CILE LA MEMORIA I 3 settembre 2023 Nel 50° anniversario dell’inizio del crimine Cavalcando ricordi sparsi sulle note degli Inti Illimani Parte prima
CILE LA MEMORIA I
3 settembre 2023 Nel 50° anniversario dell’inizio del
crimine
Cavalcando ricordi sparsi sulle note degli Inti
Illimani Parte prima
Questo testo è la Postfazione del libro scritto dagli
amici e compagni Eduardo Mono Carrasco e Francesco Comina, “Inti-Illimani
Storia e mito, Ricordi di un muralista cileno” (Il Margine, Trento 2010).
Racconto il percorso di costruzione della mia memoria
e di quanto hanno contato in questo percorso gli Inti, e cioè la musica e la
poesia.
Per non annoiarvi troppo, l’ho diviso in 5 parti.
1) Parafrasando Guccini, posso dire che ricordo
bene qual era l’epoca dei fatti e qual era il loro mestiere: Roma, fine
febbraio 1974, artisti.
Ero appena arrivato a Roma, senza pagare il biglietto,
da pacco postale con le stigmate del sopravvissuto. Non sapevo bene ancora a
cosa e a chi dovesse la mia sopravvivenza. Continuo a non saperlo, ma ho smesso
di domandarmelo da parecchio tempo.
2) Ognuno di noi ha tre tipi di memoria.
La prima è documentale, puramente cronologica. Ci
permette di ricordare la data delle guerre, delle rivoluzioni e degli
onomastici delle persone care. E’ importante per orientarsi nel tempo, ad
esempio per ricordare quanto siano vecchi i neonati e quanto siamo ancora
giovani i vecchi.
La seconda è collettiva e si collega alle risposte
sociali radicate nel corpo e nel discorso, ossia agli imbrogli della vita in
comune: come comportarsi in una chiesa, come trattare un anziano, come
seppellire i morti … La chiamiamo senso comune e si materializza in
atteggiamenti, riti, cerimonie e istituzioni, permettendoci di agire
adeguatamente senza bisogno di pensare.
Tuttavia, se non pensare è indispensabile per prendere
misure già codificate per affrontare una situazione di emergenza - una tormenta
o un terremoto - è pericoloso se ci troviamo davanti a tradizioni insensate,
come l’ablazione del clitoride o l’esportazione della democrazia. Perciò, la
memoria collettiva, il senso comune, va costantemente rivista e razionalizzata.
Infine, c’è la memoria individuale sedimentata attorno
a costumi e oggetti. A me pare che ciò che segna veramente il nostro carattere
è sommerso nel nostro corpo come un flusso di ripetizioni e cicatrici, di gesti
rinnovati a fatica, di lunghe abitudini e angusti frammenti. Come la strada
della scuola, la pioggia inclemente che ha accompagnato la mia fanciullezza
patagonica, l’odore iodato dell’oceano, il richiamo del gelataio ambulante, il
fruscio dei primi calzoni lunghi, la luce invernale proiettata sul mobiletto
ereditato dal nonno, l’odore della naftalina, le porcellane sopravvissute ad
ogni trasloco, il rosso della rosa che ci attirava a una strada appartenente
alla "monnezza" e ai fumatori ...
Questa terza memoria – che possiamo definire
idiosincrasica e metereologica, è composta da creazioni linguistiche erette
senza considerare le norme valide per gli ambiti più ampi quali invenzioni dei
singoli parlanti che formano parole e strutture sintattiche in base alla
propria fantasia, alla loro struttura cognitiva e ai loro umori - può tradursi
facilmente persino in cinese, perché si lega ai sensi, perché è patrimonio
condiviso e perché, aggiungendone i quattro elementi della natura - fuoco,
aria, acqua e terra - è terreno collettivo e universale. Ma, proprio per le sue
caratteristiche, non può tradursi senza uno sforzo introspettivo e linguistico
che riscatti ciò che, essendo comune, è rinchiuso nel proprio corpo. Uno sforzo
che chiamiamo con diversi nomi. Ad esempio, “poesia”, “musica”, “letteratura”.
3) Tra i paradossi del capitalismo e delle sue
tecnologie ancillari c’è la sua potente capacità di erosione dei tre tipi
diversi di memoria.
Quella documentale è stata indebolita dalla sua stessa
capacità tecnologica di registrazione e archivio: tutte le date, i dati, le
statistiche, sono ormai immagazzinate su supporti esterni che hanno svuotato le
nostre teste nella quale galleggiano, come fa il pane tostato nella zuppa,
alcuni avvenimenti senza collegamento, isolati dalla storia, resi monumenti dai
media che, come Nestlé e Disneyland, producono caramelle, giocattoli e merci.
In un dialogo di Platone, un amanuense egiziano dice a
Solone che i greci erano come dei bambini, perché non riuscivano a ricordare
nulla oltre tre generazioni, mentre loro, possedendo la scrittura, potevano
risalire, nome a nome e data a data, fino al loro passato più remoto.
Noi, come l’amanuense egiziano, abbiamo la scrittura,
ma nel frattempo il capitalismo ha cambiato le regole e ora produce bambini
persi in un tempo uniforme, senza limiti né approdi.
4) Con la memoria individuale è stata danneggiata
anche la memoria collettiva.
Siamo capaci di parlare di specie animali scomparse o
minacciate da estinzione, ma abbiamo dimenticato i gesti millenari, le
cerimonie comuni, le risposte collettive. Possiamo ancora pensare a mestieri
morti, a liturgie cerimoniali estinte, a forme di organizzazione politica e a
vincoli di solidarietà che sembrano definitivamente disfatti ma, ormai, le
risposte automatiche – ovvero quello che ho chiamato senso sociale senza
pensiero - non derivano più dalla tradizione, dall’istituzione o
dall’educazione, con i loro vantaggi e rischi, bensì dalle multinazionali.
Come superare un lutto? La Roche ha messo in commercio
una pastiglia adeguata.
Come seppellire i morti? Le pompe funebri, ovviamente
private, s’incaricano professionalmente del residuo. Come baciarsi, dove
divertirsi, come vestirsi, cosa mangiare, come viaggiare, cosa guardare? Ci
pensano Disneyland, Dolce e Gabbana, Upim, Monsanto, MacDonalds, Sheraton,
Franco Rossi …
Solo i poveri, i molto poveri, hanno ancora una
biografia.
I ceti medi ed i loro imitatori dispongono soltanto di
una raccolta di souvenir o di un catalogo standard di fotografie. La memoria
individuale - le ripetizioni e le cicatrici, le abitudini e gli oggetti -
è stata sostituita da un universale depliant pubblicitario in cui, sprovvisto
di corpo, ogni soggetto è intercambiabile con qualsiasi altro.
Cosa ricordiamo? L’area di servizio dell’autostrada,
la finale del mondiale di calcio, il logo della Nike, la pubblicità della
Toyota, l’atrio d’ingresso del Hotel Plaza, le offerte della Esselunga, l’icona
iniziale della Microsoft … Avendo eliminato i cinque sensi ed i quattro
elementi di cui sopra abbiamo contemporaneamente eliminato la possibilità di
avere un’esperienza personale e di comunicarla.
5) Di tutto questo, la mia testa aveva sedimentato
poco o nulla in quel febbraio 1974.
Era un sabato. In un teatro romano di cui non ricordo
il nome, era in programma un concerto degli Inti. Per i cileni molto poveri
come me, circa un centinaio di esuli allora, lo spettacolo era gratuito. Ma il
teatro era pieno di italiani paganti che, pur nutrendo grande sfiducia sulle
capacità artistiche dei musicisti, esprimevano la loro sofferta solidarietà
accompagnandoci.
Invece, fu un concerto memorabile, anche per loro.
Degli Inti si possono dire molte cose, ma è difficile sostenere che non
sappiano suonare.
Ho risentìto la stessa sfiducia molti anni dopo, alla
fine degli anni ’70.
Lucio Dalla cantava: “La musica andina, che noia
mortale, sono più di dieci anni che si ripete sempre uguale”. Ma era un
“giudizio estetico”, del tutto legittimo.
Non credo lo fosse invece, il giudizio
“etico-politico” espresso dal critico musicale milanese de “Il Manifesto” negli
anni ’80 quando, a proposito di un concerto che non aveva neppure ascoltato
(ciaccolava incessantemente), per assistere al quale avevo dovuto pagare,
scrisse: “Il pubblico presente era persino peggio dei musicisti. Continuava a chiedere
canzoni stantie come «El pueblo unido jamás será vencido»”.
Tralasciando la politica e la morale perché – come
diceva la mia mamma - “sui gusti non c’è nulla di scritto”, corredo cotanta
sapienza con un detto popolare cileno: “Se gli stronzi volassero, sarebbe
sempre nuvolo”.
6) Gli Inti attaccano: “Se Juanito Laguna, arriva alla
nuvola, è il vento che viene, lo ama e lo tira su … Ah Juanito Laguna, se
volasse l’aquilone con la tua fortuna”.
Suonavano chitarre, charango, quena, sikus e zampogne
ma la memoria, che ha solo i confini dettati dall’ignoranza e
dall’opportunismo, mi riportò lontano.
Rivisitai, prima, il bandoneon di Astor Piazzola e le
parole di Horacio Ferrer: “Nelle notti, faccia sporca, da angioletto con i jeans, vende rose tra i tavoli,
della bettola di Bachín. Se la luna splende sulla griglia, mangia luna e pane
di fuliggine. Ogni aurora, nella
spazzatura, con un pane e uno spaghetto, si costruisce un aquilone per
andarsene, ma è ancora qui!...”
Poi saltai ai versi del poeta spagnolo, allora esule a Roma, Rafael Alberti che -
meraviglia delle meraviglie - ci aveva fatto visita in albergo per regalarci
alcune sue poesie: “Creiamo l'uomo nuovo, cantando. L'uomo nuovo di Spagna,
cantando. L'uomo nuovo del mondo, cantando. Canto in questa notte di stelle, in
cui sono solo ed esiliato. Ma nella terra non c’è nessuno da solo, se sta
cantando. L'albero ha le sue foglie, e se è secco non è più un albero.
L'uccello ha le nubi, il vento, e se è muto non è più un uccello. Il mare ha le
sue onde, e il loro canto allegro le navi. Il fuoco ha fiamme e scintille e
anche le ombre quando è alto. Nessuno è solitario sulla terra, creiamo l'uomo
nuovo cantando”.
Questo testo, trasformato in canzone, si trova in
“Inti-Illimani 6 Chile Resistenza”.
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