Praga, Muro di Berlino e......corrispondenza dall'Est di Tiziano Tussi

Questo periodo dell’anno in corso rimanda facilmente a rimbalzi di trent’anni nel passato. 1968-1969 ribellioni e manifestazioni giovanili e non solo. Trent’anni dopo, circa, l’abbattimento del muro di Berlino, trent’anni ancora ed eccoci qua, a ricordare quegli avvenimenti. Il centro del ricordo è ora, naturalmente, la Germania, ma anche in altri Paesi europei quei ritorni trentennali sono ancora vivi, più o me o sensatamente. Uno sguardo, anche rapido, a Praga in questo mese ci fa capire ancora molte cose, che poi possiamo usare anche nel nostro Paese, che poi possiamo usare anche per capire dove molto probabilmente si andrà a finire, intendo politicamente, se non interverranno fatti che considerati ora, sperati ora, possono avere del miracolistico, tanto appaiono impossibili ad essere.

A Parga vi sono, un po’ in giro per la città, foto che simboleggiano la primavera di Praga, estate del 1968, i roghi di giovani nel 1969, a distanza di qualche mese l’uno dall’altro. Jan Palach ha lasciato il segno più profondo, 16 gennaio del ’69, 21 anni, studente; ma anche altri seguiranno il suo esempio. Quelle foto, ad esempio in una mostra nella Prague New City Hall (Nová radnice), sede del sindaco della città di Praga, percorrono tre momenti topici della storia praghese e ceca: la prima guerra mondiale, l’occupazione nazista e lo scossone al regime comunista degli anni appunto 68-69. Il tutto viene messo in relazione proprio all’abbattimento del muro di Berlino trent’anni fa. Leggendo in contemporanea Angelo Maria Ripellino, I fatti di Praga, mentre si viene investiti da questo vento di memoria, un testo Scheiwiller del 1988, raccolta di alcuni suoi scritti sulla stampa dell’epoca, dal ’68 al ’73, si ha ancora di più l’impressione vivida di quel tempo. Questo testo rende precisamente le speranze dei liberali e degli anticomunisti, comunismo in versione strettamente staliniana, per Ripellino, del popolo intero, verso non si sa bene cosa, che comunque viene definita come libertà dallo stesso. Il Ripellino di queste cronache, non del suo libro maggiore, Praga magica, molto mieloso e ripetitivo, che non esce appunto dal magicismo praghese, che esiste naturalmente.

L’Autore, dicevo, ci dà un preciso inquadramento psicologico di quegli anni.

E lo si percepisce ancora ora, in quelle foto, prima citate, in quelle facce, nelle parole delle guide turistiche che spiegano la situazione di allora drammaticamente, descrivendo la tragedia del secolo scorso, e condannando senza possibilità alcuna di motivazione ad essere di quel regime. Guide che parlano le lingue dei turisti che a Praga vengo da tutto il mondo. Lingue del mondo. E le loro spiegazioni sono sempre quelle: regime, dittatura, Dubček, Havel, speranze soffocate nel sangue e nell’oppressione più cieca.

Certo i morti non sono stati molti, allora; certo le truppe del patto di Varsavia avevano quasi timore nel fare il loro lavoro; certo la popolazione di Praga, parlano chiaro sempre le foto, aveva molta capacità di inserirsi negli interstizi psicologici dei giovani soldati del Patto di Varsavia, che stavano sui carri armati, vi si arrampicavano e cercavano un dialogo. Ma nulla valse.

Gli uomini della speranza, comunisti anche loro, ma a diverso titolo, non staliniani, non ebbero possibilità. E così dopo decenni, e l’abbattimento del muro di Berlino e dell’URSS, la destra in quei Paesi si è fatta largo. Antisemitismo, partiti organizzati antisemiti lì come in tutta Europa, sia quella ex comunista sia anche in Paesi che non hanno vissuto quella stagione, come in Italia. E si capisce come l’assenza di intelligenza politica, allora, abbia portato a distruzione del costruito, in ogni senso, a problemi che appaiono oggi insormontabili, ora, dopo che il fenomeno comunista è tramontato. Senza più potere, le idee si rivelano nelle loro debolezze.

Se non ci si pensa a tempo, queste prevalgono ed assumano una dimensione via via più imponente. La vita sociale viene perciò marchiata da quello che il capitalismo, di livello assoluto, vuole proporre. Nel campo della moda, dei giochi, cucina, viaggi: insomma bella vita; così a Praga come in tutto il mondo. E di contro una mera di paccottiglia di oggetti e di vita per la massa di adoratori del lusso. Poco o niente è rimasto, a Praga, dell’influsso di Jan Hus e della sua riforma, cui il rogo di Palach era stato accostato. L’austerità della vita sociale sparisce per fare emergere la voglia di avere e sembrare.

Anche qui il comunismo non è riuscito a lasciare sul terreno nessuna lezione di eticità nella società che gli è succeduta. Poi non importa che a poche decine di chilometri dalla città vi sia il campo di Terezin, campo di beffe e di morte del periodo della Seconda guerra mondiale. Beffe, perché doveva apparire come il campo in cui gli ebrei avevano trovato la loro patria, in Cecoslovacchia, da organizzare e morte per ovvie ragioni. Lì morirono decine di migliaia di persone e furono spedite ad Auschwitz una quantità ancora maggiore di umani di ogni età, destinati alla morte in quel campo di sterminio. Un diario di quella tragica situazione è quello di Petr Ginz, sconosciuto ai più, pubblicato da Frassinelli nel 2006, ed ora fuori catalogo. Lo si trova in rete, un po’ a fatica. Diario di un ragazzino di 16 anni, che cominciò a scriverlo qualche tempo prima della sua morte a quell’età.

Questa dimenticanza, lì come altrove, di quello che fu è stata aiutata dalla miopia dei regimi comunisti che con poca intelligenza hanno lavorato per questo risultato, in modo inconscio, ovviamente, ma in ogni caso deleterio. E se vi erano ragioni di politica internazionale che potevano supportare una tracotanza ideologica senza scampo, un’alternativa teorico-pratica possibile non è stata neppure pensata. Il comunismo non è, nella mente e negli scritti dei suoi ordinatori teorici, Marx ed Engels in primis, un sistema di tristezza e povertà, economica e psicologica. Se questo non si tiene presente. La destra, il capitalismo assoluto, avranno sempre fiato e voce da alzare contro il totalitarismo, o supposto tale.

Uno stralcio di discussione, tanto per aggiungere altra legna al fuoco: “Comunque… la prima cosa che mi ha colpito è stata la bruttezza delle vostre ragazze. Naturalmente vi sono eccezioni, ma generalmente parlando, l’elemento femminile nelle riunioni del vostro Partito, alle conferenze, ai dibattiti, aveva tutta l’aria di una collezione di Cenerentole nevropatiche desiderose di rovesciare una società nella quale nessuno le aveva invitate mai a ballare.

E, a conoscere gli uomini si fa per lo più la stessa constatazione…tra voi prevale il tipo dell’eterno adolescente…naturalmente sono intelligenti, molto più dei nostri, ma in modo contorto, contrastato…Ci sono timidi, i fanatici della violenza, i libertini che arrossiscono, i Danton inetti; i dialettici che ti spaccano un capello in quattro e propugnano la semplicità proletaria, gli Edipi in cerca di espiazione, i cadetti gelosi dei fratelli maggiori …se ne può concludere che è tutta una faccenda che rientra nel campo della psicanalisi e non della sociologia…la guerra è così naturale come le barricate per i poveri; noi non abbiamo bisogno di fondarci su astrazioni o su altre questioni ipotetiche.

[] Non capisce che quello che noi stiamo facendo è una vera rivoluzione [] Tutte le idee che hanno dato un’impronta la mondo, su scala internazionale, hanno cominciato la conquista rivestite da immagini di tribù: la Lupa Romana, il Santo padre, la madre dei Parlamenti, la Terra promessa del proletariato…Per ottenere riconoscimenti universali, un’idea deve mobilitare la forza della tribù latente nella razza del suo promotore…se un’idea deve conquistare, ci devono pur essere dei conquistatori…” (Arthur Koestler, Arrivo e partenza, Mondadori, Milano 1966, pp. 191/198) Qui è un nazista che parla. Quante analogie con l’oggi, quanti rimandi alla memoria dello ieri e dell’altro ieri. Quante porte aperte

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