Marx sull'esercito industriale di riserva e le migrazioni: vietato abusarne!

 

Marx sull'esercito industriale di riserva e le migrazioni: vietato abusarne!

di Pietro Basso

 

 

Nella rinnovata attenzione al suo pensiero, è toccato a Marx essere chiamato in causa, da sinistra e perfino da destra, in particolare in Italia e in Germania, per legittimare con la sua autorità le politiche di "chiusura delle frontiere" agli immigranti, che impazzano in Europa, e spesso fuori dall'Europa. Si tratta di uno sfacciato abuso del pensiero di Marx, compiuto facendo riferimento alla sua analisi della funzione dell'esercito industriale di riserva e delle migrazioni nel capitalismo, ma falsificandola (in parte) e amputandola (totalmente) dalle sue conclusioni politiche. Mi occuperò qui di tale abuso prendendo in considerazione la  logica di alcuni falsari di successo. Prima, però, è necessario esporre in estrema sintesi quello che ha veramente detto Marx a riguardo.

 

1. Nella critica marxiana dell'economia politica e del modo di produzione capitalistico la categoria "esercito industriale di riserva" ha un'importanza particolare.

Già nei Grundrisse Marx afferra ed espone una contraddizione-chiave, insopprimibile del modo di espandersi del capitale. Il capitale, ragiona, ha un unico scopo: auto-valorizzarsi senza limiti. Per auto-valorizzarsi, ha bisogno di aumentare incessantemente il tempo di lavoro supplementare, la quota del tempo di lavoro erogato dai proletari che non viene retribuita, e aumentare nel contempo le giornate lavorative simultanee, e cioè la massa dei lavoratori salariati. Per aumentare il tempo di lavoro supplementare di questa massa di lavoratori, il capitale ha due vie: allungare la giornata lavorativa, accrescere la produttività del lavoro attraverso l'impiego della tecnica. Ma l'incremento della produttività del lavoro produce la diminuzione (relativa) dei proletari occupati. Insomma, per dirla con le parole di Marx: "Il capitale tende sia ad aumentare la popolazione lavoratrice [questo aumento è il presupposto dell'aumento del plusvalore – n.], sia a porre incessantemente una sua parte come sovrappopolazione - popolazione inutile fino al momento in cui il capitale può valorizzarla"[1].Questa contraddizione si ripresenta, a seconda delle congiunture storiche e immediate e dei luoghi, in forme e gradi differenti, ma è insolubile nel capitalismo e dal capitalismo. Mai come oggi è possibile comprenderlo, quando siamo in presenza di una massa di disoccupati e sottoccupati semplicemente gigantesca, e in ulteriore crescita[2].

 

Il nesso stringente tra accumulazione e sovrappopolazione è analizzato in modo ancora più completo nel Capitale[3]. Dove è mediato in modo esplicito, oltre che dalla produttività del lavoro, dalla composizione del capitale. Con il progredire della accumulazione di capitale, sostiene Marx, se resta invariata la composizione del capitale (la relazione tra capitale-macchine e forza-lavoro viva), cresce la domanda di forza-lavoro. Ma di norma, con il progredire dell'accumulazione e della concentrazione del capitale, il capitale costante (i mezzi di produzione) cresce in misura più che proporzionale rispetto al capitale variabile (la forza-lavoro). Con l'aumento del capitale complessivo la domanda di lavoro, pur crescendo in termini assoluti, decresce in termini relativi. Di conseguenza, man mano che il modo di produzione capitalistico avanza in tutto il mondo soppiantando i rapporti sociali pre-capitalistici, si crea una sovrappopolazione relativa di dimensioni crescenti. Una parte di essa funziona da esercito industriale di riserva – un fenomeno generato dalla produzione mercantile capitalista, sconosciuto nei precedenti modi di produzione.

 

L’esercito industriale di riserva, oltre ad avere un’estensione variabile, è anche variegato al suo interno, non omogeneo. Marx ne individua, per il suo tempo, quattro strati, che hanno condizioni di vita differenti e differenti funzioni per il capitale. Uno strato superiore, o fluttuante, composto dagli operai dell’industria, anche qualificati, che periodicamente restano disoccupati, ma ritrovano prima o poi il lavoro nel proprio o in altri rami d’industria; un secondo comparto, latente, composto dalla massa dei lavoratori delle campagne che affluiscono per la prima volta nelle città mettendosi a disposizione di tutti i rami d’industria; un terzo strato, stagnante, che si colloca ai margini dell’esercito operaio attivo ma con una occupazione irregolare, composto di lavoratori che sono alla continua ricerca di un lavoro quale che sia; ed infine il comparto più basso e povero, stratificato a sua volta in coloro che possono lavorare e trovano solo saltuariamente lavori di fatica, coloro che sono divenuti inabili al lavoro, e quelli precipitati nel sottoproletariato. Il principale campo di indagine di Marx è la Gran Bretagna, anche se alla fine del capitolo XXV si trasferisce in Irlanda, fornitrice di forza-lavoro per l’industria britannica, dove tuttavia riscontra “fenomeni analoghi” a quelli che hanno riguardato il proletariato rurale inglese. Perché la formazione di una sovrappopolazione relativa, dell’esercito industriale di riserva dipende dalle specifiche leggi di movimento generali del modo di produzione capitalistico che per la prima volta nella storia ha reso l’insicurezza dell’esistenza di tutta la massa lavoratrice e la miseria cronica o la povertà di suoi larghi strati “un fenomeno normale della società”[4]. Ritroviamo questo processo tanto in Inghilterra quanto in Irlanda, prese in un primo momento separatamente, e considerate poi nella loro relazione coloniale, così come lo ritroveremo in seguito in ogni altro paese acquisito al capitalismo. Cosa che risulta oggi di tutta evidenza quando il pieno sviluppo dei rapporti di produzione capitalistici in corso nelle campagne del Sud del mondo sotto il segno delle multinazionali dell'agribusiness, sta provocando emigrazioni di massa di dimensioni ciclopiche (tra i 30 e i 40 milioni di individui l'anno), e ad una velocità finora sconosciuta.

 

L’esercito industriale di riserva è da un lato il prodotto dello sviluppo capitalistico, e dall'altro una sua "condizione di esistenza", in quanto disponibile, pronto in ogni momento a soddisfare just in time i mutevoli bisogni dell'accumulazione del capitale. Esso è essenziale sia nei periodi di stagnazione o di crisi, che in quelli di parossismo produttivo perché in entrambi preme sull'esercito operaio attivo frenandone le rivendicazioni, contenendo o spingendo verso il basso il valore medio della forza-lavoro - non per sua scelta, sia chiaro! Per questa via l'analisi di Marx mette capo a quella che definisce la legge assoluta, generale dell'accumulazione capitalistica, valida quindi per tutti i paesi e per tutte le fasi di questo modo di produzione e di riproduzione della vita sociale: "Quanto più grandi sono la ricchezza sociale, il capitale in funzione, il volume e l'energia del suo aumento..., tanto maggiore è l'esercito industriale di riserva". Questo nesso tra accumulazione del capitale, esercito operaio attivo, esercito industriale di riserva ha, sul terreno della lotta di classe, l'effetto di "incatenare l'operaio al capitale in maniera più salda che i cunei di Efèsto non saldassero alla roccia Prometeo"[5].

 

L’ordinato funzionamento del meccanismo qui descritto, che divide permanentemente il corpo della classe che vive di lavoro salariato e mette in concorrenza tra loro il campo degli occupati e quello dei disoccupati o dei sottoccupati, è fondamentale per il capitale. Che lo ha corredato nei secoli, e lo correda tuttora, di politiche e di rappresentazioni simboliche tese ad approfondire le linee di divisione tra i due campi. Ecco perché Marx, nemico giurato di queste moderne catene dello sfruttamento del lavoro umano, si schiera in modo incondizionato a favore della "cooperazione sistematica tra gli operai occupati e quelli disoccupati per spezzare o affievolire le rovinose conseguenze che quella legge naturale della produzione capitalistica ha per la loro classe (...). Ogni solidarietà tra gli operai occupati e quelli disoccupati turba infatti l'azione 'pura' di quella legge"[6]. Per Marx, quindi: 1)la produzione da parte del capitale di un esercito industriale di riserva è una legge, non un accidente passeggero, un’occasionale disfunzione del capitalismo legata a questa o quella politica sociale, e – tanto per restare in tema – a questa o quella politica migratoria; 2)l'unica forza che può contrastarla è la lotta unitaria tra proletari occupati e disoccupati. Omettere tale doppia conclusione, storico-teorica e politica, significa falsificare in modo impudente il pensiero marxiano e marxista in materia.

 

2. Tra la tematica dell’esercito industriale di riserva e quella delle migrazioni, c’è in Marx un parallelismo e un intreccio – non, però, una completa sovrapposizione.

Cominciamo dal parallelismo. In un modo altrettanto “automatico” e necessario al suo sviluppo che la produzione della sovrappopolazione e dell'esercito industriale di riserva, il capitalismo ha generato e continua incessantemente a generare movimenti migratori, sia all'interno dei singoli paesi che a scala internazionale. Per Marx le migrazioni di massa sono infatti parte integrante della formazione del modo di produzione capitalistico, della sua riproduzione allargata su scala mondiale e mettono capo alla formazione del mercato del lavoro mondiale. Altro suo punto fermo è che le migrazioni di massa dell’epoca capitalistica sono essenzialmente forzate: niente è più lontano dal pensiero marxiano della salottiera teoria liberale del “libero migrante”, ricca di romantiche varianti di sinistra, che riconducono il fenomeno migratorio al caotico, casuale assemblaggio di infinite storie/volontà individuali, spingendo in secondo piano le sue cause e il suo carattere sociale, collettivo, brutale.

Il versante europeo di questo secolare processo è stato oggetto di una molteplicità di interventi del Marx pubblicista, tra i quali sono memorabili gli articoli contro la duchessa di Sutherland, che denunciano i metodi terroristici da costei usati per costringere i contadini stanziati sulle sue terre ad emigrare. In essi è messo in chiaro che a premere con spietata violenza sui lavoratori agricoli e sui piccoli affittuari delle Highlands scozzesi era quella rivoluzione agricola capitalistica, che nei tempi seguenti avrebbe espulso dalle campagne moltitudini di produttori rurali in tutta Europa, e li avrebbe costretti a cercare rifugio nei villaggi e nelle città.

La faccia extra-europea, coloniale, di questo processo di diffusione mondiale dei rapporti di produzione capitalistici anche per mezzo di grandi migrazioni forzate di lavoratori, ha una serie di capitoli ancor più tragici: l'industria della tratta degli schiavi africani, l'espianto violento dalle loro terre e dalle loro case di più di 100 milioni di schiavi, il trapianto e il super-sfruttamento dei sopravvissuti nelle Americhe, da ripopolare dopo l’olocausto delle popolazioni indie prima nel centro-sud, poi nel nord. A seguire, lo sfruttamento dei coolies cinesi, indiani, indonesiani, giapponesi, anch'essi emigranti forzati (a tempo), semi-schiavi/semi-salariati. Non a caso Marx sostiene a più riprese che il capitale si alimenta di una "doppia schiavitù": la schiavitù salariata, indiretta, in Europa, e la schiavitù "pura e semplice", diretta, degli sfruttati di colore nelle colonie.

Fin qui – sullo sfondo l’incedere della rivoluzione agricola e industriale, e la espansione universale dei rapporti sociali capitalistici – il parallelismo tra la creazione di un esercito industriale di riserva e le migrazioni interne e internazionali. Vediamo ora l’intreccio tra i due fenomeni, limitandoci al continente europeo dove del resto questo intreccio si è dato per primo. Mano a mano che l'avvento dei rapporti mercantili capitalistici ha generato in Europa una sempre più ampia sovrappopolazione, ha preso corpo nel continente europeo un movimento emigratorio di grandi proporzioni verso le Americhe e l'Australia perché la nascente industria non era in grado di assorbire l’enorme quantità di spossessati. Solo nel caso inglese si è trattato in prevalenza di una emigrazione di not labourers; per tutte le altre nazionalità, invece, è stata largamente prevalente la componente dei lavoratori. Ma per un certo tratto anche per gli emigranti labourers l'America del Nord ed ampie zone dell'America meridionale sono state delle vere "terre promesse", in cui era data a molti la possibilità di diventare immediatamente piccoli, o non proprio piccoli, proprietari di terre. Marx dichiara chiuso questo periodo "aureo" dell’emigrazione già al 1867. Lo fa, come spesso gli è capitato, con largo anticipo sui tempi effettivi. Tuttavia, sta di fatto che negli ultimi 150 anni, come aveva previsto, nessuna emigrazione di massa a livello mondiale ha replicato tal quali le caratteristiche dell'emigrazione inglese del XXVIII e della prima metà del XIX secolo. Di terre promesse come l’America del Nord, l’Australia o la stessa America del Sud, spopolate dai genocidi delle popolazioni native per mano delle potenze coloniali, non ce ne sono più. La stragrande maggioranza dei 270 milioni di emigrati/e a livello mondiale stimati oggi dall'ONU, è composta di proletari/e, di salariati/e, o destinati/e ad essere tali nei paesi di immigrazione[7]. Per questa massa di emigranti non si prospetta alcuna cuccagna fatta di terre libere da accaparrare o miniere d’oro da saccheggiare. La cuccagna, al contrario, è tutta per i paesi che ne possono impiegare le capacità lavorative (cervello, muscoli, cuore) senza aver speso nulla per produrle e possono farlo ad un tasso di sfruttamento differenziale, per effetto delle leggi e delle prassi discriminatorie e razziste che colpiscono ovunque i lavoratori immigrati per mano degli stati nazionali - fatte salve le lotte, s’intende! Solo con il passare delle generazioni e il crescente radicamento sociale e culturale, una sezione variabile, sempre minoritaria o molto minoritaria, delle popolazioni immigrate riesce a salire dal proletariato all’interno delle mezze classi (o classi medie), in particolare nelle attività di piccola accumulazione di capitali, che sono però, da decenni, in discesa, e – in via di eccezione – anche negli strati più privilegiati, o addirittura ai vertici della scala sociale. 

Ma a differenza di ciò che amano raccontare i cosiddetti sovranisti di sinistra, la grande massa dei salariati e delle salariate immigrati negli ultimi decenni in Europa non si può considerare tout court, nel suo insieme, il nuovo esercito industriale di riserva. Perché molti/molte di essi sono inseriti in maniera relativamente stabile nei diversi settori dell'economia. Prendiamo il caso Italia: se, specie a partire dalla grande crisi del 2008, si è allargata la quota-parte del lavoro immigrato messa in soprannumero, tuttavia al 2017 l’indice di disoccupazione della forza-lavoro immigrata era al 14,3%, appena tre punti e mezzo più alto di quello degli italiani. Per converso in questo inizio del XXI secolo la sezione della forza-lavoro italiana di nascita messa in soprannumero, non certo per colpa o volontà degli immigrati, o per la loro “concorrenza sleale”, è stata così rilevante che in 13 anni (2006-2019) sono andate via dall’Italia più di due milioni di persone[8]. Nell’Unione europea lo scarto tra il tasso di disoccupazione degli immigrati extra-UE e quello degli autoctoni è un po’ più alto, ma il dato statistico ufficiale è che 4 lavoratori immigrati su 5 hanno un rapporto di lavoro che non è temporaneo[9]. Per quanto si voglia depurarlo da imprecisioni e dalla nota tendenza delle statistiche ufficiali ad occultare la precarietà, resta comunque che la grande maggioranza delle lavoratrici e dei lavoratori immigrati nella UE è nell’esercito dei salariati attivi, non in quello di riserva.

Il fatto è che la variabile indipendente che regola l’ampiezza della disoccupazione e della sottoccupazione non sono le politiche migratorie di “apertura” o di chiusura, è l’andamento dell’accumulazione del capitale. E se proprio si volesse chiamare in causa seriamente le politiche migratorie per quel che sono effettivamente, esse sono da decenni in Italia e in Europa discriminatorie, repressive, selettive - il contrario delle politiche no borders di cui farfugliano i “sovranisti” di destra e di sinistra. E questo tipo di politiche costringe milioni di lavoratori e lavoratrici in condizioni spesso di irregolarità forzata, e quasi sempre di inferiorità economica, giuridica, politica, simbolica[10].

 

3. Marx, dunque, denuncia il carattere essenzialmente forzato delle migrazioni interne ed internazionali generate dall’incedere del capitale e l’uso capitalistico di esse contro la classe operaia nel suo insieme, ma sarebbe tempo perso ricercare negli scritti di questo rifugiato politico perenne un ritratto degli emigranti alla stregua di vittime supine del capitale. La potenza dialettica della sua analisi, che rispecchia le contraddizioni e gli antagonismi della diffusione a scala internazionale dei rapporti sociali capitalistici, è tutta nella folgorante conclusione del capitolo XXV:

 

«Questo metodo redditizio [lo spopolamento dell’Irlanda favorito dai magnati terrieri di cui gonfia le rendite -n.] ha come ogni cosa di questo mondo, il suo inconveniente. Con l’accumulazione della rendita fondiaria procede di pari passo l’accumulazione degli irlandesi in America. L’irlandese eliminato dalle pecore e dai buoi riemerge al di là dell’Oceano come feniano. E di fronte alla vecchia regina dei mari si erge sempre più minacciosa la giovane repubblica gigantesca”.[11]

 

Al di là delle sue vicissitudini e della sua breve parabola, è un fatto storico che la Fenian Brotherhood, fondata a Chicago nel 1858 dagli emigrati J. O’Mahony e M. Doheny e diffusasi, oltre che in Irlanda, in Canada, Australia e America latina, diede l’impulso decisivo alla nascita della lotta di liberazione degli irlandesi dalla dominazione britannica. Per non dire, poi, del ruolo di avanguardia svolto dai proletari emigrati nelle battaglie del movimento operaio internazionale, una storia lunga e gloriosa. Non erano forse emigrati tedeschi negli Stati Uniti August Spies, Albert Parsons, Adolph Fischer, George Engel, i magnifici araldi della lotta operaia mondiale per le 8 ore, impiccati l’11 novembre 1887 nel cortile della prigione di Chicago? E non erano emigrati boemi, polacchi, tedeschi, russi, irlandesi, italiani quelli che diedero massa e forza a quella lotta?

 

Del resto già nell’Ideologia tedesca Marx ed Engels avevano notato che in Nord America il passo degli svolgimenti storici era più rapido proprio per l’addensarsi lì degli “individui più evoluti dei vecchi paesi”, portatori della “forma di relazione più sviluppata” (gli emigrati, appunto)[12]. E nel Manifesto avevano colto e lodato il rovescio della medaglia della violenza bruta con cui le masse contadine venivano cacciate dalle campagne: l’aver “strappato una parte notevole della popolazione all’idiotismo della vita rurale”. In seguito, sulla loro scia, Lenin vedrà nelle grandi metropoli capitalistiche abitate da una molteplicità di nazionalità le grandi macine delle differenze e degli odi nazionali che hanno a lungo funestato le vicende del consorzio umano, il crogiolo che permetterà la nascita degli individui empiricamente universali antivisti dai due rivoluzionari sempre ne L’ideologia tedesca.

 

Gli economisti, anche gli eccelsi tra gli economisti classici, non sono stati e non sono in grado di vedere negli operai, nei proletari, altro che macchine da lavoro, gli strumenti di lavoro animati di Aristotele, un semplice fattore subordinato di produzione. Mentre invece il Marx giovane, imbattendosi nelle riunioni degli “ouvriers” socialisti francesi, aveva già visto con i propri occhi come fossero capaci di ben altro. Come fossero vogliosi di occuparsi di questioni teoriche. Come esprimessero un nuovo bisogno integrale di “società”, di vera fraternità, di autentica cooperazione. E come ciò costituisse la negazione pratica radicale dell’alienazione del lavoro e della signoria assoluta del proprietario del capitale sui propri schiavi salariati.

 

4. Veniamo ora agli utilizzatori/falsificatori del pensiero di Marx. Costoro si richiamano all’analisi marxiana dell’esercito di riserva e al suo inquadramento delle migrazioni come migrazioni forzate, ma distorcendoli e amputandoli dalle loro conclusioni politiche, per arruolarsi, sulla base di distorte rappresentazioni della realtà e giustificazioni speciose, nelle schiere del nazionalismo “sociale”.

Prendiamo, per l’Italia, il più abile, tra costoro, nel coniare formule e calembour, il “filosofo” Fusaro, chiamato spesso in video a spacciare slogan venduti per molto radicali, in realtà reazionari nel senso proprio del termine. Nel suo scritto Glebalizzazione[13] ripetutamente costui pretende di coprirsi dietro l’ombra di Marx. Qualche estratto:

 

«In antitesi con quanti celebrano l’odierna immigrazione come modello intrinsecamente positivo, integrativo ed emancipativo, occorre ribadire con forza, da una prospettiva saldamente marxiana, che esso è tale sempre e solo per il capitale e per il Signore mondialista; i quali possono, così, impiegare senza riserve i migranti nelle filiere della produzione a prezzi stracciati e senza il giusto riconoscimento dei diritti. (…)

«Mediante le pratiche dell’immigrazione di massa e dello sradicamento capitalistico ad esse connesso, a vincere non sono né i migranti, né i lavoratori, formanti entrambi il polo in divenire del nuovo Servo precarizzato[14]. I migranti perdono perché figurano come schiavi ricattabili e come materiale umano privato dei diritti e della dignità. (…) I lavoratori autoctoni sono anch’essi sconfitti, poiché si trovano a competere con lavoratori migranti che esercitano una pressione concorrenziale al ribasso. Vince l’élite globalista liberal-libertaria… il Signore neo-feudale e il capitale, con la sua insaziabile ricerca di braccia e neuroni disposti a fare il medesimo a un prezzo più basso».

 

Dopo aver assunto un facile bersaglio di comodo – dov’è mai, chi è mai, il fantomatico soggetto che celebra in un modo così infantilmente naif le migrazioni, qui descritto con ciarlataneria come se fosse l’Onnipotente? - il nostro “filosofo” inscena una geremiade che di “saldamente marxiano” non ha un’acca. Anzitutto, non è una privativa di Marx la presa d’atto della concorrenza tra salariati nel modo di produzione capitalistico, e neppure della concorrenza tra autoctoni e immigrati. E l’apparente, mai limpida ripresa di tale tematica è utilizzata allo scopo, integralmente anti-marxista, di raffigurare tanto i proletari immigrati quanto gli autoctoni alla stregua di nuovi servi della gleba: i primi come mere cose, deboli, ricattabili, miserabili, disperati, i secondi cosificati e nullificati dal malaugurato avvento dei primi. Gli serve, perciò, a rovesciare il punto di vista di Marx che già nel suo Discorso sul libero scambio, dopo aver smascherato l’inganno contenuto nella rivendicazione di una libertà di scambio che altro non era se non la libertà del capitale di schiacciare il lavoratore, e di gettare le basi per il dominio monopolistico sul mercato mondiale schiacciando le nazioni arretrate, conclude a favore del libero scambio per la sua indubbia portata rivoluzionaria. Se è vero che il sistema del libero scambio ha un effetto distruttivo, lo ha nei riguardi delle “antiche nazionalità”. Il che, per Marx, è un pregio in quanto “porta all’estremo l’antagonismo tra borghesia e proletariato” mondializzandolo, e accelerando così la rivoluzione sociale. Era a Bruxelles, il 9 gennaio 1848, l’alba del primo anno della storia sociale europea segnato a lettere d’oro, in ispecie per il giugno parigino, nel calendario della rivoluzione proletaria.

 

La recita di Fusaro sfocia, invece, nella direzione diametralmente opposta, con l’entrata in scena dell’angelo vendicatore dei neo-servi della gleba immigrati ed autoctoni: sua maestà lo stato nazionale (borghese, of course) ritornato sovrano contro il “globalismo” grazie alla restaurazione dell’ordine di Westfalia. A suo dire, infatti, il contesto attuale della lotta di classe sarebbe completamente cambiato rispetto al passato...

 

«La lotta di classe ai tempi del globalismo si presenta (...) come una conflittualità tra la financial openness del ceto dominante cosmopolitico e la national autonomy del polo dominato nazionale-popolare (la national self-sufficiency tematizzata da Keynes). Il primo aspira all’apertura integrale del reale e dell’immaginario, in vista dell’onnidirezionale circolazione della forma-merce, libera da barriere e da frontiere, da confini e da muri. Il secondo, invece, ha tutto l’interesse nel ripristino di confini e di limitazioni, di modo che lo spazio deregolamentato e sconfinato della merce venga normato dalla politica e il wildes Tier, la ‘bestia selvatica’ del mercato, come la chiama Hegel, sia disciplinata dalla società in funzione dei concreti bisogni di quest’ultima».

Del resto, anche «Marx ha piena consapevolezza – lo espliciterà principalmente nel primo libro del Capitale – che le conquiste del movimento operaio avvengono sempre nel quadro degli Stati nazionali, mediante le limitazioni dell’orario della giornata lavorativa, l’introduzione di norme in difesa della condizione proletaria, le tutele del lavoro.»

 

Ecco un fritto misto di verità e di spudorate menzogne. La verità-confessione è che costui e i suoi sodali sognano uno stato capitalistico italiano capace di regolamentare l’anarchia del capitale e del mercato, forte fino al punto da essere “sovrano” rispetto alla “power-élite globalista”[15] - un vuoto idealismo che ignora le barriere che si sono frapposte in passato, e ancor più si frappongono oggi, a questo sogno retrogrado da piccoli bottegai. Ben più rilevante è la sequela di menzogne sinistreggianti. Sfugge al “filosofo” e ai suoi soci rossobruni che nelle società occidentali siamo ad una acutissima polarizzazione di classe, classe capitalistica versus classe-che-vive-del-proprio-lavoro, e alla più radicale sussunzione di sempre del politico all’economico, anche nelle singole nazioni, e non solo alla scala globale. A costui che invoca la necessità di ripristinare frontiere, confini e muri, sfugge un minuscolo particolare: questi strumenti di tortura[16] contro gli emigranti già sono pienamente operativi in Europa almeno dall’accordo di Schengen (1985). E da allora non hanno fatto che moltiplicarsi sotto forma di muri fisici, elettronici, legali, simbolici, europei, statuali, privati-malavitosi, terrestri, marini, aerei; per le donne, gli uomini, i bambini che emigrano c’è l’imbarazzo della scelta su dove e come rischiare, e spesso morire, per attraversarli. Ma il culmine della contraffazione il falsario lo raggiunge quando “in nome della lotta di classe di marxiana memoria” invoca un “controllo politico dei flussi dei capitali e delle persone”, e quando pretende che sia stato Marx in persona a lodare lo stato nazionale come protettore dei diritti dei lavoratori – due falsi assoluti. Dacché fin dai suoi primi atti la I Internazionale, a cui il Moro lavorò con enorme dedizione, pose la fraterna solidarietà tra le classi operaie dei diversi paesi e la lotta contro i pregiudizi nazionali a proprio fondamento. E deliberò che la sola possibilità che gli operai delle varie nazioni avevano di resistere con successo ai padroni che già a quel tempo (1867) importavano “operai stranieri” e facevano “produrre le merci in quei luoghi dove i salari della manodopera sono più bassi”, era quella di “trasformare in internazionali le [loro] associazioni nazionali[17]. Altro che “controllo politico dei flussi” migratori e chiusura delle frontiere!

Altrettanto insostenibile è che Marx abbia visto nello stato nazionale un amico delle aspirazioni operaie a porre limiti alla illimitata giornata lavorativa di metà ottocento. Dopo avere ammorbato il lettore con qualche scampolo della più inquinata delle arie padane, mi sento obbligato ad ossigenarlo con una boccata di aria di alta montagna:

 

«Negli Stati Uniti dell’America del Nord ogni movimento operaio indipendente rimase paralizzato finché la schiavitù deturpava una parte della repubblica. Il lavoro in pelle bianca non può emanciparsi in un paese dove viene marchiato a fuoco quand’è in pelle nera [corsivo mio]. Ma dalla morte della schiavitù [che tanto deve alla strenua lotta degli schiavi stessi, discendenti dagli emigrati forzati dall’Africa – n.] germogliò subito una vita nuova e ringiovanita. Il primo frutto della guerra civile fu l’agitazione per le otto ore, che cammina con gli stivali dalle sette leghe della locomotiva, dall’Atlantico al Pacifico, dalla Nuova Inghilterra alla California. Il Congresso operaio generale di Baltimora (16 agosto 1866) dichiara: “La prima grande necessità del presente, per liberare il lavoro di questo paese dalla schiavitù capitalista, è la promulgazione di una legge per la quale otto ore devono costituire la giornata lavorativa normale in tutti gli stati dell’unione americana. Noi siamo decisi ad impegnare tutta la nostra forza fino a che sarà raggiunto questo glorioso risultato”. Contemporaneamente (primi di settembre del 1866) il Congresso operaio internazionale di Ginevra, su proposta del Consiglio Generale di Londra, approvò la seguente risoluzione: “Dichiariamo che la limitazione della giornata lavorativa è una condizione preliminare, senza la quale non possono non fallire tutti gli altri sforzi di emancipazione… Proponiamo otto ore lavorative come limite legale della giornata lavorativa”»[18].

 

Altro che stato nazionale amico e protettore dei lavoratori! Una lotta internazionale e internazionalista di auto-emancipazione in cui gli operai “debbono assembrare le loro teste e ottenere a viva forza, come classe, una legge dello Stato, una barriera sociale [non è detto: statale, istituzionale – n.] potentissima, che impedisca a loro stessi di vendere sé e la loro schiatta alla morte e alla schiavitù, per mezzo di un volontario contratto con il capitale”. Allo Stato nazionale, né amico né protettore, gli operai dovranno imporsi con la forza della propria organizzazione generale, per proteggersi da sé, in quanto classe, dalla brama di profitto  del capitale, e anche dalle proprie tentazioni di svendita come singoli individui. Marx.

 

5. Spostiamoci ora in Germania. Dove ci imbattiamo nei due esponenti di maggior rilievo del movimento Aufstehen, S. Wagenknecht e W. Streeck. La prima, fotogenica e brillante scrittrice, proveniente dalla Piattaforma comunista del Pds e poi esponente di spicco di Die Linke, accostata oltraggiosamente dalla Deutsche Welle a Rosa Luxemburg; il secondo, sociologo di fama, uno degli intellettuali di riferimento del movimento[19].

In questo caso la falsificazione del pensiero di Marx è affidata, più che ai calembour, al classico argomentare teutonico “razionale” e “realista”, e resta un po’ più sullo sfondo. Tuttavia i richiami ad un Marx e ad un marxismo contraffatti non mancano. E la postura di entrambi i nostri eroi è quella di chi sta fermamente dalla parte dei più deboli, delle “classi basse”, della classe operaia, contro i poteri forti dei capitali globali che gonfiano a dismisura l’esercito industriale di riserva con gli immigrati (sta, insomma, là dove dovrebbero stare i... marxisti veri). La sola differenza tra Wagenknecht e Streeck è che la prima si china misericordiosa verso i poveri rifugiati colpiti da sventure, mentre Streeck arriva a costruire da singoli casi estremi la minacciosa figura del rifugiato, in apparenza vittima, in realtà lucido nell’ordire frodi e violare leggi – pronti a ritornare in perfetta sintonia, però, nell’imperioso desiderio di entrambi di aiutarli “a casa loro”, o il più vicino possibile “a casa loro”, il più lontano possibile dal suolo tedesco.

In materia di immigrazione, la “razionalità” e il “realismo” di costoro si affidano ai seguenti argomenti: 1)i lavoratori immigrati fanno concorrenza al ribasso nel mercato del lavoro nei confronti dei lavoratori autoctoni; 2)non ci sono abbastanza risorse per assicurare decenti prestazioni di welfare ai tedeschi poveri e agli immigrati (le risorse scarse sono uno dei chiodi su cui batte sistematicamente Streeck); 3)è in atto una sorta di “guerra culturale” contro le classi subalterne di cultura tedesca perché l’avvento di grandi masse d’immigrati, specie se islamici, terremota il loro tradizionale habitat di pensieri e costumi, e perché gli immigrati hanno la tendenza a creare ghetti culturalmente omogenei e impermeabili. E poiché la sinistra, che a loro dire sarebbe sfegatatamente “no borders”, non si fa carico di questi tormenti materiali e spirituali dei proletari, ecco che “the old working class is forced into a coalition with the protectionist wing of the capitalist class and the remnants of the anti-liberal, nationalist Right”[20]. Nel loro argomentare è naturalizzato ogni singolo aspetto della questione: la concorrenza tra immigrati ed autoctoni, la scarsità di risorse, le politiche di “austerità”, la auto-ghettizzazione delle popolazioni immigrate, la non permeabilità delle culture, la xenofobia, il razzismo. Senza arrivare ai servi della gleba del “filosofo” italiano, sia i proletari tedeschi sia i proletari neo-immigrati o i richiedenti asilo sono presentati come pedine inerti del gioco storico messo in scena dalle scellerate politiche liberali di “open borders”, e come naturalmente nemici tra loro. Il doppio bersaglio polemico è, anche in questo caso, il “globalismo” delle élite capitalistiche da un lato, la solidarietà di classe internazionalista dall’altro, declassificata a pura e pericolosa retorica, incalzata e attaccata da Streeck perfino quando si presenta con i panni istituzionali della “carità cristiana” della signora Merkel[21], dipinta come pericoloso surrogato “anarchico” (non rispettoso delle leggi) del vecchio, dissolvente internazionalismo. E anche in questo caso il punto di approdo è il ripescaggio romantico del vecchio “stato sociale” nazionale che sarebbe stato capace per sua intrinseca virtù di addomesticare l’economia e il capitalismo, di “rendere il capitalismo meno capitalistico” (Wagenknecht), mettendo al sicuro la vita delle “persone comuni”, dei lavoratori più fragili, dalle terrificanti minacce di immigrazione e multiculturalismo, con la chiusura delle frontiere e un “nazionalismo responsabile”. Anche in questo caso, quindi, la “questione sociale”, gli antagonismi di classe, si tramutano in “questione nazionale”, in conflitti tra poteri globali e stati nazionali. E l’operazione mette capo ad un “sovranismo” con contenuti sociali che pretenderebbe di essere a suo modo internazionalista, nella misura in cui ambisce (idealmente) ad aiutare gli immigrati “a casa loro”.

L’amara verità contenuta in tutta questa sbobba è che una simile posizione non è affatto estranea alle (peggiori) tradizioni del movimento operaio tedesco, e non solo tedesco. Sicché non mentono i corifei di Aufstehen quando sostengono che il loro “coraggio” sta nel riscoprire le tradizionali posizioni della sinistra socialdemocratica, la sua “historical pro-regulation agenda” e la sua abituale “politics of law and (national) order”. La colossale menzogna sta, invece, nel ricorrere ad una “harnessing of Marx-esque phraseology” per avanzare come pro-operaia una “politics at odds with Marxism”[22]. E sta nell’occultare che da decenni, gli immigrati in Germania (e in tutta Europa) sono soggetti ad una infinità di regole e di controlli aggiuntivi e discriminatori, soggetti ad un diritto speciale che gli toglie il respiro e li costringe anche all’illegalità[23]; e che almeno dall’11 settembre 2001 è in corso una vera e propria guerra europea agli emigranti e agli immigrati che sta producendo un piccolo olocausto tra il deserto del Sahara e il Mediterraneo. Sta, come ha mostrato Sadlowski, nel mentire con l’attribuire a tutta la “vecchia” classe operaia tedesca una posizione anti-immigrati. Sta nell’occultare le lotte condotte dai proletari immigrati sul suolo tedesco nel secondo dopoguerra accanto ai proletari tedeschi, e non in concorrenza con loro, semmai alla loro testa. Mai sentito parlare di quello che è stato, nella primavera-estate del 1973, uno dei più memorabili cicli di lotta della storia di classe della Germania occidentale? degli scioperi operai alla John Deere di Mannheim, alle officine Hella di Lippstadt e Paderborn, alla Ford di Colonia, alla AEG di Gelsenkirchen, all’Opel di Bochum e ancora degli scioperi di Aquisgrana, Bielefeld, Duisburg, Hagen, e del ruolo che hanno avuto in essi i proletari turchi, jugoslavi, italiani[24], sì, proprio i “miserables” concorrenti al ribasso delle narrazioni tossiche di Wagenknecht e di Streeck? Sanno costoro, quando parlano di una guerra culturale in atto contro le “classi basse” tedesche e le loro tradizioni, che almeno il 25% della popolazione tedesca di oggi, tanto più di quella operaia, ha un Migrantionshintergrund, uno sfondo immigratorio, e molto presto arriverà al 33%? Di quali tradizioni parlano se la Germania è ormai un paese strutturalmente, definitivamente multinazionale, multirazziale, multiculturale? E rompendo il perimetro del carcere- nazione, non furono forse sempre i lavoratori immigrati alla testa del grande ciclo delle lotte operaie che dal ‘68 al ‘73 scossero le fabbriche e l’intera vita sociale in Francia, Belgio, Nord Italia (qui gli operai neo-immigrati erano anch’essi italiani venuti dal Sud)? Quale grande forza collettiva è stata in grado di mettere in atto il primo grande sciopero internazionale nell’intera storia degli Stati Uniti, il 1° maggio 2006, se non quella degli immigrati e delle immigrate dal Messico, dal Sud America, dall’Asia, furenti per la criminalizzazione di stato degli undocumented? All’altro polo dello sviluppo capitalistico contemporaneo, la Cina in ascesa, chi se non i mingong, le giovanissime e i giovani emigrati interni, hanno riempito la scena di una miriade di scioperi a tal punto diffusa e imbarazzante da costringere gli uffici statistici di stato a sospendere le rilevazioni dei conflitti sociali? E nella intorpidita Italia di oggi chi tiene viva l’arma dello sciopero, chi rinnova le grandi tradizioni di solidarietà di classe (“chi tocca uno, tocca tutti”), se non i facchini e i driver della logistica di decine di nazionalità diverse, con alla testa, molto spesso, proprio quei maghrebini, quegli “islamici” che tanto repellono ai sovranisti “di sinistra” di tutta Europa?[25]

E quanto alle tradizioni del movimento operaio tedesco, sarà pure minoritaria, lo è, ma c’è stata e c’è in esso anche un’altra tradizione, quella internazionalista, che espresse Karl Liebknecht nel rapporto alla Conferenza di Essen, nel 1907:

 

«Ho avuto molte occasioni per osservare la miseria degli immigranti in Germania, ed in particolare la loro dipendenza dalla polizia. Conosco le difficoltà a cui debbono far fronte. Il loro status legale da 'proscritti' [da 'illegali'] dovrebbe spingere in modo speciale noi socialdemocratici tedeschi ad occuparci energicamente delle leggi che riguardano i diritti degli stranieri, e ad impegnarci per eliminare la disgrazia della deportazione. Per questo la risoluzione congressuale chiede la completa eguaglianza di diritti tra cittadini nazionali e immigrati, anche per ciò che riguarda il diritto a stare sul territorio nazionale. Abbasso la spada di Damocle della deportazione! È questa la prima precondizione perché i lavoratori stranieri non siano più predestinati a deprimere i salari e a rompere gli scioperi».

 

Ecco la soluzione à la Marx delle contraddizioni descritte (e strumentalizzate) da Wagenknecht e Streeck! Liebknecht sapeva molto bene, e noi con lui, che padroni e governanti, forti delle dinamiche spontanee del mercato, operano con metodo e abilità per scagliare i lavoratori autoctoni e quelli immigrati gli uni contro gli altri, in modo da poter più agevolmente sfruttare e vessare gli uni e gli altri. Per questo rivendicava la completa, effettiva eguaglianza di condizioni di lavoro e di diritti tra essi, battendo su un tasto - lo status legale degli immigrati - che è ancor oggi fondamentale. E va affrontato battendosi per la regolarizzazione incondizionata di tutte le lavoratrici e i lavoratori immigrati presenti sul territorio dell'Unione europea con un permesso di soggiorno europeo a tempo indeterminato. Ad uno Streeck che gonfia fino all’inverosimile singoli casi per dipingerci il rifugiato e, per proprietà transitiva, l’immigrato come un individuo incline a violare le leggi, quasi naturalmente attratto dalla illegalità, oppongo che la lingua tedesca ci fornisce la parola corretta per raffigurare la condizione a cui sono forzati di frequente, contro la loro volontà e i lori interessi, tanti immigrati: illegalisierten. Ossia: resi illegali, obbligati alla irregolarità. Questa è la regola, non quella del rifugiato afghano furbo e benestante. Quanto ai confini, sarà anche ingenuo che tutto si risolva con la loro apertura, è vero; ma è certo che nessun problema dei lavoratori nativi si risolve con la chiusura dei confini e le connesse retoriche e prassi razziste. I veri confini sociali passano tra gli sfruttati di tutte le nazionalità e gli sfruttatori di tutte le nazionalità. Tanto più in un mondo così unificato (nella disuguaglianza) come quello contemporaneo.

 

Le paure, i pregiudizi, l'istintiva avversione di certi strati sociali autoctoni impoveriti, destabilizzati dalla precarietà, deprivati (anche in termini culturali), vanno combattute con la prospettiva di una lotta solidale, comune tra popolazioni lavoratrici autoctone e immigrate. Una lotta fondata sulla comunanza di condizioni, bisogni e prospettive. I bisogni autentici della comune umanità autoctona e immigrata sono forse differenti? E non è un penoso controsenso parlare di “scarsità di risorse” per soddisfare questi bisogni, proprio all’apice dello sviluppo storico delle forze produttive da parte del capitale, che è anche l’apice delle produzioni inutili e dannose da tagliare di netto?

 

6. Abbiamo dunque tutti i motivi del mondo per ingiungere a coloro che, accodandosi alle destre europee, credono di poter usare da “sinistra” contro gli immigrati gli scritti e le posizioni di Marx sull’esercito industriale di riserva e le migrazioni, manipolandoli per gli ignari: giù le mani da Marx!

Se costoro si illudono, e illudono, che le piaghe sociali della disoccupazione e della precarietà strutturale possano essere curate, e che i meccanismi di sistema che sono alle origini delle migrazioni internazionali possano essere tenuti a bada, con l’erezione di barriere nazionali e il “nazionalismo sociale”, a me pare invece fin troppo ovvio che questi processi sono destinati ad accentuarsi quali che siano le politiche dei singoli stati nazionali. Perché le loro cause determinanti affondano nelle leggi impersonali e “automatiche” del capitalismo, e non nella “globalizzazione neo-liberista”, essa stessa un prodotto di quelle leggi. In tutto l’Occidente l’esercito proletario di riserva crescerà per l’inesorabile rallentamento del tasso dell’accumulazione (la variabile indipendente dimenticata da costoro); in Oriente per la furiosa intensità della penetrazione capitalistica in agricoltura. Insieme a questo, il debito estero, i disastri ecologici, l’interminabile catena di guerre, produrranno nuovi enormi contingenti di emigranti dal Sud e dall’Est verso il Nord e l’Ovest del mondo, ma – l’Italia insegna – ci saranno anche significativi movimenti migratori dentro il Nord, e dentro il Sud del mondo. Un’ulteriore spinta in questa stessa direzione, tanto in Occidente che in Oriente, la darà l’ossessione capitalistica per la crescita della produttività del lavoro con il dispiegamento della “quarta rivoluzione industriale” e del “Great Reset” post-pandemia, che è stato annunciato dal World Economic Forum e dal FMI[26]. La ricerca di “modi completamente diversi di creare valore”, cioè plusvalore, che è il sacro scopo ultimo di Schwab e degli altri architetti di un orrido futuro “trans-umano” iper-capitalistico, va in questa stessa direzione. E l’estremizzazione in corso della “legge generale, assoluta della accumulazione capitalistica”, con la previsione da parte di questi dottor Stranamore, di una disuguaglianza “ontologica” tra un’élite di “vincitori” e una massa sterminata di “vinti”, dà la misura della profondità della crisi della civiltà capitalistica. Le sue false promesse di libertà, eguaglianza, fraternità, sono precipitate nella polvere.

Considerando le cose con un minimo di obiettività, bisogna riconoscere che anche nella materia di cui ci siamo occupati, Marx ha visto avanti, lontano. Molto lontano. Il lontano-molto lontano è oggi. La possibilità di abolire l'attuale immenso esercito industriale di riserva e con esso il sovraccarico di lavoro sempre più estenuante, che ne costituisce l'altra faccia; la possibilità di abolire le migrazioni forzate con i loro tormenti e i loro lutti, e le discriminazioni nazionali e razziali che ad esse si accompagnano; dipende interamente dall'affermazione, nelle lotte, di quella alternativa di sistema sociale, anti-capitalista, anti-coloniale, integralmente umana, che Marx ha schizzato nelle sue grandi linee per noi.

 

 



[1][Quaderno IV] – i corsivi sono miei.

[2]     L’ultimo rapporto dell’ILO, World Employment and Social Outlook. Trends 2020, Geneva, 2020, dà le seguenti stime: nel mondo, su una forza-lavoro totale pari a 3,3 miliardi di persone, i disoccupati o sottoccupati sono 470 milioni, e 1,4 miliardi sono i lavoratori informali che “vivono in condizioni vulnerabili e guadagnano molto meno degli occupati salariati”, una quota significativa dei quali si possono considerare parte dell’esercito proletario di riserva.

[3][Libro I, cap. XXV]

[4] Rosa Luxemburg, Introduzione all’economia politica, cap. 5, punto III

[5]     Libro I, cap. XXV.

[6]     Ivi, fine punto 3.

[7] Una delle novità delle migrazioni internazionali contemporanee, infatti, è costituita dalla presenza delle donne, e dal loro protagonismo anche nell'apertura delle "catene migratorie".

[8]  Cfr. Fondazione Migrantes, Rapporto Italiani nel mondo 2019, Editrice Tau, Todi, 2019; I. Gjergji (a cura di), La nuova emigrazione italiana. Cause, mete e figure sociali, Edizioni Ca’ Foscari, Venezia, 2015.

[9]  Cfr. Eurostat, Migrant Integration statistics 2018 edition, Luxembourg, 2018.

[10]   Cfr. P. Basso (a cura di), Razzismo di stato. Stati Uniti, Europa, Italia, Angeli, Milano, 2015 (4^ ristampa).

[11]   Alla fine del cap. XXV

[12] [è nella parte dedicata a Feuerbach, verso la fine del punto IV]

[13]   D. Fusaro, Glebalizzazione. La lotta di classe al tempo del populismo, Rizzoli, Milano, 2019, lettura su kindle.

[14]   Tutto il libro suggerisce che con la globalizzazione (del capitale, dei rapporti sociali capitalistici) si sta realizzando la trasformazione dei lavoratori in servi della gleba (donde il calembour: glebalizzazione).

[15]   Questa tematica della sovranità - declinata volta a volta come nazionale, popolare, democratica - è svolta, talora in modo più argomentato, sempre con la testa rivolta all’indietro e il nazionalismo (sociale) nel cuore, anche da altri esponenti di riferimento del “sovranismo di sinistra” in Italia, tra cui A. Somma, Sovranismi. Stato, popolo e conflitto sociale, Derive Approdi, Roma, 2018; C. Formenti, Utopie letali: contro l’ideologia post-moderna, Jaca Book, Milano, 2013; Id., La variante populista. Lotta di classe nel neo-liberismo, Derive Approdi, Roma, 2016; V. Giacché, Costituzione italiana contro Trattati europei. Un conflitto inevitabile, Imprimatur, Reggio Emilia, 2015. Tra gli ispiratori di Fusaro c’è, naturalmente, anche il R. Debray di Éloge des frontières, Gallimard, Paris, 2010.

[16]   Che includono anche, strutturalmente, la tortura in senso stretto come è documentato in modo inconfutabile nella splendida ricerca Tortura e migrazioni. Torture and Migration (a cura di F. Perocco), Edizioni Ca’ Foscari, Venezia, 2019.

[17]   Cfr. Appello del Consiglio generale dell’Associazione internazionale degli operai alle sezioni, alle società aderenti e a tutti gli operai, 9 luglio 1867.

[18]   Libro I, fine del cap. 8, la giornata lavorativa.

[19]   Cfr. S. Wagenknecht, Reichtum ohne Gier: Wie wir uns vor dem Kapitalismus retten, Campus Verlag, Frankfurt, 2018; Id., Couragiert gegen den Strom. Uber Goëthe, die Macht and die Zukunft, Piper Verlag, München, 2017 (una sorta di autobiografia); W. Streeck, How Will Capitalism End? Essays on a Failing System, Verso Books, London, 2016 (un’opera sul primato della nazione); Id., Between charity and justice: Remarks on the social construction of immigration policy in rich democracies, “Culture, Practice & Europeanization”, 3 (2)/2018, pp. 3-22. Le posizioni di Aufstehen sull’immigrazione hanno ricevuto molteplici repliche, da soft a taglienti, da C. Crouch, Sahra Wagenknecht: Brauchen wir eine Sammlungsbewegung, “Die Zeit”, August 17, 2018; T. Sablowsky, - H.G. Thien, Die AfD, die ArbeiterInnenklasse und die Linke – kein Problem?, in “PROKLA 190”, 48 (1)/2018, pp. 55-71; S. van Dyk – S. Graefe, The reality of exclusive solidarity. A response to Wolfgang Streeck’s “Between Charity and Justice”, “Culture, Practice & Europeanization”, 4 (1)/2019, pp. 149-154. Un primo, chiaro accenno alla ‘necessità’ di “controllare” e “regolare” l’immigrazione è contenuto in O. Lafontaine, Politik für Alle. Streitschrift für eine Gerechte Gesellschaft, Ullstein, Berlin, 2006, pp. 232-235.

[20]   W. Streeck, Between charity and justice: Remarks on the social construction of immigration policy in rich democracies, cit., p. 20 (il corsivo è mio).

[21]   La polemica di Streeck è contro la decisione della Merkel di accogliere, nel 2015, centinaia di migliaia di profughi siriani.

[22]   Cfr. A. Mitropoulos, Wolfgang Streeck’s neo-romantic sociology, https://s0metim3s.com/2019/03/27/streeck-sociology/, consultato il 4 novembre 2020. Questo abuso della fraseologia “Marx-esque”, nota Mitropuolos, serve a Streeck come “a hallmark of both Polanyan conservatism and Sorelian fascism”, un “craft” vecchio di più di un secolo nel quale questo sociologo economico è l’ultimo venuto.

[23]   cfr. P. Kammerer, Germania: un secolo di politica migratoria, in P. Basso – F. Perocco, Gli immigrati in Europa. Disuguaglianze, razzismo, lotte, Angeli, Milano, 2003, pp. 163-188; e i saggi di D. Vogelskampf e T. Pieper in P. Basso (a cura di), Razzismo di stato (cit.), pp. 215-250.

[24]   Cfr. K.H. Roth, Die “andere” Arbeiterbewegung und die Entwicklung der kapitalistischen Repression von 1880 bis zur Gegenwart, Trikont Verlag, München, 1974

[25]   SI Cobas, Carne da macello. Le lotte degli operai della logistica, Red Star Press, Roma, 2017.

[26]   K. Schwab – N. Davis, Shaping the Future of the Fourth Industrial Revolution: A Guide to Building a Better World: Geneva, World Economic Forum, 2018, e-book; K. Schwab – T. Malleret, Covid-19: The Great Reset, Geneva, World Economic Forum, 2020, e-book; M. Gaddi, Industria 4.0. Più liberi o più sfruttati?, Edizioni Punto Rosso, Milano, 2019.

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