si tiene a distanza dalla tenda che, a pochi metri di distanza, ha eretto un deputato di estrema destra, Itamar Ben Gvir, per affermare il diritto dei coloni israeliani di insediarsi a Sheikh Jarrah «in sicurezza», senza «minacce da parte dei terroristi». «La nostra vita era già complicata – ci dice la donna – ma da quando (Ben Gvir) è qui siamo circondati giorno e notte dalla polizia, gli agenti controllano ogni movimento della mia famiglia. E poi ci sono i coloni a renderci l’esistenza più difficile».
Fatima Salem (foto di Michele Giorgio)La casa dei Salem è povera e povere sono le altre abitazioni palestinesi di questa porzione occidentale di Sheikh Jarrah. La miseria e il degrado saltano all’occhio anche perché dietro questi edifici bassi di cemento grigio e tetti spesso di lamiera, in cui vivono manovali a giornata che sostengono famiglie numerose, svettano palazzi eleganti e di costruzione recente. Appartamenti che spesso accolgono il personale straniero delle agenzie dell’Onu o famiglie palestinesi benestanti. Fatima in quella casa piccola e fatiscente è nata e ha trascorso tutta la vita. Sulle pareti di una stanza spiccano le foto di tre generazioni di Salem, alcune sbiadite dal tempo e in bianco e nero. «Sono sempre stata qui» ci dice voltando lo sguardo verso le immagini, «papà e mamma vennero qui prima che nascessi, più di 70 anni fa. Sono la più piccola di dieci figli e rimasi con loro quando i miei fratelli e le mie sorelle si sposarono. Restai anche dopo il mio matrimonio quando ebbi dei figli, i miei genitori erano anziani e avevano bisogno di aiuto». Davanti casa Ibrahim, uno dei figli di Fatima, prova a tenere a freno tre o quattro bambini che urlano mentre corrono spensierati. «Va bene, non fa nulla lasciali giocare» lo esorta la donna alzando la voce. Fatima riprende il suo racconto. «Qualche anno dopo la guerra (del 1967, quando Israele ha occupato la zona est, palestinese, di Gerusalemme, ndr), ero solo una ragazzina e già volevano portarci via la casa. È andata avanti così per decenni. Poi, qualche anno fa, sento bussare alla porta, apro e trovo un israeliano. Mi dice: sono Yonatan, preparate i bagagli perché ho comprato questa casa e dovete andare via al più presto. Rispondo che non è possibile perché questa casa è nostra e che l’ha costruita mio padre. Lui mi mostra dei documenti in lingua ebraica e aggiunge che anche il terreno è suo. Da allora non abbiamo più avuto pace».
I Salem sono una delle 28 famiglie palestinesi di Sheikh Jarrah minacciate di essere buttate fuori con la forza dalle loro case. Perché sono costruite su terreni di cui si proclama proprietaria la Nahalot Shimon, una «società immobiliare» legata alla destra estrema israeliana che ha per missione l’insediamento di coloni a Gerusalemme Est. L’«immobiliare» ha avuto vita facile nei tribunali perché la giustizia israeliana – ossia di uno Stato occupante a Gerusalemme Est come sancisce il diritto internazionale – ha riconosciuto che la terra di Sheikh Jarrah fu acquistata dalle comunità ebraiche nel 1875. Dopo la guerra arabo-israeliana del 1948 fu presa dalle autorità giordane che la destinarono a famiglie palestinesi profughe che si erano viste confiscare le loro proprietà dalle autorità nel neonato Stato ebraico. Su di essa le Nazioni unite costruirono decine di abitazioni. Non quella dei Salem che fu costruita dal padre di Fatima. Negli anni ’80 un accordo temporaneo assegnò alle famiglie palestinesi lo status di «residenti protetti» che, sempre secondo i giudici israeliani, avrebbero poi perduto «per non aver pagato l’affitto ai proprietari ebrei».
Hagit Ofran di Peace Now chiarisce con poche parole l’ingiustizia che si è abbattuta sui Salem e le altre 27 famiglie palestinesi. «Nello stesso modo in cui gli israeliani non vogliono che i palestinesi chiedano i loro diritti a centinaia di migliaia di israeliani che vivono nelle case che prima del 1948 erano arabe a Katamon, Talbiye, Giaffa o Haifa, i coloni non devono costringere i palestinesi a lasciare Sheikh Jarrah e Silwan». Un punto di vista che non interessa in alcun modo ai coloni. Secondo Elyashiv Kemhi di Nahalat Shimon, quella in corso è una battaglia legale e contro il «terrorismo». «I terroristi hanno cercato più volte di dare fuoco a una casa con dentro un ebreo e la sua famiglia solo perché sono ebrei» ha protestato qualche giorno fa reclamando l’invio a Sheikh Jarrah di ingenti forze di sicurezza. La casa presa di mira nei giorni scorsi con il lancio di una o più molotov è quella in cui vive il colono Tal Yoshvayev – che «non ha tempo» per rispondere alle domande dei giornalisti – ed è accanto a quella dei Salem. Poi è arrivato Itamar Ben Gvir, con la sua schiera di militanti di destra, per dare vita sotto una tenda al suo «ufficio» di avvocato e deputato a cinque-sei metri dall’ingresso della casa dei Salem. Da allora è un ripetersi di proteste, scontri, raduni, pestaggi, cariche della polizia. Ed è solo una questione di tempo prima che Sheikh Jarrah riesploda come dieci mesi fa.
Fatima ci accompagna all’uscita e ricomincia a mettere in ordine. «Cosa sarà di noi, dove andremo se ci butteranno fuori? Non abbiamo nulla, solo questa casa», ci domanda salutandoci. Lo sgombero, il mese scorso, da parte della polizia, della famiglia Salhiye, nella parte più alta di Sheikh Jarrah, ha convinto i Salem che in qualsiasi momento saranno cacciati via. A fine dicembre era stato il vicesindaco di Gerusalemme Aryeh King a consegnargli di persona l’ordine di sfratto. La polizia chiese un rinvio, per ragioni di ordine pubblico. Ora, si dice, i Salem verranno sgomberati nel giro di un mese. Tuttavia, le pressioni internazionali e l’avvicinarsi del Ramadan potrebbero spingere le autorità israeliane a posticipare il provvedimento. «Sheikh Jarrah è la nostra terra. Le loro decisioni non ci riguardano, resteremo qui, assieme ai Salem», ci dice Abu AlHoms, attivista di Gerusalemme Est. Sopraggiunge un’auto con le insegne di Lehava (Fiamma), una organizzazione dell’estrema destra. Il suo leader, Bentzi Gopstein, rinviato a giudizio nel 2019 per violenze e proclami razzisti, è venuto a portare solidarietà a Ben Gvir.
GERUSALEMME 20.2.2022
Non uno Stato ma un casinò per i palestinesi
Territori occupati. Secondo le indiscrezioni riferite dalla tv Canale 12, l'esercito israeliano e l'Anp, bisognosa di fondi, stanno valutando seriamente la possibilità di riaprire l'Oasis di Gerico, un tempo meta di migliaia di israeliani e chiuso dal 2000.
Non avrà sovranità reale l’«entità» palestinese, non uno Stato, che forse sorgerà un giorno in porzioni di Cisgiordania, almeno nell’idea che il ministro della difesa israeliano Gantz ha enunciato l’altro giorno alla conferenza di Monaco. Quell’«entità» palestinese – aggiungiamo noi – sarà un insieme di piccoli cantoni e probabilmente ospiterà un casinò al quale potranno accedere solo gli israeliani e gli stranieri. I palestinesi hanno già un casinò, l’Oasis, all’ingresso di Gerico, nella Valle del Giordano. Ma è chiuso dalla fine del 2000. Ed è a quello che si è riferito nei giorni scorsi Nir Dvory, corrispondente per gli affari militari della tv israeliana Canale 12, quando ha rivelato che sono in corso delle «ricognizioni», con l’ingresso di gruppi di turisti israeliani a Gerico in coordinamento con l’esercito e i servizi di sicurezza dell’Autorità nazionale palestinese (Anp). Al termine dei «test», l’intelligence militare valuterà se permettere agli israeliani di entrare a Gerico e di tornare a giocare nel Casinò dopo 22 anni.
Perché proprio ora si torna a parlare di quel casinò? La ragione è semplice. All’Anp con le casse vuote servono disperatamente fondi. Inoltre, in linea con la «pace economica» (in sostituzione di quella politica) con i palestinesi che ispira il governo di Natfali Bennett, l’Oasis è una soluzione che soddisfa chi vuole far cassa e chi vuole giocare. Nello Stato ebraico il gioco d’azzardo è vietato ma gli israeliani amano roulette, blackjack, chemin de fer e slot machine e a Gerico potrebbero alimentare a pochi chilometri da casa una passione che ora possono sfogare solo all’estero. «Il casinò di Gerico è amato dagli israeliani – ha spiegato Nir Dvory nel suo servizio – gli apparati di sicurezza tuttavia esitano. L’Anp però fa molte pressioni per riaprirlo perché garantisce un sacco di soldi». Le autorità palestinesi tacciono sull’indiscrezione giunta da Israele. In ogni caso la voce a Ramallah gira da tempo e qualcosa di concreto deve esserci.
L’Oasis, con un pizzico di Las Vegas e una spruzzata di Abu Dhabi, aprì nel 1998 grazie al primo grande investimento privato internazionale (50 milioni di dollari) nella Cisgiordania palestinese sotto occupazione. E dal 1998 al 2000 generò ingenti introiti – si parlò di incassi per quasi due milioni di dollari al giorno –, a vantaggio della società Casinò Austria che lo gestiva, dell’Anp e di una serie di personaggi, palestinesi e israeliani, interessati ad accumulare ricchezze approfittando delle illusioni create di fallimentari Accordi di Oslo firmati da Israele e Olp nel 1993 e sfociati sette anni dopo nella seconda Intifada. Tra i nomi più chiacchierati legati alla storia dell’Oasis ci sono quelli di Mohammed Dahlan, allora capo della sicurezza preventiva e ora reietto della politica palestinese, di Mohammed Rashid (noto anche come Khaled Salam) «architetto» delle finanze occulte dell’Anp; e un «uomo d’affari» israeliano di origine irachena, Ovadia Koko il cui ruolo nel casinò non è mai stato chiarito del tutto.
Dovesse riaprire, l’Oasis avrà ancora di fronte un misero campo profughi palestinese abitato da 25mila rifugiati. E dovrà fare i conti con Gerico dove la popolazione, oggi come allora, disapprova il gioco d’azzardo per motivi religiosi e che non riceverà alcun beneficio economico dalla presenza del casinò. Come nel 1998 migliaia di israeliani desiderosi di puntare al tavolo verde arriveranno in autobus, giocheranno e torneranno a casa senza entrare nella città palestinese.
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