Immigrazione e trasformazione sociale dell'Europa: una svolta epocale e le sue prospettive

 

Immigrazione e trasformazione sociale dell'Europa:

una svolta epocale e le sue prospettive

 

Pietro Basso, Università di Venezia, pbasso@unive.it

Fabio Perocco, Università di Venezia, fabio.perocco@unive.it

 

- Resumo:

- Resumen:

- Abstract:

 

- Palavras-chave: imigração, Europa, transformações sociais, racismo

- Palabras-clave: inmigración, Europa, transformaciones sociales, racismo.

- Key-words: immigration, Europe, social transformations, racism.

 

 

 

1. Un cambio d’epoca

L’Europa è stata per secoli un continente di emigranti. O meglio: di coloni e di emigranti. Non è il caso, infatti, di sovrapporre i due fenomeni. Le imprese coloniali, con protagonisti di primo rango Spagna, Portogallo, Olanda, Gran Bretagna e Francia, hanno portato ai quattro angoli del mondo torme di capitani di ventura, soldati, cadetti delle famiglie nobili, mercanti e una certa quantità di personale di servizio al seguito. Ma a partire dal XVIII secolo prende corpo, anzitutto dall’Irlanda, un movimento migratorio di massa dalle caratteristiche molto differenti. A seguito delle trasformazioni economico-sociali in atto nelle campagne e ai nascenti processi di industrializzazione, l’emigrazione dall’Europa assume i tratti di “una fuga di massa” da miseria e disoccupazione. L’emigrazione al di là dell’Oceano è spesso una “mera questione di sopravvivenza”, come quando, a metà dell’800, una devastante carestia obbliga all’esodo un milione di irlandesi (Sassen, 1999, p. 42). Nello stesso torno di anni prende avvio dalla Germania una massiccia emigrazione transoceanica provocata dalle continue guerre e dalla fame, composta per lo più da contadini poveri. E non è seconda a nessun’altra per la sua ampiezza l’emigrazione dall’Italia, che tra il 1876 e il 1988 ha portato verso i più disparati angoli del mondo quasi 27 milioni di lavoratori italiani (Golini – Amato, 2001, p. 48) – una popolazione superiore a quella che aveva l’Italia al momento della sua formazione come stato unitario. Per farsi un’idea dell’imponenza dell’emigrazione europea nei secoli passati, basterà dire che al 2013 la popolazione degli Stati Uniti risultava così composta quanto ad ascendenze “etniche”, cioè nazionali: 49 milioni di individui avevano ascendenza germanica, 35 milioni irlandese, 27 milioni inglese, 17 milioni italiana, circa 10 milioni polacca, altrettanti francese, più di 5 scozzese e scozzese-irlandese[i].

Bene. L’epoca delle grandi emigrazioni dai paesi dell’Europa occidentale è finita. È finita, grosso modo, alla metà del Novecento (con una coda rilevante ancora negli anni ‘60), quando l’Europa occidentale si è trasformata in una grande area continentale di immigrazione, intra-europea ed extra-europea. Certo, le migrazioni intra-europee erano state significative già dalla fine del XVII secolo, e (a prescindere dal traffico degli schiavi) un’immigrazione extra-europea era presente in Europa occidentale già dagli inizi dell’800. Ma ciò che è accaduto negli ultimi settant’anni non ha precedenti nella storia dell’Europa moderna. Nel 1950 nell’Europa occidentale gli immigrati di origine straniera (persone con nazionalità diversa dal paese di soggiorno) erano appena 4 milioni; nel 1971 erano diventati circa 11 milioni, nel 1982 circa 15 milioni, nel 1995 circa 20 milioni. A cui vanno aggiunti gli immigrati naturalizzati e i loro discendenti che, una volta ottenuta la cittadinanza, scompaiono dalle statistiche sugli stranieri, e in paesi come la Francia o la Gran Bretagna sono così numerosi da superare il numero degli stessi stranieri (Bade, 2001, p. 328). Al 2018 i residenti in un paese dell’UE-28 con cittadinanza di un paese non-UE erano 22,3 milioni (il 4.4% della popolazione UE-28)[ii], mentre erano 17,6 milioni i residenti in un paese dell’UE-28 con cittadinanza di un altro paese membro. Ancora più eclatante è il dato che fa riferimento al paese di nascita: nel 2018 nell’UE-28 c’erano 38,2 milioni di residenti nati al di fuori di un paese membro e 21,8 milioni di residenti nati in un paese membro diverso da quello in cui risiedono. In pratica quasi 60 milioni di non-nazionali. Nel paese-chiave dell’Unione europea, la Germania, ha oggi uno sfondo migratorio (Migrationshintergrund) il 25% della popolazione!

Questi numeri fotografano l'enorme processo di trasformazione demografica, sociale, culturale avvenuto negli scorsi decenni. Che appare tanto più radicale se si considera che appena ottant’anni fa una larga parte dell’Europa occidentale era stata conquistata dal programma, demente e criminale ad un tempo, di “bonificare” i popoli europei-ariani dalla contaminazione con le “razze inferiori” e con gli ebrei, e quindi dalla loro presenza sul suolo europeo.

 

2. L’immigrazione nel dopoguerra (1945-1975) tra temporaneità e stabilizzazione

Con tutti i limiti propri delle periodizzazioni, suddividiamo l’arco temporale di questa grande trasformazione in tre fasi: la prima va dal secondo dopoguerra alla metà degli anni ‘70; la seconda dalla fine degli anni ‘70 alla grande crisi del 2008; la terza copre l’ultimo decennio.

La prima fase è contrassegnata dalla tensione tra temporaneità delle migrazioni (voluta dagli stati e dal sistema delle imprese) e loro permanenza/stabilizzazione (ambìta dalle popolazioni immigrate). Ai rapporti di forza tra queste due spinte sono legate la possibilità, il ritmo e le modalità dei processi di radicamento sociale delle popolazioni immigrate[iii].

Nell’immediato dopoguerra, al termine di un orrendo massacro (oltre 40 milioni di morti sul suolo del continente) e di inaudite distruzioni, i paesi industrializzati dell’Europa centrale, occidentale e settentrionale soffrono, oltre che di una grave penuria di capitali, anche di una grossa carenza di manodopera. Entrambi i fattori influenzano negativamente la ricostruzione e, più in generale, il processo di accumulazione. Alla penuria di capitali supplisce, in larga parte, il piano Marshall. Per fronteggiare la carenza di manodopera, invece, Germania, Gran Bretagna, Francia, Belgio, Svizzera – concentrati sull’industrializzazione interna – fanno ricorso al reclutamento di manodopera nei paesi limitrofi del Sud-Europa, dotati ancora di un’abbondante popolazione addetta all’agricoltura. Negli anni ’50 e ’60 l’Italia è la prima area di partenza, affiancata da Spagna, Portogallo, Grecia e Jugoslavia. I lavoratori italiani, spagnoli, portoghesi, greci, jugoslavi sono reclutati in buona parte nell’ambito di accordi bilaterali tra stati di emigrazione e stati di immigrazione[iv]. Nei primi anni ’70 il movimento intraeuropeo Sud-Nord raggiunge un saldo migratorio di ben 15 milioni di individui (Bade, 2001, p. 342), ma dalla fine degli anni ‘70 diminuisce notevolmente, pur senza scomparire del tutto[v]. Negli anni ’60 e ’70 funzionano da riserva di forza-lavoro per l’area centrale e trainante dell’economia europea anche i paesi extra-europei con cui esistono legami risalenti al colonialismo storico: negli anni ’60 Algeria, India, Pakistan e Caraibi, negli anni ’70 Turchia, Marocco e Tunisia.  

Oltre alle migrazioni da lavoro, questa prima fase è interessata anche da altre due importanti dinamiche migratorie, che contribuiscono a incrementare l’eterogeneità delle popolazioni, delle provenienze nazionali, delle figure e reti sociali. Da un lato i movimenti di profughi e di rifugiati che hanno luogo alla fine della guerra, con lo spostamento di milioni di persone da un paese all’altro[vi]. Dall’altro lato le migrazioni euro-coloniali e “post-coloniali”, con il rientro in patria dei coloni europei e del personale amministrativo e militare di occupazione, nonché la migrazione di truppe ausiliarie e dei gruppi di popolazione locale che si erano posti al servizio delle potenze coloniali: «Nel periodo 1940-75, dalle colonie arrivarono in Europa circa 7 milioni di persone di origine europea (…). Le stime sulle migrazioni di ritorno e sulle immigrazioni dai territori coloniali d’Europa provocate dal processo di decolonizzazione oscillano tra i 5,5 e gli 8,5 milioni» (Bade, 2001, p. 335)[vii].

I caratteri dell’immigrazione di questa prima fase sono legati ai caratteri del contesto d’arrivo, ed anzitutto al “modello” economico-sociale dominante dell’epoca, comunemente definito fordista, con la centralità della grande fabbrica nel processo di sviluppo dell’industria e del mercato interno. Vi corrisponde, nelle classi lavoratrici, la centralità della figura dell’operaio-massa delle grandi fabbriche, costretto a sopportare pesanti carichi e orari di lavoro, ma in qualche misura protetto da nuove garanzie salariali e sindacali, e dai contratti nazionali di lavoro.

Almeno fino alla prima metà degli anni ‘60 in ciascun paese centro-europeo di immigrazione ci sono una o, al massimo, due-tre nazionalità straniere chiaramente maggioritarie. I lavoratori immigrati sono nella loro quasi totalità maschi, giovani, spesso celibi. Di solito di origine rurale, poco o nulla istruiti, impiegati in prevalenza come manovali e operai comuni nell’industria metallurgica, metalmeccanica, automobilistica, o nelle miniere. I loro contratti di lavoro, anche quando sono temporanei, godono nei fatti di una relativa stabilità perché beneficiano di una lunga congiuntura economica di forte crescita e bassa disoccupazione (i “trenta gloriosi” anni 1945-1975). I governi e il sistema delle imprese li rappresentano alle rispettive opinioni pubbliche alla stregua di lavoratori temporanei, Gastarbeiter, uccelli di passaggio, che andranno via docilmente quando non ci sarà più bisogno di loro. Sennonché molti di questi lavoratori immigrati, specie quelli provenienti dai paesi più lontani, puntano a stabilizzarsi. Ed è così che nel corso del tempo l’immigrazione da lavoro si trasforma in tanti casi in immigrazione familiare – “immigrazione da popolamento” la chiama Sayad (1999). Per questa ed altre vie le presenze temporanee e le migrazioni circolari si convertono in immigrazione definitiva.

Questo passaggio implica sia la trasformazione degli immigrati che una profonda e inaspettata trasformazione dei paesi di arrivo. Mutano la struttura demografica dell’Europa centro-occidentale e il paesaggio quotidiano urbano, sociale, culturale, religioso. La spinta alla stabilizzazione e al radicamento è così forte che neanche la crisi del 1973, le politiche di stop all’immigrazione, le politiche di rientro volontario e le espulsioni degli immigrati riescono ad invertire la tendenza. In questo modo il  radicamento sociale diventa, da effetto, causa e concausa di un’ulteriore stabilizzazione degli immigrati “di passaggio”, e potente fattore di trasformazione delle società di arrivo.

Nonostante ciò, gli stati dell’Europa occidentale continuano a negare “ostinatamente di essere [diventati] paesi di immigrazione” (Sassen, 1999, p. 16). Una simile negazione dell’evidenza, solo in apparenza irrazionale, serve ad influenzare la direzione e la velocità del cambiamento, e ad ostacolare lo scambio umano su basi paritarie e la solidarietà tra autoctoni e immigrati. L’immigrazione di manodopera straniera è ammessa, perfino incentivata, solo nella misura in cui è strettamente necessaria ai bisogni della produzione nazionale. Le politiche migratorie “di apertura” contengono un’apertura pressoché a senso unico nei confronti delle esigenze del mercato del lavoro – alla massa dei lavoratori immigrati sono imposte, invece, condizioni di vita e di lavoro molto dure. L'accesso da parte loro ai diritti sindacali e sociali acquisiti dai lavoratori autoctoni, è il frutto solo di aspre lotte, ed è quasi sempre parziale e provvisorio – come testimonia nel suo bel Memoriale Mario D’Andrea, emigrato italiano in Germania (Carchedi, Pugliese, 2006, pp. 223-243).

All’immigrazione da lavoro è assegnata la duplice funzione di manodopera a buon prezzo per contenere la crescita dei salari e di ammortizzatore sociale delle crisi cicliche dell’economia capitalistica. La gran parte degli immigrati è destinata a formare lo strato più basso della classe lavoratrice, talvolta anche a ridosso del sotto-proletariato. Nonostante l’impetuosa crescita dei settori economici trainanti in cui tanti lavoratori di origini straniere sono occupati, il loro inserimento sociale è comunque all’insegna della subalternità e dell’inferiorizzazione. In tutti i paesi di arrivo, pur se in forme diversificate, il razzismo istituzionale ordinario fissa queste disuguaglianze sociali. Ne deriva la razzializzazione della condizione di classe degli immigrati, con la formazione di frazioni di classe operaia “etnicamente” connotate e di “minoranze etniche” marginalizzate. Quali che siano le altisonanti filosofie dell’integrazione sbandierate nelle sedi istituzionali, l’esperienza concreta degli immigrati è segnata in generale da una catena di discriminazioni e prassi razziste. Emblematica è a questo proposito l’esperienza tedesca: “Parlando di un secolo di politica migratoria della Germania, il paese europeo che più di ogni altro, forse, ha beneficiato dell’apporto del lavoro immigrato, Kammerer mette in luce anzitutto un vero e proprio paradosso basilare: il rifiuto, durato ben 120 anni!, delle autorità tedesche di riconoscere che la Germania è un paese di immigrazione; il che equivale ad un disconoscimento pubblico altrettanto prolungato del ruolo svolto dalle popolazioni immigrate nella ricostruzione e nella prosperità di tale paese. Il rifiuto è caduto, ufficialmente, solo all’alba dell’anno 2000, con il varo della nuova legge tedesca sulla cittadinanza che apre varchi molto più ampi alla “naturalizzazione” degli immigrati residenti da tempo in Germania e soprattutto a quella dei loro figli. Ma se si eccettua tale (parziale e contrastata) svolta, in questa materia la politica dello stato tedesco presenta una forte continuità, che attraversa senza grossi cambiamenti i Reich e le repubbliche, il nazismo e le democrazie. Ecco le sue costanti: lo sforzo di mettere a disposizione delle imprese, nelle quantità richieste dal corso delle congiunture economiche, degli immigrati “a tempo”, ospiti temporanei del paese, senza famiglia, senza legami sociali e senza alcuna pretesa di mettervi radici; la creazione di un sistema speciale di controlli su di essi, volto ad assicurare la loro speciale, si direbbe oggi, flessibilità e produttività; l’istituzione di una gerarchia nazional-razziale nel mercato del lavoro con i salariati tedeschi sovraordinati a quelli non tedeschi, e questi ultimi suddivisi, a loro volta, in posizioni e categorie differenziate” (Basso, Perocco, 2003, pp. 28-29).

Né si tratta della sola Germania. Al di là delle specificità legate al profilo costituzionale degli stati e alla loro storia coloniale, le politiche migratorie dei paesi europei di questa prima fase sono tutte contrassegnate da uno smaccato utilitarismo migratorio (Morice, 2002). Sono politiche di utilizzo e di controllo del lavoro immigrato dall’estero subordinate agli input del mercato del lavoro; politiche contro i lavoratori immigrati, accomunate da un bilancio decisamente negativo se le si misura con il metro della condizione sociale delle popolazioni immigrate. Della Germania abbiamo detto. La Francia si segnala per la sua pretesa e, in certa misura, per il suo vanto di voler e saper assimilare le masse degli immigrati, mostrandosi fedele ai precetti “universalistici” del suo credo nei diritti dell’uomo. A sua volta la Gran Bretagna, anch’essa disposta a concedere graziosamente la cittadinanza alle genti provenienti dalle ex-colonie del proprio ex-impero, incluse quelle di pelle nera o bruna, si picca di rispettare i diritti delle “ethnic minorities” presenti sul suo territorio. In questa differenziazione dei “modelli”, quello tedesco appare il più duro e inospitale, il francese e l’inglese quelli più capaci di produrre integrazione, sia pur sotto forma di assimilazione alla cultura e alla nazione francese con la separazione definitiva dalla cultura e dalla nazionalità di nascita, o di integrazione subordinata, ed “etnicamente” connotata, alla super-nazione anglo-sassone, quanto altra mai bianca. Per la Francia e la Gran Bretagna il loro passato di grandi potenze coloniali comportava determinati “obblighi”, specie dopo lo scoppio del moto anti-coloniale tricontinentale, nel tentativo di dimostrare di saper onorare gli impegni presi con i popoli colonizzati.

Sennonché proprio il vigore delle lotte anti-coloniali e la loro concomitanza con il risveglio sociale metropolitano degli “anni del ‘68” misero in luce, specie in Francia e Gran Bretagna, come tra le tante forme di disuguaglianza e di oppressione presenti nei paesi europei, non ultime erano proprio le discriminazioni ai danni delle popolazioni immigrate, sia extra-europee che europee. Risultò evidente che in nessuno dei paesi di immigrazione esisteva una reale e paritaria “integrazione” sociale dei lavoratori immigrati. Infatti, anche in presenza di provvedimenti e processi di integrazione formale, la vita quotidiana restava, per gli stessi “assimilati” o i “nuovi cittadini” di colore, punteggiata di norme speciali e varie forme di razzismo. Dopotutto il “modello tedesco” restava, nella sua crudezza, il meno opaco: con la chiara esclusione di ogni possibilità, per le genti immigrate, di accedere alla cittadinanza. Esso esprimeva senza fronzoli la pretesa comune anche agli imprenditori e ai governi di Francia e Gran Bretagna: avere a propria completa disposizione mere e temporanee braccia da lavoro, a cui riconoscere il minimo necessario per la sopravvivenza, e solo per il periodo del loro soggiorno lavorativo. Una manodopera che si pretendeva fosse docile, silenziosa, non inserita, socialmente isolata, se non invisibile, e disponibile a dare il massimo impegno di lavoro in vista di un rapido ritorno a casa con un gruzzoletto di sudati risparmi.

Mai fare i conti senza l’oste, però! Perché in oggettivo, e spesso cosciente, contrasto con simili politiche di stato, in numero crescente e con crescente determinazione gli operai e i lavoratori immigrati socializzano tra loro e con i lavoratori autoctoni, creano circuiti di resistenza (spesso su base nazionale o sub-nazionale), iniziano a protestare contro le pesanti condizioni di vita e di lavoro, non accettano di subire passivamente la disoccupazione montante negli anni ‘70, si avvicinano ai sindacati, partecipano in prima fila alle lotte del movimento operaio e ai movimenti sociali. Contrariamente alle aspettative dei governi e delle imprese, insomma, escono dall’ombra a cui li si vuole destinare, si inseriscono, mettono radici, scoprono, o in certi casi riscoprono, il calore e la forza della lotta collettiva, della lotta di classe. In Francia, i lavoratori maghrebini – che già avevano fatto sentire la loro voce a Parigi in solidarietà con il movimento algerino di liberazione nazionale – sono impegnati nelle lotte riguardanti la propria condizione di lavoratori stranieri e la condizione operaia generale; partecipano alle mobilitazioni per il diritto alla salute nelle miniere di Penarroya (1971-1977) e per il miglioramento dei salari e delle condizioni di lavoro alla Renault di Boulogne (1973), prendono parte alle lotte contro il razzismo alla Renault di Aulnay (1971) e alla Girosteel di Bourget (1972), organizzano lo sciopero nei foyers Sonacotra (1974-1980) e gli scioperi della fame contro le espulsioni iniziate nel 1972 con l’arrivo della crisi; nel 1973 il Mouvement des travailleurs arabes (MTA) organizza uno sciopero generale dei lavoratori arabi contro il razzismo (Linhart, 1979; Gallissot, 1994; Tripier, 1990; Merckling, 1989).

Anche in Germania la partecipazione dei lavoratori immigrati alle lotte operaie e alla vita del sindacato è importante, soprattutto nel settore dell’automobile. Negli accesi conflitti sindacali della primavera-estate del 1973, “uno dei più memorabili cicli di lotta della storia di classe della Germania occidentale” (Roth, 1976, p. 11), i lavoratori turchi, italiani, jugoslavi e di altre nazionalità dell’immigrazione si segnalano, insieme alle operaie tedesche e immigrate, come avanguardie di lotta. Alla John Deere di Mannheim, alla Hella di Lippstadt e Paderborn, alla Klöckner di Brema, alla Pierburg di Neuss, alla AEG di Gelsenkirchen, alla Opel di Bochum, alla Ford di Colonia e in altre cento fabbriche il loro coraggioso apporto è stato determinante nel rivendicare aumenti salariali eguali per tutti, riduzione della velocità delle linee, maggiori pause, destituzione dei capi più brutali, nel contestare il ricorso al cottimo, gli straordinari, le discriminazioni, nel fronteggiare la repressione padronale e statale, nel dare vita ad organismi autonomi di lotta non compromessi con la pratica della cogestione, come i sindacati ufficiali, purtroppo largamente contaminati dalla xenofobia (Castles, Kosack, 1974; Roth, 1976; Kammerer, 2005)[viii]. L’attiva partecipazione alle lotte operaie di proletari e proletarie immigrati si è data anche in Belgio, Gran Bretagna, Svizzera, ed è un indicatore e un vettore della trasformazione sociale prodotta dall’immigrazione, la testimonianza dei processi di “integrazione dal basso tra lavoratori”. In tutti i paesi dell’Europa occidentale prende corpo, così, un proletariato multinazionale e multirazziale. A suo modo, a fine anni ‘60 - inizio anni ‘70, questa stessa scena si riproduce pure in Italia con un vivissimo protagonismo delle masse di giovani operai immigrati nel triangolo industriale Torino-Milano-Genova: in questo caso si tratta, però, di immigrati interni, provenienti dal Sud dell’Italia, trattati nel Nord dell’Italia da “coreani” o “africani”, da “clandestini del mercato del lavoro nella loro stessa patria” (Alasia, Montaldi, 2010, p. XII).

In nessuno dei paesi europei interessati, queste lotte sono riuscite a realizzare una completa parità sociale, politica e giuridica tra popolazioni e lavoratori immigrati e autoctoni. In nessuno di essi gli immigrati sono arrivati a godere del pieno riconoscimento della cittadinanza sociale in materia di welfare, condizione abitativa, accesso all’istruzione. Ma le lotte di quegli anni hanno lasciato il segno tanto sul piano materiale, con un insegnamento politico basilare: o si avanza tutti insieme, uniti come un’unica “nazionalità operaia” (Alasia, Montaldi, 2010, p. 177), o, se divisi, si arretra tutti insieme, anche se inizialmente i colpi sembrano diretti solo agli immigrati.

 

3. L’era neo-liberista: precarizzazione strutturale, razzismo di Stato, nuove lotte.

Nella seconda fase, che va da metà anni ’70 allo scoppio della crisi del 2008, l’immigrazione verso l’Europa occidentale continua a crescere e a stabilizzarsi. L’allestimento ideologico e operativo della fortezza Europa che ha il suo atto fondativo nell’accordo di Schengen (1985), il varo di legislazioni punitive, la montante propaganda anti-immigrati sono argini che la forza del movimento migratorio in entrata infrange. Per effetto di nuovi arrivi di lavoratori, rifugiati e profughi, dei sempre più numerosi ricongiungimenti famigliari e della riproduzione naturale delle popolazioni immigrate, il mondo dell’immigrazione si allarga di molto, e assume una forte eterogeneità demografica, nazionale, linguistica, culturale. Da semplice, seppur non più silenziosa, presenza, diventa un elemento costituivo, organico, delle società europee. Un solo esempio, emblematico: a metà anni ‘90 su 55 milioni di francesi, circa 18, un terzo!, discendevano da genitori o nonni di provenienza straniera (Bade, 2001, p. 378).

La crisi di metà anni ‘70 comporta per qualche tempo un calo degli arrivi e il rientro di un certo numero di immigrati nei paesi di provenienza. I rientri interessano, però, solo una parte piuttosto limitata degli immigrati, in prevalenza lavoratori italiani e spagnoli, mentre il fattore distanza favorisce la permanenza, pur tra nuove difficoltà, degli immigrati extra-europei. Negli anni ‘90 con la massiccia ripresa delle emigrazioni internazionali a livello globale, tornano ad aumentare anche gli arrivi nei paesi dell’Europa occidentale. Nel successivo decennio questo movimento diventa ancora più corposo. In vent’anni l’immigrazione cresce in misura notevole, tanto nei numeri che nelle provenienze[ix]: nel 1985 nell’UE-15 la popolazione straniera ammonta a 13,1 milioni (Caritas, 2000, p. 55); nel 1995 sale a 18,1 milioni (Caritas, 1998, p. 41); nel 2009 nell’UE-27 arriva a 31,6 milioni (Caritas, 2014, p. 61). Si tratta ora, in prevalenza, di un’immigrazione extra-europea con una forte componente africana e asiatica. Nel contempo, a partire dai primi anni ’90, diventa particolarmente sostenuto l’afflusso di immigrate e immigrati dall’Europa dell’est (Council of Europe, 1992).

Il movimento immigratorio interessa ora tutta l’Europa occidentale, compresi i paesi mediterranei (Italia, Spagna, Portogallo, Grecia). Si presenta fortemente plurinazionale, poli-orientata, a ventaglio, nell’ambito di un moto globale di masse che si spostano dalle “periferie” verso i paesi “centrali” dell’economia mondiale. Saltano le vecchie direttrici dei precedenti movimenti migratori basate in prevalenza su rapporti storici, culturali, affinità linguistiche, consolidate catene migratorie. Inoltre, dalla fine degli anni ’80 giungono nell’Europa occidentale lavoratori, minoranze, sfollati e profughi dell’Europa orientale e sud-orientale (tra essi migliaia di rom), incrementando la sedimentazione e la stratificazione delle popolazioni immigrate. Cresce la loro eterogeneità demografica e sociale in termini di età, provenienza territoriale, classe sociale, livello di istruzione. È una sorta di traslazione sociale in piccolo. Per una molteplicità di cause strutturali che non possiamo qui approfondire[x], dagli anni ’90 in avanti dai paesi di emigrazione partono un po’ tutti: minori e giovani-adulti; adulti e anziani (ricongiungimento degli ascendenti); popolazioni di provenienza sia urbana che rurale; persone con scarsa istruzione così come diplomati e laureati; individui appartenenti al sotto-proletariato, alla classe operaia, ai ceti medi. Avviene, inoltre, una frammentazione e  individualizzazione dei percorsi e dei progetti migratori.

Queste nuove migrazioni hanno luogo in un contesto globale segnato dalla  mondializzazione dei rapporti sociali capitalistici ad una scala mai prima raggiunta. Arriva così a compimento il processo plurisecolare di formazione del mercato mondiale del lavoro, di cui le migrazioni globali degli ultimi decenni sono parte integrante. La profonda ristrutturazione sociale che ne è derivata ha coinvolto in modi e gradi diversi le economie, gli apparati produttivi, l’organizzazione e il mercato del lavoro, le strutture statuali, gli ordinamenti giuridici, i diritti sociali, e naturalmente le stesse condizioni della migrazione. Questa ristrutturazione sociale, a cui si accompagna una diffusione massiccia dell’ideologia neo-liberista, avviene all’insegna della svalorizzazione generale della forza-lavoro come leva per la ripresa di una accumulazione di capitale divenuta asfittica. In un quadro contraddistinto dalla frammentazione delle unità produttive e dalle delocalizzazioni, dall’espansione dell’economia sommersa, dai processi di terziarizzazione, dalla destrutturazione del diritto del lavoro, dall’indebolimento dei sindacati, dallo smantellamento e privatizzazione del welfare, il sistema delle imprese trova molto vantaggioso fare ricorso alle lavoratrici e ai lavoratori immigrati in quanto manodopera a basso costo, iper-flessibile, con diritti dimezzati, o – in caso di forzata irregolarità – azzerati.

In questa seconda fase, quindi, i movimenti migratori diventano più “complessi”. La novità di maggior rilievo, forse, è costituita dalla presenza di donne, forte come non mai nella storia degli ultimi due secoli. Negli anni ’90 e 2000 in vari paesi d’immigrazione si raggiunge un relativo equilibrio demografico tra uomini e donne – in Italia c’è addirittura una leggera prevalenza delle donne. Questo dipende dall’intensificazione dei ricongiungimenti familiari e dal taglio dei tempi della riunificazione familiare, ma almeno altrettanto dal crescente protagonismo delle donne, specie dell’Est europeo e dell’America Latina, nell’aprire le “catene migratorie” o nell’emigrare da sole. Una novità, dovuta essenzialmente alla nuova divisione internazionale del lavoro riproduttivo (Kofman, Raghuram, 2015), che rafforza il processo di insediamento stabile in Europa delle popolazioni immigrate.

Questo imponente e variegato movimento migratorio si è imbattuto in un duplice processo – istituzionalizzato – di precarizzazione e criminalizzazione degli immigrati. Ci riferiamo anzitutto alla radicale precarizzazione della condizione lavorativa, sociale e giuridica degli immigrati neo-arrivati, e di una quota di quelli già residenti, determinata da politiche migratorie crescentemente restrittive e volte a reintrodurre la figura del Gastarbeiter (lavoratore temporaneamente ospite) contrastando il più possibile gli insediamenti definitivi. Ma in un contesto di “capitalismo flessibile”, con alta disoccupazione e mercato del lavoro deregolamentato, subordinare il permesso di soggiorno ad un regolare contratto di lavoro a tempo indeterminato (sempre più difficile da ottenere per gli stessi autoctoni) può significare una sola cosa: la crescita forzata degli “irregolari” e del rischio di diventare tali. La legge italiana sull’immigrazione n. 189/2002 (nota come Bossi-Fini) ha fatto da apripista in tale direzione ad analoghe normative adottate in successione da altri paesi europei, che spesso vincolano i diritti sociali (stratificandoli) allo status migratorio (Perocco, 2012; Morris, 2002; Schierup et al. 2006).

La precarizzazione strutturale coinvolge, dicevamo, sia le popolazioni immigrate residenti sia i nuovi immigrati in entrata. Le prime vedono accentuarsi i meccanismi di discriminazione fino a forme di vera e propria esclusione; i secondi incontrano procedure selettive e restrittive di ingresso e di inserimento sempre più rigidi. La precarietà delle condizioni di esistenza degli immigrati è fenomeno permanente nella storia europea, ma dall’inizio degli anni 2000 si è inasprita oltre ogni dire. Le imprese esigono in tutti i paesi, e specialmente in quelli a più bassa produttività del lavoro, lavoratori flessibili, poco radicati, just in time, usa-e-getta, da utilizzare in base alle necessità immediate della produzione e al bizzarro andamento dei cicli economici.

L’interazione tra precarietà lavorativa e precarietà giuridica peggiora la condizione di molti immigrati che sono presi in mezzo tra la “flessibilità” prodotta dalle nuove legislazioni sul lavoro e la rigidità delle normative sull’immigrazione. Mentre negli anni ’60 e ’70 c’era stato un inserimento lavorativo relativamente stabile favorito da un quadro di forte crescita economica, nei decenni successivi questo inserimento è diventato molto più incerto, in connessione con un andamento dell’economia assai meno effervescente. Ne è nata un’area di lavoro istituzionalmente vulnerabile, un’underclass di lavoratori fortemente ricattabili, di cui è parte integrante la produzione in massa di immigrati “clandestini” che sono, dopotutto, il prototipo del lavoratore precario. Sulla pelle di questo strato infimo della classe lavoratrice vengono sperimentate nuove forme di estrema spremitura del lavoro: in Germania, si moltiplicano lavori pagati anche meno di 2 euro l’ora; in Italia, è normale che nei campi o negli ortomercati si lavori per salari orari da 2-3 euro. Ancora una volta alle donne, alle lavoratrici di cura (in Italia sono quasi un milione), tocca in sorte il peggio: il lavoro 24h su 24 di cura degli anziani non autosufficienti. È una sorta di delocalizzazione in loco di settori e attività che non è possibile delocalizzare (edilizia, agricoltura, cura delle persone, etc.). Tutto ciò rientra in un più generale processo di precarizzazione strutturale del lavoro (Antunes, 2013), che coinvolge in modo sempre più largo anche i lavoratori autoctoni e provoca in loro un disagio, un’insicurezza esistenziale, un malessere diffuso che i partiti “populisti” e razzistoidi fanno di tutto per scagliare contro gli immigrati.

Nell’era neo-liberista il mercato del lavoro euro-occidentale presenta una sempre più netta gerarchizzazione razziale. Il lavoro degli immigrati è canalizzato in alcuni settori e in alcune mansioni, in particolare nel mercato del lavoro secondario, ed è sovra-rappresentato nei comparti caratterizzati da irregolarità, precarietà, bassi salari, alto rischio infortunistico, mansioni pesanti a bassa qualifica. Si accentuano le funzioni storicamente assegnate all’immigrazione di esercito di riserva (con una riserva della riserva: i “clandestini”) e di ammortizzatore sociale della crisi (Castles, 2000; Schierup C.-U. et al., 2015). Si accentua la differenziazione interna della condizione giuridico-amministrativa degli immigrati, in conseguenza della differenziazione dei diritti e degli status attribuiti agli immigrati sulla base delle diverse tipologie di permesso di soggiorno e di contratto di lavoro esistenti nei vari paesi. Si estendono le aree di impoverimento e di marginalità sociale: politiche d’inclusione differenziata secondo criteri nazional-razziali (le nazionalità “buone” opposte a quelle “indesiderate”), politiche locali di esclusione (per esempio esclusione dal diritto all’abitare), restrizioni istituzionali dell'accesso al welfare, generano e accumulano disuguaglianze sociali. In quasi tutte le metropoli si formano veri e propri ghetti urbani, simili a quelli statunitensi, abitati in prevalenza o esclusivamente da popolazioni immigrate povere.

L’immigrazione appare ora incentivata dal mercato e disincentivata dalle istituzioni. Si tratta  in larga misura di un gioco delle parti tra mercato e stato che comporta, come risultato, un incremento della spremitura e dello schiacciamento della gran parte dei lavoratori immigrati. La convergenza delle politiche migratorie in senso restrittivo e repressivo, che inizia nella seconda metà degli anni ‘70 e interessa l’Unione europea e gran parte degli stati europei, mette capo alla declassificazione dell’immigrazione, da questione di lavoro, a questione essenzialmente di ordine pubblico. I suoi capisaldi sono la chiusura ufficiale delle frontiere in nome del contrasto all’“immigrazione clandestina” e la gestione selettiva, eugenetica, razzista dei nuovi ingressi. Il vero obiettivo di una simile politica non è il blocco totale dell’immigrazione, né la chiusura ermetica delle frontiere, quanto il peggioramento delle condizioni della migrazione (in termini di ingresso e di soggiorno). Gli effetti sono, da un lato, le montagne di morti in mare e nei deserti africani, dall’altro il drastico abbassamento preventivo del valore della forza lavoro in entrata, e la pretesa di ammettere solo immigrati dotati di specifiche e alte specializzazioni.

Ci sia consentita un’auto-citazione riassuntiva: “da quando si è esaurito il ciclo di sviluppo postbellico (1945-1973), il tasso di accumulazione del capitale è rimasto, nel complesso, ansimante; e non potrà risollevarsi senza una massiccia iniezione supplementare di valore che può venire solo da una complessiva svalorizzazione della forza-lavoro alla scala mondiale (…). Al pari degli Stati Uniti e del Giappone, i suoi maggiori concorrenti, anche l’Europa ha, in tutti i settori della sua economia, e non più solo nell’industria, nelle miniere e nei lavori pubblici come nei primi sessant’anni del ‘900, un inesauribile bisogno di manodopera (anche qualificata) a basso costo, ad un costo, cioè, nettamente inferiore a quello medio europeo, iper-flessibile, cioè: iper-precaria, priva dei diritti più elementari, costretta ad accettare ritmi, orari, mansioni di lavoro pesanti e disagiate. E nessuna forza-lavoro quanto quella immigrata risponde, forzatamente, a tali caratteristiche. (…) un certo “discorso pubblico” anti-immigrati è solo in apparenza contrapposto alla sete di lavoro immigrato che hanno le imprese (…) in linea generale la relazione tra i due fattori, imprese e stato, ci pare fondamentalmente funzionale. Alle imprese servono sempre nuovi contingenti di lavoratori immigrati - e nei fatti sempre nuovi immigrati arrivano -, ma perché tale fornitura di manodopera corrisponda in pieno alle loro attese, bisogna che si tratti di una forza-lavoro per quanto è possibile “indifesa”. La criminalizzazione dei migranti fino al punto da stigmatizzare lo stesso fatto del migrare (in sé); la condizione di minorità sociale, giuridica, culturale, psicologica in cui è tenuta in Europa la massa degli immigrati; la moltiplicazione dei divieti e delle restrizioni agli ingressi ed alle permanenze con l’oggettiva moltiplicazione del rischio della “clandestinità”; la forte dipendenza materiale (l’indebitamento di partenza anzitutto) che i processi di ingresso ostacolato comportano per gli immigrati; tutti questi effetti delle politiche punitive degli stati nei confronti dell’immigrazione giovano alle imprese, perché consegnano nelle loro mani una forza-lavoro che, quanto meno per un periodo iniziale (non breve), essendo pressoché priva di validi mezzi di auto-difesa, deve vendersi a condizioni che non può in alcun modo negoziare” (Basso, Perocco, 2003, p. 9-14).

A partire dagli attentati dell’11 settembre 2001, anche in Europa occidentale stigmatizzare e criminalizzare le popolazioni immigrate, specie se a matrice culturale islamica, diventa lo sport preferito dell’industria dei mass media. Serve, e quanto, a legittimare le politiche anti-immigrati (attenti: non anti-immigrazione!) e a dividere la classe-che-vive-di-lavoro. Questa nera stagione è iniziata in Francia negli anni ’80[xi], ma è solo un paio di decenni dopo che sputare sulle popolazioni immigrate è diventato un dovere categorico, se non una vera e propria ossessione, degli “uomini pubblici” e delle femministe di stato.

Negli anni 2000 l’intera Europa è investita da un virulento razzismo istituzionale, principale propellente delle discriminazioni dirette e indirette, istituzionali e spontanee (Basso, 2010). L’ascesa del razzismo di Stato determina per gli immigrati la riduzione dei diritti sociali, aggrava la loro condizione di persone sottoposte ad un diritto speciale, nutre di cibarie avvelenate i sentimenti di ostilità popolare verso le popolazioni immigrate. In questo clima prende corpo un’ingiunzione neo-assimilazionista dai toni duri.

Questo neo-assimilazionismo prevede che le popolazioni immigrate si adattino alle condizioni a cui sono astretti in ambito occupazionale, abitativo, giuridico, etc. Nell’affermare il primato dell’identità nazionale mass-media, uomini di governo, partiti politici, intellettuali richiamano gli immigrati (gli “ospiti”) al dovere di aderire ai “valori” dichiarati fondanti dai singoli stati nazionali (l’identité français, la Britishness e così via), di assimilarsi alla tradizione culturale del paese ospitante – pena il loro isolamento. Sulla scia delle dottrine fiorite nel contesto statunitense (Huntington 2004), il neo-assimilazionismo in salsa europea nega la presenza sociale delle popolazioni immigrate (benché esse siano, sotto ogni profilo, indispensabili), ne disconosce il portato culturale, ordina loro di “stare al proprio posto” e spogliarsi di ogni loro  tratto “identitario” nella speranza dell’integrazione (resa in realtà irraggiungibile). Le carte dei valori, i contratti di accoglienza e di integrazione, i test linguistici e di educazione civica che in questo periodo proliferano, sono tutti dispositivi che prevedono la conformità ai valori e la conoscenza della lingua dei paesi di arrivo come pre-requisito necessario per il permesso di soggiorno e il godimento dei diritti basilari. E sono un monito verso tutti gli immigrati, specialmente i più organizzati e combattivi, affinché si mettano in riga, si dissocino dai propri connazionali, dalle associazioni e gruppi solidali, si separino in fin dei conti da sé stessi, dalle proprie più profonde aspirazioni, e si identifichino con i “valori” inglesi, francesi, italiani, danesi, belgi, europei – che non sono altro, alla fin fine, se non i valori del “libero mercato”. La stagione delle carte dei valori, che è molto intensa tra il 2005 e il 2009, segna il tramonto del multiculturalismo e l’ascesa di un assimilazionismo che implica assimilazione culturale ad una civiltà “superiore” e produce marginalità sociale in una società ultra-polarizzata. Questo processo, inutile dire, va in direzione diametralmente opposta alla vera e piena parità sul piano sociale, politico, giuridico tra autoctoni e immigrati, e alla possibilità di realizzare un incontro tra popoli e individui di diverse nazionalità che sia autenticamente umano.

Nel portare avanti questa politica le autorità europee fanno affidamento anche sugli strati più privilegiati e integrati delle popolazioni immigrate. A cominciare, naturalmente, dai paesi di più antico insediamento, infatti, l’immigrazione produce nel tempo una progressiva divisione delle popolazioni immigrate in classi dagli interessi differenti e anche antagonisti. Sebbene inizialmente gli immigrati appaiano tutti indistintamente candidati a restare “manovali a vita”, con il passare del tempo una loro piccola, ma non irrilevante, parte è riuscita ad avere accesso a posizioni imprenditoriali (in Italia, oggi, ci sono alcune centinaia di migliaia di imprenditori di origine straniera), professionali, politiche, etc. di élite. Oramai non c’è paese europeo, dalla Scandinavia alla Grecia, che non abbia ministri, deputati, scrittori, celebrità dei mass media, ricercatori, imprenditori di successo, di origini immigrate. Ed è anche su questa élite, più o meno assimilata, che fanno leva i circoli dominanti europei per imporre alla massa delle popolazioni immigrate, in particolare ai proletari immigrati, la devozione ai paesi che li hanno “accolti”.

Cosa tutt’altro che facile, però. Perché per la gran parte delle popolazioni immigrate accettare l’ingiunzione assimilazionista significherebbe abiurare alla propria dignità e sottoscrivere lo sfruttamento differenziale e le limitazioni di diritti che le fanno soffrire. Non sorprende, perciò, che abbiano opposto resistenza a questa escalation dell’attacco istituzionale che unisce a una radicale precarizzazione delle vite dei nuovi immigrati (fino a ridurne tanti in “clandestinità”) l’ingiunzione di assimilarsi rivolta anzitutto ai vecchi immigrati. L’intero periodo che va dagli anni ‘80 alla grande crisi del 2008 è punteggiato di lotte dei sans papiers in Francia, in Belgio, in Svizzera, volte ad ottenere la regolarizzazione incondizionata di tutti gli immigrati; di proteste e di rivolte dei richiedenti asilo e dei rifugiati per ottenere il riconoscimento del proprio diritto a restare in Europa e a circolarvi liberamente; di iniziative culturali e politiche di contrapposizione al razzismo e al montante spirito neo-coloniale (come il Parti des indigènes de la Republique in Francia). Per non parlare delle rivolte di massa dei ghetti metropolitani, da Brighton-1981 fino alle banlieues di Parigi nel 2005.

Proprio in Italia, forse, la resistenza è stata in questo periodo tra le più rimarchevoli. Fin dagli anni ‘80, quando gli immigrati erano poche centinaia di migliaia, si sono formati embrionali circuiti di organizzazione centrati soprattutto sulle reti di sostegno e sull’associazionismo che sono confluiti a Roma il 7 ottobre 1989 nella prima manifestazione di massa organizzata sui temi dell’immigrazione – “per i diritti degli immigrati e l’uguaglianza”. Da allora, per oltre quindici anni, c’è stato un crescendo di auto-attività dei lavoratori immigrati e delle popolazioni immigrate passato attraverso le occupazioni di luoghi in cui abitare e organizzarsi, una sindacalizzazione di particolare ampiezza, talora superiore a quella degli italiani, l’associazionismo multinazionale, le lotte per il permesso di soggiorno dell’anno 2000 a Brescia e a Roma, la formazione del Comitato immigrati in Italia, le mobilitazioni e gli scioperi generali provinciali a Vicenza e a Reggio Emilia contro la Bossi-Fini negli anni 2002-2003, la partecipazione attiva, al fianco dei lavoratori italiani, alle proteste in difesa dell’art. 18 (divieto di licenziamento senza giusta causa). Nel mezzo, una serie di risposte parziali, ma significative, al periodico intensificarsi delle campagne razziste di stato iniziate in grande stile nel 1991 contro gli albanesi (rinchiusi a migliaia nello stadio di Bari), all’affondamento nel 1997 della nave albanese Kater i Rades da parte di una corvetta della marina militare italiana, agli attacchi fisici, anche mortali, a singoli immigrati, allo scatenamento delle guerre neo-coloniali all’Iraq e all’Afghanistan, e di Israele ai palestinesi, con il tentativo, compiuto nel 2002 a Berna, di dar vita ad un coordinamento europeo tra  Comitati di immigrati. Un processo, questo, di obbligata politicizzazione che ha toccato l’apice nel dicembre 2004 per poi ripiegare in parallelo con il progressivo azzeramento degli scioperi e delle lotte del proletariato autoctono. A questo insieme di lotte, scioperi, mobilitazioni, che ha coinvolto negli anni, con diversa intensità, molte decine di migliaia di proletari e proletarie immigrati, si è via via affiancata una letteratura dell’immigrazione sempre più vasta ed elaborata e una produzione di pezzi teatrali centrati sulle vicende e i drammi dell’immigrazione. Non sono mancati risultati concreti di rilievo, come la maxi-sanatoria varata proprio contestualmente all’entrata in vigore della Bossi-Fini. Ma al di là di essi, questa resistenza ha avuto il merito di sollevare sulla scena pubblica italiana una serie di questioni della massima importanza: le cause di fondo delle migrazioni internazionali (di cui non si discute mai), le ragioni della “clandestinità” di un certo numero di immigrati, le fonti del razzismo e del sistema delle discriminazioni istituzionali, e il loro uso da parte della classe capitalistica.

Nel contempo in migliaia di posti di lavoro, nelle scuole, nei caseggiati, nella gran parte delle iniziative appena ricordate (in specie nei sindacati e nell’associazionismo) si è creato un intreccio lento, contraddittorio fin che si vuole, ma reale tra autoctoni/e e immigrati/e. Ne è nato anche un tessuto di cooperazione e perfino di fraternizzazione che è un antidoto vivo, forte alla diffusione del razzismo di stato, di mercato e popolare. La particolare aggressività della propaganda razzista si deve anche alla consapevolezza che questa situazione si può, con il tempo, consolidare.

 

4. L’ultimo decennio: tra nuove solidarietà e guerra agli immigrati.

Negli anni successivi alla crisi del 2008 si apre una nuova fase in cui si radicalizzano e confliggono con crescente asprezza le spinte antitetiche presenti nelle fasi precedenti.

Da un lato avanza inesorabile il processo di radicamento sociale degli immigrati, che innerva una fitta rete quotidiana di rapporti, spesso anche amicali e affettivi, tra individui giovani e adulti di tante nazionalità (in una media città italiana come Padova sono presenti oltre 100 nazionalità). Nascono nuove solidarietà, nuovi legami sociali, nuove forme di scambio interculturale e transculturale – qualcosa di inimmaginabile nell’Europa di pochi decenni addietro. Per fare un solo esempio relativo al panorama religioso: negli anni ’50 la presenza degli immigrati musulmani era in Europa di alcune centinaia di migliaia, ora è di circa 20 milioni[xii].

Dall’altro lato non è esagerato affermare che questa terza fase è contraddistinta da una vera e propria guerra agli emigranti e agli immigrati. Tramontata l’era del multiculturalismo, si appanna anche il neo-assimilazionismo, per lasciare il posto a politiche statali di rifiuto e di esclusione. Questa fase, che si può definire “trumpiana” nonostante inizi prima di Trump, è il risultato dell’inasprimento dopo il 2008 di tendenze già operanti nell’epoca neo-liberista. L’Italia funge ancora una volta da apripista – prima con il blocco degli ingressi regolari (attraverso la soppressione di fatto, dopo il 2012, dei decreti-flussi), poi con la circolare 14260/2014 sul lavoro gratuito dei richiedenti asilo, quindi con gli accordi Italia-Libia che fanno nascere una cintura di campi di concentramento e di tortura per emigranti dall’Africa sub-sahariana, il bando delle Ong, e infine, nell’ultimo biennio, con due decreti-sicurezza del governo Lega-Cinquestelle.  

Questa fase è segnata dall’estremizzazione delle politiche neo-liberiste come risposta al tonfo delle ricette neo-liberiste e alla duplice grande crisi capitalistica, sociale e ambientale[xiii], che ha portato con sé il violento inasprimento delle disuguaglianze globali, internazionali e interne (Perocco, 2018). Nell’ambito di tale dinamica si globalizza anche la disuguaglianza razziale legata all’immigrazione, all’essere immigrati in un Paese straniero. Chiaro: non è una novità assoluta degli ultimi tempi. Tuttavia oggi la disuguaglianza razziale legata all’immigrazione si presenta come un fenomeno globale, istituzionale, organico, riguardando l’Europa, gli Stati Uniti, il Giappone, il Medio Oriente, Israele, l’Australia, diversi Paesi dell’America del Sud e dell’Asia, nonché il Sud Africa.

La guerra dell’Europa agli emigranti del Sud del mondo è la guerra contro i poveri dei continenti di colore. Vi partecipano, con modalità differenti, i singoli stati europei, il super-stato Unione Europea, vari organismi sovra-statali o semi-statali – tutti soggetti che nel campo delle politiche migratorie si muovono in subordine alla “dittatura dei mercati”. Attraverso una miriade di regolamenti, protocolli, accordi, circolari, leggi, memorandum e trattati (pubblici e segreti), i paesi europei hanno dato un volto ringhioso all’accordo di Schengen, fissando i tratti e gli strumenti di una politica migratoria effettivamente restrittiva (specie nei confronti degli immigrati “economici”). Il percorso inizia nel 2006 con il Processo di Rabat per arrivare all’odierna chiusura semi-totale attraverso il Processo di Khartoum (2014), gli accordi di Malta (2015), il trattato con la Turchia (2016), il memorandum Italia-Libia (2017) e successivi patti particolari. È una politica caratterizzata da rafforzamento dei confini, militarizzazione delle frontiere europee e loro esternalizzazione in Africa – muri, muri, muri! (Marshall, 2018; Chaichian, 2014) –, creazione di campi di detenzione per emigranti nei paesi di origine o di transito, respingimenti individuali e collettivi in mare e via terra. Il terribile peggioramento del percorso migratorio che ne deriva coincide con la sua consegna di fatto nelle mani della criminalità organizzata. Naufragi di stato, illegalizzazione degli immigrati, privatizzazione del diritto internazionale con il coinvolgimento di soggetti privati nella “governance” dei movimenti migratori (Gjergji, 2016). Un processo smaccatamente autoritario che incide anche sul rapporto tra l’Unione europea, gli stati europei e le rispettive popolazioni autoctone poiché legittima, in generale, trattamenti tipici di relazioni schiavistiche o di sudditanza, e non certo rapporti di cittadinanza.

A questa guerra contro gli emigranti i mass-media danno un contributo enorme. In maniera martellante rappresentano gli emigranti-immigranti come invasori provenienti da mondi retrogradi e malati, locuste voraci del “nostro” welfare, fannulloni dotati dei più bassi istinti animali, importatori di criminalità. In questa guerra di parole - parole che sono più pesanti delle pietre - l’industria mediatica del disprezzo ha coniato una serie di stereotipi inferiorizzanti costruiti ad hoc per stigmatizzare volta a volta gli immigrati arabo-musulmani, cinesi, africani, albanesi, polacchi, romeni, i Rom, le donne immigrate, i sans-papiers, i richiedenti asilo, i profughi, le cosiddette seconde generazioni, gli alunni stranieri, i quartieri ad alta concentrazione di immigrati, legittimando ogni forma di sopruso sugli immigrati. In tal modo generano e fissano un immaginario di estraneità, che alimenta avversione e rifiuto, e incentiva violenze, aggressioni, omicidi. In un contesto del genere non è arduo far diventare la “questione immigrazione” una questione schiettamente militare, di sicurezza nazionale, da affidare alle marine militari e alle polizie di frontiera – a questa impresa provvedono i partiti della destra più aggressiva, che sono stati capaci, a partire dalla Francia del Front National, di dettare l’agenda anche a quelli di centro-sinistra.

Neppure le popolazioni immigrate già residenti in Europa e del tutto in regola con le leggi, restano al di fuori dell’attacco. Un diluvio di leggi, circolari, regolamenti, provvedimenti delle autorità nazionali e locali le sta penalizzando nei più vari ambiti della vita sociale. Le politiche di integrazione restano ad un livello sempre più  simbolico. Nei fatti prevalgono, a livello europeo, dei singoli stati e locale, pratiche di inferiorizzazione, marginalizzazione, esclusione. Il discorso pubblico euro-occidentale sull’immigrazione perde ogni freno nel raffigurare le popolazioni immigrate come una minaccia globale, un pericolo epocale da cui difendersi sotto ogni aspetto: il lavoro, la casa, l’andamento scolastico, il welfare, la vivibilità dei quartieri, la salute pubblica, la sicurezza individuale e nazionale, le comunità locali, il patrimonio genetico, la cultura, l’identità, i valori europei, la civiltà occidentale. Le ricadute di tale discorso si abbattono sull’intero mondo dell’immigrazione, ma anche sull’intera classe lavoratrice perché incitano autoctoni e immigrati alla competizione più sfrenata e alla reciproca ostilità, dividendo le loro forze.

Questa furia anti-immigrati ha l’obiettivo di impedire o rallentare l’ulteriore radicamento delle popolazioni immigrate. Il radicamento sociale rende meno docile e disponibile la forza-lavoro straniera, la fa diventare più coriacea, resistente, “pretenziosa” – è la “pretesa” di veder riconosciuta la propria dignità e il proprio diritto ad un trattamento da esseri umani a tutti gli effetti, non da strumenti animati di lavoro. L’inserimento fa aumentare il valore sociale della forza-lavoro straniera e le aspettative delle lavoratrici e dei lavoratori immigrati. Ed è anche per questo che governi europei ed istituzioni internazionali come il FMI puntano sempre più sulle migrazioni temporanee e circolari (stagionali, a contratto, circolari spontanee e circolari regolate)[xiv], sull’impiego, cioè, di lavoratori temporanei, senza famiglia, con pochi legami con la società di arrivo e scarse conoscenze del territorio, che auto-comprimano i propri bisogni di socialità dando per scontato il carattere provvisorio della loro presenza, ma siano in possesso della risorsa più preziosa (per le imprese e i paesi di “accoglienza”): la disponibilità assoluta della propria capacità di lavoro per un tempo delimitato. In questo sforzo di allargare al massimo le migrazioni circolari e ridurre al massimo quelle definitive, limitandole – se possibile – solo alle persone dotate di alte qualifiche professionali, l’Unione Europea ha un ruolo da protagonista (CE, 2000, 2007). Lo ha pure nel diffondere una falsa narrazione secondo cui le migrazioni circolari sarebbero vantaggiose allo stesso modo per i paesi d’arrivo, i paesi di partenza e gli immigrati[xv], e nel definire nuovi e specifici programmi di mobility partnerships. Sul piano teorico questo processo poggia sul paradigma impalpabile e fluido della mobilità, che viene incaricato di sostituire quello assai più concreto e solido di “immigrazione”[xvi]. Nel suo importante lavoro dedicato a questo tema, Gjergji (2016) sottolinea che la combinazione tra migrazioni circolari e accordi bilaterali implica un “modello migratorio” in cui i lavoratori immigrati – rigorosamente selezionati – si muovono seguendo i ritmi dei cicli di produzione e le fluttuazioni di breve periodo del mercato del lavoro; che le politiche a sostegno delle migrazioni temporanee oltrepassano le tradizionali politiche migratorie dell’Unione Europea e dei paesi europei, e allo stesso tempo integrano le politiche restrittive e repressive degli stati europei istituzionalizzando la precarietà dei lavoratori immigrati e facendo della migrazione temporanea l’unico canale di ingresso regolare.

E la resistenza delle popolazioni immigrate in questa terza, così aspra, fase? e le lotte dei lavoratori immigrati? Una prima forma di oggettiva resistenza, lo si è già detto, è l’accresciuto consolidamento di una massa di immigrate e immigrati che, nonostante il clima di odio, di disprezzo, di guerra che li fa patire, non intendono assolutamente rinunciare al loro “progetto migratorio”. Qualunque vento tiri, “noi restiamo”. Tuttavia, data la violenza e continuità dell’attacco istituzionale e “privato”, è inevitabile che molti/e ripieghino nel riserbo e anche nella paura. Non si può dimenticare che l’Europa occidentale del dopo-2008 è l’Europa di Breivik, il massacratore di Oslo, e della ampia galassia delle piccole formazioni neo-fasciste e neo-naziste che si sono date gli immigrati come primo bersaglio, anche fisico, da colpire. È l’Europa dell’ascesa politica del Front National in Francia, della Lega in Italia, dell’Ukip in Gran Bretagna, di Jobbik in Ungheria, di Alba Dorata in Grecia, dell’Fpö che fu di Haider in Austria, di Pegida e dell’AFD in Germania, dei Veri finlandesi, del Partito del progresso norvegese (la balia di Breivik), dell’islamofobìa più virulenta. In un ambiente così mefitico, e davanti ad un arretramento generale (in Europa) del movimento dei lavoratori, piccoli gruppi di giovani cospiratori con ascendenza straniera hanno ritenuto, sbagliandosi radicalmente, di potersi sostituire alla passività delle masse con gli attentati di matrice jahdista. Tolosa, Bruxelles, Parigi (tre volte nel 2015), ancora Bruxelles, Nizza, Berlino, Londra, Stoccolma, Manchester... – una sequenza di attentati, talora molto sanguinosi, che sono spesso motivati come risposta organizzata dell’Isis alle vecchie potenze coloniali. Ma se si guarda ai loro autori, si scopre che il loro retroterra è quasi sempre costituito dai processi di marginalizzazione, ghettizzazione, esclusione sociale e dalla feroce islamofobia di stato di cui si è detto (Basso, 2016, 185 ss., 295 ss.).

Assai meno pubblicizzato, ma enormemente più carico di valenze prospettiche, è il percorso di lotta compiuto in Italia in questo periodo da decine di migliaia di facchini immigrati della logistica originari dei paesi del Maghreb e di un’altra trentina di nazionalità, che hanno dato vita a un ciclo di lotte energiche, serrate, spesso vincenti sul piano sindacale, fornendo un  esempio di “come si fa” anche a molti lavoratori italiani – un ciclo lotte decennale da cui è  nato il primo organismo sindacale, in Italia e forse in Europa, composto a larga maggioranza di proletari immigrati, molto attivo nel denunciare le politiche di stato anti-immigrati (SI Cobas, 2017). Numerose sono state anche le proteste e le piccole rivolte dei rifugiati e dei richiedenti asilo, dei braccianti agricoli, e di primi nuclei di operaie immigrate che hanno scoperchiato, a vantaggio di tutto il mondo del lavoro salariato, il verminaio delle false cooperative. E – al di là delle grosse ambiguità politiche dei loro promotori – l’ampio séguito delle iniziative di massa antirazziste di ottobre-dicembre 2018 a Berlino (sotto il segno degli Unteilbar, gli Indivisibili) e a Londra, testimonia che l’ascesa del razzismo di Stato e della guerra agli emigranti/immigrati non è affatto irresistibile – guardando la composizione di queste manifestazioni, si ha la prova che la trama dei rapporti di solidarietà tra autoctoni e immigrati è reale, e per niente affatto una nostra allucinazione.

 

5. Le prospettive

E ora? Cosa ci prospetta il prevedibile futuro? L’intensificazione del conflitto sociale, di classe, di cui abbiamo descritto fin qui l’evoluzione. Per i poteri forti europei l’immigrazione è stata, nell’immediato secondo dopoguerra, una questione inerente il mercato del lavoro, per poi diventare progressivamente nell’era neo-liberista una questione di ordine pubblico, e negli ultimi anni addirittura una questione militare, bellica. La parola-chiave ampiamente sdoganata negli ultimissimi anni è invasione. E tutto lascia immaginare un’ulteriore crescita dell’allarme istituzionale su questo versante. Per due ragioni concorrenti. La prima è che le migrazioni internazionali, in specie quelle da Africa e Medio Oriente, sono destinate ad incrementarsi, se le cause di fondo che le determinano – le diseguaglianze di sviluppo, il debito estero, la trasformazione capitalistica dell’agricoltura, le guerre, i disastri ecologici, etc. – continueranno ad operare indisturbate. La seconda è che si addensano sull’economia e la politica mondiale nubi di tempesta sempre più minacciose che si ripercuoteranno in negativo, specie in Europa, sulla massa delle classi subalterne. Per i poteri costituiti, niente di meglio che deviare la sofferenza e l’insicurezza sociale in crescita esponenziale contro il capro espiatorio costituito dai lavoratori/lavoratrici e dalle popolazioni immigrate. Le tecniche di manipolazione e diversione sono ben consolidate e affinate, e possono giovarsi di una vera e propria infantilizzazione di massa prodotta dall’egemonia del pensiero unico neo-liberista. Si sbaglierebbe nel credere che una simile prospettiva sia propria solo ed esclusivamente delle frange più aggressive e fanatiche delle destre europee, che sono comunque di consistenza non irrilevante. Questa prospettiva è inscritta negli stessi accordi di Schengen.

Ma cozza fragorosamente contro la realtà di società europee divenute definitivamente multi-nazionali, multi-razziali, multi-culturali, multi-religiose. Non si può far girare all’indietro la ruota della storia per tornare, ammesso e non concesso che siano mai esistite in forma pura nei tempi moderni, a società “omogenee” sul piano nazionale, culturale, razziale, religoso. Né si può cancellare la crescita delle aspettative di centinaia di milioni di oppresse e oppressi del Sud del mondo con un tratto di penna siglando nuovi accordi schiavistici tra stati, o con le ecatombi di morti in mare, o con la moltiplicazione dei kampi di concentramento per emigranti e il relativo terrore. Così come sarebbe ingenuo immaginarsi che possano rinunciare alle loro brame le centinaia di migliaia di imprese che fin qui hanno potuto accumulare montagne di profitti su una massa di esseri umani di importazione costretti nella inumana condizione di nuda forza-lavoro. Ci aspettano, perciò, acutissimi conflitti sociali.

A suo modo aveva ragione Huntington (1996) quando affermava che le migrazioni internazionali e tutti i problemi che abbiamo fin qui evocato segnalano un vero e proprio passaggio d’epoca, e pongono una sfida epocale. Il passaggio d’epoca è, al fondo, in Europa e in Occidente anzitutto, quello della compiuta globalizzazione dei rapporti sociali capitalistici e delle leggi dell’economia capitalistica che, sia pure in modo profondamente disuguale, ha legato in un unico meccanismo e in un unico destino le popolazioni che vivono ai quattro angoli del pianeta, provocando – tra l'altro – un loro crescente spostamento da Sud verso Nord e da Est verso Ovest.

Là dove, invece, Huntington ha torto marcio è nel ritenere la creazione di società multi-nazionali, multi-razziali, multi-culturali, che da questo processo è derivata, una sorta di effetto contro-natura, che ci sta portando inesorabilmente verso una catena di guerre di cultura e di civiltà. Per noi, invece, questo insieme di tumultuose trasformazioni rende possibile andare finalmente oltre i compartimenti stagno nazionali (che del resto sono stati ampiamente superati in ambito economico); oltre l’ammuffita idea dell’auto-sufficienza delle singole culture e il suo carattere escludente; verso società che accettino e vivano la loro composizione multi-nazionale e multi-razziale come straordinaria ricchezza; che riconoscano nella più piena parità di diritti delle popolazioni che le compongono la condizione prima perché questa ricchezza si manifesti; che sappiano incamminarsi oltre l’attuale assetto delle relazioni sociali (capitalistiche), oltre l’attuale disordine costituito. Non da oggi del resto, pressoché ovunque[xvii], la dimensione nazionale appare in ritardo rispetto all’evoluzione materiale in atto: una prigione anziché uno spazio di libertà. Si sono formate già, e abbondantemente, le basi per il superamento effettuale delle nazioni, e pochi fenomeni lo segnalano con la stessa forza delle migrazioni internazionali e dell’esperienza degli emigranti-immigrati che vivono “a cavallo” tra due o più nazioni, “razze”, culture, continenti. Dopo la mondializzazione dei rapporti sociali propri del capitalismo, è finalmente possibile, sui presupposti da essa gettati ma negandone i criteri ordinativi, fuoriuscire dai rapporti materiali di dominio e di oppressione oggi vigenti, e avviarci verso una nuova, affascinante epoca di scambi non mediati dal denaro o dalle merci, tra liberi ed eguali, e di fusione tra le nazioni e le culture.

Nel predisporre e affrettare questo cammino di liberazione pochi luoghi, in Europa e fuori dall’Europa, hanno l’importanza della scuola. E non è un caso se nelle scuole italiane ed europee si stiano intensificando le pressioni per farvi entrare temi militaristi e sciovinisti, per farne un centro di diffusione del razzismo istituzionale. A questa pressione può rispondere in modo efficace solo un anti-razzismo forte, radicale, di classe. Capace di sottoporre ad una critica corrosiva ogni forma di discriminazione, di oppressione, di inferiorizzazione, di umiliazione, di criminalizzazione delle popolazioni immigrate, ed in particolare dei lavoratori e delle lavoratrici immigrati. Un anti-razzismo capace di infrangere i comandamenti e i limiti incredibilmente angusti e retrogradi dell’ideologia dominante, e schizzare i tratti del nuovo mondo possibile, e sempre più necessario.

 

 

 

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[i]              Fonte: http://www.businessinsider.com/largest-ethnic-groups-in-America-2013-8?IR=T.

[ii]             Fonte Eurostat: https://ec.europa.eu/eurostat/statistics-explained/index.php/Migration_and_migrant_population_statistics.

[iii]                   Su questa tensione nei “trenta gloriosi”, si veda Kammerer (1974, p. 8-9).

[iv]            Il primo di questi accordi è quello stipulato nel 1946 tra Italia e Belgio, che prevede lo scambio “uomini contro carbone”.  Tra il 1945 e il 1970 dall’Italia sono espatriate 7 milioni di persone, dirette in tutto il mondo.

[v]             Nel periodo 1975-2005 dall’Italia sono espatriate 50mila persone l’anno. Con la crisi del 2008, che colpisce duramente i paesi del Sud-Europa, il movimento emigratorio riprende vigore, specialmente dall’Italia e dalla Spagna.

[vi]            Solo nella Germania federale «dopo la seconda Guerra mondiale erano affluiti nelle tre zone di occupazione occidentale circa 12 milioni di profughi tedeschi» (Bade, 2001, p. 364).

[vii]          Nonostante alcune agevolazioni, la gran parte degli immigrati coloniali non europei ha vissuto una condizione di marginalità ed esclusione sociale.

[viii]         Ma nel 1962 avevano già partecipato agli scioperi nelle miniere di Amburgo ed Essen.

[ix]                   In Italia, ad esempio, tra il 1994 e il 2014 gli immigrati passano da 500.000 a 5 milioni.

[x]             Si veda Basso, 2015.

[xi]            Nuova perché negli anni precedenti non erano affatto mancati i discorsi anti-immigrati.

[xii]          Escludendo le popolazioni musulmane “autoctone” dell’Europa sud-orientale.

[xiii]         Quella che Gallino definisce la “crisi della civiltà del denaro” (Gallino, 2015).

[xiv]         E’difficile operare una distinzione netta tra queste tipologie, è più facile invece individuarne il carattere comune: migrazioni di lavoratori precari.

[xv]          In realtà i vantaggi per i lavoratori immigrati temporanei sono pochissimi (Castles, Ozkul, 2014).

[xvi]         Trasformati dal linguaggio dominante in “migranti”, anziché immigrati.

[xvii]         Non ci riferiamo, è evidente, alla condizione dei palestinesi o dei curdi.

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