Società della cura?

 

 Dal lavoro alla cura a partire dall'enciclica papale  Laudato sì del 2015, è questa la via maestra della sinistra conflittuale?
 
Il documento di Papa Francesco è forse sopravvalutato, arrivato dopo anni di ubricatura neo liberista anche se negli ultimi lustri non sono mancate, per quanto poche , le voci critiche da economisti, sociologi e pensatori di ispirazione marxista.
 
Non stiamo qui a menzionare tutte le voci fuori dal coro ma se volessimo guardare alla critica verso l'ordoliberalismo  troveremmo innumerevoli pubblicazioni e studi dai quali partire per una critica serrata al modello di sviluppo e alle scelte politiche operate in nome del mercato e di uno stato asservito alla libera circolazione dei capitali.
 
Perchè allora ripartire dall'enclica papale e questo riferimento cristiano non è  forse contraddittorio o comunque il trionfo della cultura cattolica su quella marxista?
 
E' una domanda che poniamo a noi stessi e a quanti operano all'interno del percorso definito Società della Cura che in questi mesi ha avanzato innumerevoli proposte senza dubbio alternative alle scelte intraprese dai Governi italiani ed europei.
 
Non si tratta di sminuire o depotenziare il percorso ma sullo sfondo di alcune analisi, prima tra tutte quella di Guido Viale, intravediamo un vecchio vizio della sinistra italiana che parte dalla critica al modello fordista basato sulla centralità della fabbrica e sullo sviuppo delle forze produttive per agognare un mondo pre industriale e, in questa ottica, diventa naturale abbandonare la analisi marxista per assumere il punto di vista del cattolicesimo sociale. Viale contesta la confusione tra lavoro e percorsi conflittuali, le lotte di emancipazione sociale e salariale  avvenute non solo dentro la fabbrica, luogo produttivo per eccellenza fino alla crisi degli anni settanta, ma soprattutto fuori, in ambito sociale.
 
La società della cura ritiene che la emancipazione sociale e lavorativa debba nascere al di fuori dello sviluppo delle forze produttive ma il rischio che corriamo è quello di  non considerare il rapporto tra forze produttive (scienza, tecnica...) e rapporti di produzione.
 
Lo sviluppo delle forze produttive  viene di solito misurato in base alla crescita  della produttività ossia in base alla quantità di valori d’uso prodotti con una certa unità di capitale, tanto piu' aumenta maggiore sarà il profitto.
 
L’aumento della produttività é insito anche nelle scoperte tecnologiche e nel loro utilizzo in ambito lavorativo, da qui scaturisce la richiesta di ridurre l'orario di lavoro a parità di salario per conquistare nuovi spazi di vita e favorire l'occupazione
 
Invece di utilizzare le tecnologie per ridurre i tempi di lavoro il capitale accresce i propri profitti intensificando lo sfruttamento,  chi opera all'interno dei processi lavorativi subisce processi di alienazione sempre maggiori da parte dei proprietari dei mezzi di produzione
 
E qui entrano in gioco i rapporti di produzione, ossia l'insieme di relazioni  conflittuali tra  produttori e non produttori.  Chi detiene la proprietà dei mezzi di produzione , in nome dei rapporti di forza, impone tempi e modalità lavorative, utilizza a propri fini (il profitto) tecniche, scienza, tecnologia e organizzazione del lavoro. 
 
Secondo Marx è proprio la relazione di proprietà  a determinare l'insieme dei  fenomeni sociali e  di conseguenza anche il controllo delle forze produttive che ribellandosi alimentano il conflitto di classe tra capitale e lavoro.
 
Fin qui nulla di nuovo ma senza dubbio una analisi corretta e puntuale che a nostro avviso resta insuperata se vogliamo comprendere il funzionamento del modo di produzione capitalistico e operare in termini conflittuali dentro il classico conflitto di classe (lavoratori contro capitalisti, sfruttati contro sfruttatori) . Poi ci sarà da aggiornare la analisi degli sfruttati, la loro composizione sociale  dentro processi in continua evoluzione.
 
La società della cura non riprende la classica analisi marxiana ma parte da un altro quesito ossia cosa produrre e per chi, soprattutto in tempi pandemici, un semplice ritorno alla vecchia produzione significherebbe non mettere in discussione un modello che ha palesato invece tutte le sue contraddizioni a partire dall'ambiente e dalla sanità.
 
Ma la critica, del tutto condivisibile, finisce con l'investire la fabbrica e non tanto il modello di produzione capitalista quando una produzione di per sè nociva per la terra e l'umanità, a nostro avviso il ragionamento approda alle teorie della decrescita felice e alla riconversione ambientale eludendo la questione di fondo ossia la proprietà dei mezzi di produzione, il controllo dello Stato, i rapporti di forza che vedono il capitale nell'opera di piegare tutto e tutti alle sue logiche di accumulazione.
 
Se non vogliamo tornare alla normalità antecedente la pandemia perchè è proprio quella normalità la causa del problema (dal liberismo all'inquinamento, dallo sfruttamento selvaggio della forza lavoro fino a quello delle risorse energetiche), non basta costruire un percorso alternativo eludendo la questione dei rapporti di forza e lo stesso conflitto tra capitale e lavoro.
 
Possiamo presentare dei progetti alternativi a quelli del Governo per destinare i soldi del Recovery a opere compatibili con una società della cura ma senza rapporti di forza favorevoli non andremo lontani assomigliando a quei socialisti utopisti che preconizzavano un mondo alternativo al capitalismo estraniandosi dalle principali contraddizioni di classe allora esistenti e finendo con l'essere emarginati e relegati al ruolo di nobili pensatori.
 
Questa è la critica di fondo che muoviamo alla Società della cura, poi ci sono innumerevoli aspetti della loro analisi alquanto suggestivi, ad esempio ove si critica anche la cosiddetta indipendenza di parte del lavoro autonomo di nuova generazione che si credeva del tutto libero dalle logiche del capitale dimenticando il contatto diretto con il mercato che spingeva tante partite iva ad intensificare i tempi di lavoro a discapito di quelli di vita.
 
La precarietà lavorativa ormai è una costante quotidiana  riguardante le partite iva e i lavoratori precari ma perfino quanti hanno una occupazione stabile che resta mal pagata e in balia di cambi di appalto, delocalizzazioni o  licenziamenti collettivi, la precarizzazione del lavoro è il tratto distintivo degli ultimi anni accompagnata dalla perdita di potere di acquisto salariale e di contrattazione sindacale.
 
E proprio nel momento in cui le nostre esistenze diventano sempre piu' precarie crescono le paure percepite, le ricette securitarie, le campagne contro il degrado urbano per farci credere che difendersi dalla micro criminalità o dall'immigrazione sia indispensabile ricorrendo a una sorta di militarizzazione della società con la criminalizzazione degli ultimi. Gli stessi securitari tuttavia non mostrano altrettanta attenzione verso il diffondersi della vera criminalità, quella organizzata che mira direttamente al controllo degli appalti, anzi ogni giorno leggiamo di regole vigenti troppo severe e da semplificare (in materia di anticorruzione e appalti stessi) in nome della ripresa economica.
 
Senza dubbio la società della Cura ha un merito, quello di analizzare tutti i vizi e i difetti della società attuale mettendoci in guardia dalle sirene del capitale ma lo fa eludendo la questione di fondo, quella  dei rapporti di forza e di produzione. Infatti non potrà esserci, come in ogni epoca storica, una transizione pacifica senza soggetti rivoluzionari che si facciano carico di cambiare le cose, se vogliamo un lavoro non degradato (anche in termini retributivi) capace di produrre benessere per l'umanità dovremmo partire proprio dai rapporti di proprietà altrimenti ogni analisi, anche la migliore, sarà destinata ad essere astratta come lo furono le idee dei socialisti utopisti dell'ottocento.
 

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