Ilva: facciamo il punto?

Intanto partiamo da quanto scritto ieri dal Sindacato Generale di Base, un volantino sintetico che riassume due questioni: i soldi per riconvertire e nazionalizzare l'Ilva ci sono, non c'è invece la volontà politica di distogliere fondi dalle spese militari per investire in nuove tecnologie, lavoro e bonifica ambientale. Il secondo punto saliente è rappresentato dalla notizia /pubblicata da Il Fatto Quotidiano \ secondo cui già al momento della cessione dell'Ilva alla ArcelorMittal era chiaro che gli impegni assunti dalla multinazionale sarebbero stati disattesi.

Rinviamo al testo del volantino nazionale di SGB

http://www.sindacatosgb.it/it/85-nazionale/1081-ilva-che-fare

Proviamo a questo punto ad approfondire alcune questioni

Arcelor Mittal ha accumulato immense ricchezze, la multinazionale della famiglia indiana controlla il piu' grande gruppo siderurgico oggi esistente.

La famiglia indiana e i Riva hanno qualcosa in comune, come ricostruito da Il Sole 24Ore del 9 Novembre, ossia  stesse strategie, o schemi come li definisce il quotidiano economico, nella messa al sicuro il patrimonio di famiglia.

Citiamo testualmente: i sei trust erigono un muro di riservatezza intorno agli averi della famiglia Mittal. In teoria il trust crea una separazione tra i beni e i suoi proprietari, che non ne possono più disporre avendoli affidati a un trustee: in questo caso Hsbc. Ma la legge di Jersey è una legge particolare. E tra le clausole dell'atto di nascita dei sei trust ce n'è una che dice che ogni decisione importante deve essere assunta con il consenso scritto di Lakshmi Mittal, che è contemporaneamente settlor (cioé il disponente), il protector e il beneficiario dei trust.

Chi possiede i sei trust ottiene i dividendi e gli utili ma non prima di avere fatto il giro del mondo attraverso i paradisi fiscali. Una situazione diffusa, quella di multinazionali che scelgono come sede qualche paradiso fiscale creando una rete complessa di società che poi fanno riferimento sempre alla famiglia indiana.I trust hanno sede in una isoletta, controllano il 100% di una società che ha i suoi impianti a migliaia di km di distanza. Il capitalismo finanziario e predatorio ha scelto i paradisi fiscali per mettere al sicuro le proprie ricchezze.

Utili  e dividendi azionari, i profitti delle aziende vengono incassate dai trust che hanno sede appunto nell'isoletta per poi approndare al Lussemburgo dove i Mittal   possiedono  il 100% della Value Holdings che a sua volta controlla due società che detengono le azioni di Arcelor Mittal, un sistema basato sulle Holding che poi contraddistingueva anche i Riva,  precedenti padroni dell'Ilva a cui la fabbrica era stata s\venduta in fretta e furia con le privatizzazioni delle aziende statali.

La famiglia indiana, seppure indirettamente, ha altre proprietà in Italia, un sistema complesso che poi ritroviamo in ogni multinazionale che opera sui mercati mondiali,  i governi nazionali risultano spesso impotenti, per questa ragione la nazionalizzazione diventa un'arma importante se utilizzata nei termini giusti ossia non guardando solo alla produzione ma mettendo insieme bonifica del territorio, investimenti e riconversione. Perchè sia ben chiaro che non si tratta di salvaguardare la produzione dell'acciaio ma di imprimere indirizzi ben precisi alla politica industriale di un paese che da 30 anni delocalizza, non innova e non investe consentendo, con gli ammortizzatori sociali, a grandi aziende di accumulare utili e dividendi per le proprietà azionarie.

Ma andimo oltre e proviamo a capire le strategie del Governo Conte dentro cui operano due spinte: da una parte chi è disposto ad accordare ulteriori soldi ad Arcelor Mittal incluso lo scudo penale. Sono in piedi innumrevoli processi che potrebbero investire l'attuale proprietà per la morte di alcuni operai nello stabilimento di Taranto, la mancata bonifica del territorio, gli investimenti pattuiti ma mai effettuati, un piano industriale presentato 3 anni e già allora palesemente inadeguato perchè costruito sulla necessità di esternalizzare parte della produzione. E sullo sfondo 5000 posti di lavoro, anzi molti di piu' se pensiamo all'indotto , a rischio e la salute di una popolazione che da anni paga sulla propria pelle inquinamento e devastazione ambientale con  centinaia  di tumori  e di morti, con i bambini del rione Tamburi che non possono andare a scuola, o giocare all'aria aperta, nei giorni di vento quando si diffondono nell'aria le polveri minerarie.

Qualunque sia la scelta operata, se chiudere la fabbrica o mantenere la produzione ma iniziando dei lavori con i lavoratori in cassa integrazione, il nostro paese pagherà un conto salato, sono questi i risultati delle politiche intraprese per decenni, incuranti delle devastazioni ambientali e desiderosi di svendere il patrimonio pubblico a multinazionali che non hanno intenzione di rilanciare la produzione bonificando il territorio. E allo stato attuale non esiste alcuna idea su come riconvertire la produzione, una riconversione che necessiterebbe di percorsi lunghi tra studio , investimenti e nuove tecnologie.

La storia non è maestra di vita, ricordiamoci che l'Italia è tra i paesi piu' arretrati in materia di bonifica ambientale, quando si sono chiusi impianti pericolosi per la salute dei cittadini non si è passati alla fase due, ossia alla bonifica e alla gestione del territorio destinando le ex aree industriali ad altro uso, o produzione, senza ricadute negative sulla salute.

Qualcuno ha ipotizzato la spesa di 100 milioni di euro per riconvertire i lavoratori Ilva e dell'indotto, non saranno sufficienti i tradizionali ammortizzatori sociali per fronteggiare l'emergenza.

Qualora si volesse continuare con la produzione di acciaio il 50% dei posti di lavoro parrebbero perduti in partenza senza considerare  che solo per ricostituire il magazzino e l’altoforno 2 (ammesso e non concesso che questa operazione sia compatibile con la salute dei cittadini e dei lavoratori stessi) servono 150  milioni di euro.

E poi non dimentichiamoci  dei 5 mila addetti  già da tempo in cassintegrazione (il costo degli ammortizzatori sociali è 130 milioni di euro) , gli oltre 6mila occupati nell’indotto. Alla fine il conto a carico dello stato potrebbe essere tra  8oo e 900 milioni di euro.

Ma chiudiamo con una domanda: per quale motivo ArcelorMittal vuole restituire l'Ilva allo stato italiano?  Rispondiamo con le parole di Alessandro Marescotti, ambientalista storico di Taranto e animatore di Peacelink (https://www.peacelink.it/ecologia/a/46993.html)

La chiave interpretativa per cogliere le vere ragioni di questa scelta è nel rigo 12 del comunicato di ArcelorMittal, in cui sostanzialmente si afferma che l'ILVA non è in grado di rispettare l'ultimatum della magistratura circa la messa a norma dell'altoforno numero 2, quello dove morì l'operaio Alessandro Morricella, investito da una grande fiammata dovuta a un malfunzionamento dell'impianto.
"I provvedimenti emessi dal Tribunale penale di Taranto obbligano i Commissari straordinari di ILVA a completare talune prescrizioni entro il 13 dicembre 2019". Tale data, osserva ArcelorMittal, è "impossibile da rispettare per gli  stessi Commissari". 
Non solo: ArcelorMittal fa notare che anche gli altri due altoforni in funzione dovrebbero adottare "ragionevolmente e prudenzialmente" le precauzioni tecniche previste per l'altoforno 2. In tal modo l'azienda ammette implicitamente che anche gli altri due altoforni non adottano le tecnologie per garantire la sicurezza per i lavoratori.
La messa a norma di tutti gli impianti e l'adozione per gli altoforni delle migliori tecnologie disponibili doveva terminare nel luglio 2014, secondo il cronoprogramma dell'Autorizzazione Integrata Ambientale ILVA. I lavori, cominciati pro forma nel 2012, hanno segnato continuamente il passo in una sceneggiata che ha rasentato il grottesco. Se non fosse avvenuta l'adozione delle migliori tecnologie disponibili, la prima legge Salva Ilva del dicembre 2012 prevedeva il fermo degli impianti, che attualmente sono sotto sequestro penale in virtù dei provvedimenti della magistratura che sta processando i vertici dell'ILVA. Con sfrontata determinazione i vari governi hanno cambiato quella legge con proroghe e deroghe che hanno rendo poi necessaria l'adozione dell'immunità penale in quanto gli attuali impianti sono in funzione a rischio e pericolo di chi li fa funzionare. Permangono numerose carenze ed emerge la mancanza di requisiti minimi importanti quali i certificati di prevenzione incendi degli altoforni, delle cokerie e degli altri impianti ad alto rischio. 
In queste condizioni è stato ridotto lo stabilimento siderurgico più grande d'Europa con una politica di proroghe e deroghe che è servita solo a tirare a campare e a spostare sul governo successivo la "patata bollente". Abbiamo assistito a uno scaricabarile continuo che non ha fatto onore allo Stato Italiano che è infatti stato condannato dalla CEDU (Corte Europea dei Diritti dell'Uomo) per non aver protetto i cittadini di Taranto.
In conclusione possiamo dire che è caduta la foglia di fico e che viene detta finalmente la verità: ILVA ha impianti pericolosi e fuori norma che richiederebbero investimenti mai fatti e che - date le ingenti perdite - non verranno mai fatti. Volevano proseguire con uno scudo penale in questo andazzo, ma ormai la sceneggiata è arrivata al suo temine ed emerge tutta la vergogna di uno Stato che - governo dopo governo - non ha protetto la popolazione di Taranto, forse perché troppo a sud.
Note: ALTRI DETTAGLI SULLA SCELTA DI ARCELORMITTAL DI ABBANDONARE ILVA AL SUO DESTINO

ArcelorMittal aveva fatto pressioni durante l'estate e Di Maio (allora ministro al MISE) dopo le proteste della multinazionale, era intervenuto ad agosto sull'art. 2 del d.l. del 2015, ampliando lo spettro delle condotte che non potevano far sorgere responsabilità penale per gli affittuari e gli acquirenti (ossia ArcelorMittal).
Tuttavia in sede di conversione del suddetto decreto, una volta cambiato il governo, si è tolta la modifica di agosto, sopprimendo l'articolo che ampliava lo scudo penale.
Guarda caso il passaggio dal "grande scudo penale" al "piccolo scudo penale" entra in vigore proprio domani 5 novembre, ecco il perché della decisione di ArcelorMittal di lasciare l'ILVA. Ma a ben vedere vi sarebbe stata una più che probabile sentenza della Corte Costituzionale, nuovamente interpellata dal GIP, e una più che prevedibile richiesta di spegnimento dell'altoforno numero 2 da parte della magistratura che aveva dato l'ultimatum definitivo per dicembre, a fronte del quale i lavori previsti di messa a norma risultano - come si è già detto - attualmente non eseguiti. 


La situazione è cosi' confusa  e complessa da indurre al massimo pessimismo, qualunque sia la soluzione non potrà eludere tre questioni: la bonifica ambientale e la giustizia per i familiari delle vittime di un disastro ambientale iniziato molti anni fa quando la proprietà era pubblica, la politica industriale italiana che dovrà essere diametralmente opposta a quella degli ultimi decenni tra delocalizzazioni, speculazioni finanziarie e assenza di investimenti tecnologici, la riconversione produttiva, la salvaguardia dell'occupazione da non barattare con la salute della popolazione tarantina . E sullo sfondo il ruolo delle istituzioni e delle politiche per anni subalterne ai voleri dei padroni di turno

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