Tempos modernos, jornadas antigas na era da escravidão digital e das migrações globais Lisbona - 15 novembre 2019

 

Tempos modernos, jornadas antigas

na era da escravidão digital e das migrações globais

Lisbona - 15 novembre 2019

 

 

Sulla durata della giornata lavorativa capitalisti e proletari sono in conflitto da più di cinque secoli. Per i primi tre secoli i manifatturieri e i capitalisti sono riusciti ad allungare a dismisura la giornata di lavoro, creando un nuovo tempo sociale separato da quello della natura. Dalla fine del 1700, però, è iniziata la lotta degli operai e dei proletari per ridurre la giornata lavorativa e conquistare per sé tempo libero dal lavoro. Marx ha definito questo conflitto "una guerra civile tra la classe dei capitalisti e la classe degli operai, lenta e più o meno velata". Ed è così. Si è trattato, e si tratta, di uno scontro di portata sociale radicale tra la classe dei proprietari del tempo sociale e la massa di quanti/e sono costretti/e, per vivere, a vendere il proprio tempo di vita.

L'acme di questo scontro è stato raggiunto nel periodo che va dal 1848 al 1919. Proprio nel 1919, al culmine del ciclo rivoluzionario di inizio ventesimo secolo, il proletariato industriale ha conquistato la giornata lavorativa di 8 ore in diversi paesi europei e in alcune aree degli Stati Uniti. Tale conquista, frutto di una lotta internazionale durata mezzo secolo, fu subito attaccata dai capitalisti, e poi completamente cancellata nella seconda guerra mondiale con il disciplinamento militare del lavoro operaio.

Anche nel secondo dopoguerra hanno dominato lunghi orari giornalieri, associati a bassi salari. Solo alla fine degli anni '60 si è riaccesa in Europa la lotta operaia per la riduzione dell'orario di lavoro settimanale intorno all'obiettivo delle 40 ore pagate 48. Tuttavia la durata della giornata lavorativa è rimasta, nella media, quasi intatta. Oggi, un secolo dopo il fatidico 1919, la giornata lavorativa normale nell'industria europea e occidentale è ferma alle 8 ore a fronte, però, di un'enorme crescita della produttività del lavoro e della densità del tempo di lavoro.

 

Tutto fermo, allora?

No, tutto si muove in direzione dell'allungamento degli orari dei salariati a tempo pieno. Due anni fa, in Germania, il paese-guida dell'economia europea, è partito addirittura, un attacco istituzionale (del German Council of Economic Experts) alla giornata lavorativa di 8 ore. È 'outmoded', dicono i 5 saggi; ci vuole una giornata lavorativa più flessibile e de-regolata, cioè più lunga. Questo attacco è il culmine (per ora) di un'ininterrotta offensiva lanciata dalle imprese a metà anni '70 per allungare l'orario di lavoro in tutte le sue dimensioni: anzitutto quella giornaliera, poi quelle settimanale, mensile, annuale, sull'arco della vita. Un'offensiva rafforzata in mille modi dagli interventi dei governi e degli stati. L'Hartz IV, il Jobs Act, la Loi Travail, le riforme Rajoy e Passos-Coelho in Spagna e Portogallo, la legge-schiavitù di Orban, la nuova disciplina degli orari in Austria, le normative dell'Unione Europea ai limiti della criminalità come quella che fa diventare normali, per i piloti, 11 ore di volo notturno, 14 ore consecutive di servizio, 22 ore di veglia prima di compiere un atterraggio... l'elenco è infinito. La "voracità del capitalismo contemporaneo", nota Jonathan Crary, aspira ad un universo 24/7 illimitato, in cui anche il sonno, che non produce valore, sia attaccato. Quel delizioso universo che già sperimentano ogni giorno in Italia più di un milione di donne ucraine, romene, moldave, russe, filippine, peruviane addette al lavoro di cura...

 

Questa ininterrotta offensiva con epicentro nei paesi occidentali è la risposta capitalistica alla caduta del saggio di profitto avvenuta tra il 1945 e il 1982, la più marcata e prolungata della storia. La crescita esponenziale della produttività e dell'intensità del lavoro avvenuta dal 1919 a oggi ha ridotto drasticamente la parte della giornata lavorativa che corrisponde al salario. Per cui, per le imprese, è sempre più complicato realizzare un'ulteriore, forte espansione del tempo di lavoro non pagato, se l'orario di lavoro medio rimane quello che è. Tanto più complicato anche perché la nuova rivoluzione tecnologica in atto non sta assicurando gli aumenti di produttività attesi. Per risollevare i margini di profitto, è giocoforza allungare l'orario di lavoro effettivo in tutte le sue dimensioni, a cominciare da quella giornaliera, facendo ricorso in modo sempre più sistematico, spinto, esplicito al vecchio, caro plusvalore assoluto. È anche per questo che nei luoghi di lavoro si è intensificato il dispotismo, per vincere le resistenze, spontanee e organizzate, a questo ritorno all'indietro. Appunto: tempi moderni, orari e metodi padronali antichi.

Questa tendenza generale non è certo smentita dall'espansione dei cosiddetti servizi. Anzi!, secondo l'OIL la cosiddetta "terziarizzazione" è "una causa maggiore di orari lavorativi più lunghi". E le aziende di ultima generazione di maggior successo che operano proprio nel campo dei "servizi" (Amazon, Walmart, Zara, RyanAir, etc.) sotto tutte primatiste nell'imporre una fortissima pressione temporal e un'aggressiva politica anti-sindacale. Un'altra prova del fatto che, come sostiene Ricardo Antunes, la legge del valore ha allargato il suo raggio di azione - altro che il suo tramonto!

 

Questa offensiva capitalistica si è avvalsa e si avvale, tra l'altro, di tre fattori:

1)la crescente concorrenza diretta in quasi tutti i rami della produzione e della circolazione delle merci, tra i lavoratori dei paesi occidentali e quelli dei paesi del Sud e dell'Est del mondo - dove la giornata lavorativa media è tra le 9 e le 10 ore al giorno e gli orari di lavoro settimanali, mensili, annuali sono ovunque molto più lunghi di quelli occidentali;

2)le crescenti migrazioni internazionali, effetto delle disuguaglianze di sviluppo, del debito estero che strangola tanti paesi del Sud del mondo, della trasformazione capitalistica dell'agricoltura sotto il dominio dell'agribusiness, dei disastri ecologici, dell'interminabile catena di guerre neo-coloniali, ma anche dell'aspirazione diffusa specie tra le donne del Sud del mondo, a una vita degna di essere vissuta;

3)la formazione del più grande esercito di riserva della storia del capitalismo, circa un miliardo di disoccupati e sottoccupati - costretti, come le lavoratrici ed i lavoratori immigrati, ad accettare forme estreme di super-sfruttamento e di precarietà, fino al contratto a zero ore, i voucher, gli stage, o il lavoro volontario interamente gratuito imposto a tanti richiedenti asilo.

 

Insomma: è in corso a scala globale un duplice, drammatico spreco della capacità di lavoro di miliardi di lavoratori e lavoratrici. A centinaia di milioni di loro è imposto un pesante sovraccarico di lavoro, mentre altrettanti e più uomini e donne sono costretti, contro la loro volontà, contro i loro desideri, contro le loro aspettative, all'inattività, scoraggiati, o forzati a sopravvivere a stento con lavoretti precari, saltuari, umilianti, a orari (e salari) molto spesso ridotti. Per quanto mistificato e occultato, si tratta di un dato di fatto anti-sociale incontestabile - una contraddizione fondamentale, potenzialmente esplosiva nel rapporto tra capitale e lavoro salariato. Esso ridà attualità e centralità oggettiva alla prospettiva storica della lotta per la riduzione drastica e generalizzata della giornata di lavoro, ma riformulata in modo tale da dare risposta anche alla terribile crisi ecologica in corso.

 

Diversi esponenti delle élite del potere avvertono il duplice rischio, socio-politico ed economico, che questa contraddizione comporta, e più comporterà con la piena maturazione della rivoluzione robotica e l'introduzione di strumenti informatici di seconda e terza generazione. Ma nelle alte sfere pochissimi pensano anche a un minimo alleggerimento degli orari di lavoro, e nessuno alla drastica, generalizzata riduzione di orario a parità di salario. Lo conferma un recente documento della WB, "The changing nature of work", che pretende la cancellazione di ogni residua regola nei rapporti di lavoro e nelle prestazioni di lavoro. La discussione si concentra sulle forme e le condizioni di "reddito garantito", dando tutti per scontato che non si può trattare del salario medio operaio garantito, bensì solo di forme transitorie e parziali di 'integrazione del reddito' dei più poveri - una sorta di reddito di sopravvivenza a tempo, che non ha quasi mai un carattere di universalità.

Ma sono altre le armi letali con cui la super-class dei funzionari del capitale globale intende impedire l'esplosione della contraddizione di cui abbiamo detto: la più intensa messa in concorrenza di occupati stabili, precari e disoccupati, e l'attizzamento dell'antagonismo tra lavoratori autoctoni e immigrati attraverso una vera e propria politica di guerra, propagandistica e effettuale, contro gli emigranti/immigrati indicati come massimi responsabili, vere cause del malessere sociale prodotto dalle crisi e dalle politiche anti-sociali dell'era "neo-liberista". Il capro espiatorio su cui i lavoratori autoctoni, specie i più marginalizzati e precari, debbono accanirsi, se vogliono salvare la pelle.

 

Un movimento operaio in profonda crisi si trova davanti così, a una doppia, grandissima sfida: rimettere in campo la prospettiva della riduzione generalizzata e drastica della giornata lavorativa, impegnarsi in prima fila nella lotta al razzismo. Il vecchio movimento operaio non mi pare in grado di sostenere una simile sfida, non ci prova neppure. Ma sono convinto che queste tematiche tra loro strettamente legate saranno della massima importanza per un rinato movimento proletario.

Oggi è possibile e necessario opporre alla duplice dissipazione di energia vitale dei lavoratori imposta dall'insaziabile fame di sopralavoro del capitale, la prospettiva  del  "lavorare meno per lavorare tutti/e, lavorare tutti/e per lavorare meno". La classe lavoratrice può e deve rivendicare per sé i benefici dell'enorme incremento della produttività del lavoro degli ultimi decenni e della rivoluzione tecnica in corso, perché sono il risultato del "lavoratore sociale complessivo". La questione, però, non è di mera quantità, tutt'altro! Enormemente più di ieri e ieri l'altro, una quota crescente della produzione di merci è inutile o dannosa, anti-sociale, anti-ecologica. Mészáros, Goldner e altri prima di loro hanno mostrato e criticato la capacità del capitalismo maturo di fabbricare bisogni indotti, artificiali, non corrispondenti a reali necessità umane, con l'esponenziale incremento della "produzione distruttiva", del saccheggio della natura, dei consumi di lusso, degli sprechi e delle relative gigantesche montagne di rifiuti non riciclabili - a cominciare da computer e telefonini, merci 'dotate' della più rapida obsolescenza programmata. La finanza, le assicurazioni, le agenzie di commercio dei beni immobili, il gigantesco apparato militare industriale e securitario mondiale, molta parte dell'high tech e delle telecomunicazioni, etc.: al carattere crescentemente anti-sociale e anti-ecologico del modo di produzione capitalistico si può e si deve opporre il lavoro socialmente necessario per la soddisfazione di bisogni autenticamente umani. Il che dà ulteriore forza alla prospettiva della riduzione generale e drastica della giornata lavorativa, perché la motiva con la possibilità/necessità di tagliare una vasta gamma di produzioni, a cui può e deve seguire l'applicazione dei lavoratori 'liberati' da esse ad attività socialmente necessarie e utili che certo non mancano.

Si può dire altrettanto dell'enorme spreco di energia vitale umana, di capacità di comprensione del mondo e di cooperazione sociale realizzata su un piede di effettiva eguaglianza, che deriva dalla diffusione di ideologie, politiche, leggi, sentimenti, pregiudizi e pratiche razziste. E dell'enorme carico di sofferenze e di dolore sociale associato alle migrazioni internazionali, che sono, per me, essenzialmente migrazioni forzate. Anche in questo caso non si tratta solo di mettere in questione le disuguaglianze giuridiche, salariali, quantitative; va messa in questione la divisione internazionale del lavoro creata dal colonialismo, il vecchio che è ancora presente e vorrebbe essere eterno.

Chiudo: ciò che sta dietro questo mio ragionamento è, certo, la grande crisi del 2008. Ma non nella sua semplice dimensione finanziaria, bensì come intreccio di crisi economica, crisi ecologica, crisi dell'ordine internazionale, crisi di valori e di prospettive - crisi di civiltà, della civiltà capitalistica. Ciò che sta davanti a noi è un'epoca di acutissimi conflitti sociali, in cui spero riusciremo a liberarci insieme dal sopra-lavoro, dalla precarietà esistenziale, dalla disoccupazione, dal razzismo. E ad impiegare il tempo e l'energia vitale liberati dal lavoro coatto a smontare pezzo dopo pezzo la divisione sociale, sessuale, anti-ecologica e internazionale del lavoro messa in piedi nei secoli dal modo di produzione capitalistico. Per aprire la strada al futuro sognato nei nostri sogni più arditi. La scienza sociale degna di questo nome non potrà mancare a questo appuntamento.

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