Il passato torna a bussare alla porta e la memoria è avvolta dal freddo di questo settembre cileno
Il passato torna a
bussare alla porta e la memoria è avvolta dal freddo di questo settembre
cileno
di Marco Consolo
A 50 anni da quel
fatidico 11 settembre del 1973, fiumi di inchiostro sono stati versati
sul golpe fascista contro il Presidente costituzionale, il
socialista Salvador Allende e l’inizio della dittatura
civico-militare con il burattino Pinochet a capo della “Giunta
militare”. Un golpe eseguito dai militari, con la complicità
attiva dell’estrema destra fascista e di gran parte della Democrazia Cristiana.
Come hanno ampiamente dimostrato i documenti declassificati della CIA, insieme
alla oligarchia cilena, i mandanti furono le multinazionali (con le
statunitensi ITT, Anaconda e Kennecot in prima fila) ed il governo statunitense
del presidente Richard Nixon e del suo fido consigliere Henry Kissinger, che
temevano l’espansione dell’esempio cileno anche a Paesi come l’Italia.
Quel giorno, secondo le
stesse Forze Armate cilene, solo nell’attacco al palazzo presidenziale de La
Moneda, furono sparati ben 57.000 proiettili per metter fine all’esperienza di
costruzione di un “socialismo con sapore a vino rosso ed empanadas”, come lo
definiva Allende, sottolineandone l’unicità storica. Come sostenne il Generale
Leigh, bisognava “estirpare il cancro marxista”. Grazie al golpe che
ne fu l’atto fondante, il Cile divenne il laboratorio mondiale
dell’applicazione delle politiche neo-liberiste dei Chicago boys
e del loro mentore, Milton Friedman.
In queste settimane,
dopo un silenzio complice durato anni, sullo schermo delle televisioni cilene
sono scorse immagini e storie mai viste e sconosciute alla popolazione. Ma,
nonostante gli anni passati, le innumerevoli testimonianze dirette, alcune
nuove informazioni trapelate ultimamente, ed ulteriori documenti desegretati
dagli archivi statunitensi, le vecchie ferite sono lungi dall’essere
rimarginate. Viceversa, a mezzo secolo di distanza, si sono approfondite le
differenze in una società fortemente polarizzata.
La tragica rottura del
processo democratico, la morte violenta di Allende, la fine dell’esperienza di
governo della Unidad Popular e l’instaurazione di una feroce
dittatura, continuano a dividere la società. Un sondaggio dello scorso maggio,
ha mostrato che il 36% degli intervistati giustifica il colpo di
Stato. Allo stesso tempo, più del 60% degli intervistati descrive
Pinochet come un dittatore e un corrotto, anche grazie a una lunga indagine
giudiziaria sul “caso Riggs”, che ha rivelato che il
patrimonio totale di Pinochet ammontava a 21,3 milioni di dollari, di cui 17,8
milioni di origine illecita accumulati in decine di conti bancari esteri.
Ma non basta. Dopo
tutto ciò che già si sa sugli orrori della dittatura civico-militare, le destre
rimangono imperturbabili e complici, nonostante alcuni disaccordi tra i loro
tre partiti (Renovaciòn Nacional, Uniòn Democratica Independiente, Partido
Republicano). Lasciandosi alle spalle le pur timide aperture del passato da
parte della destra “moderata”, oggi quello che prevale è il pinochetismo dell’estrema
destra del giovane Partido Republicano, che ha permeato i partiti della destra
tradizionale. Nelle ultime settimane, nonostante le richieste del governo di
dissociarsi dall’intervento militare e dalle azioni criminali della dittatura,
questi settori hanno giustificato la rottura istituzionale e rivendicato
l’infame eredità dei governi civico-militari. In casi sporadici ed individuali,
seppur giustificando il golpe, hanno preso le distanze dalle
violazioni dei diritti umani commesse nei 17 anni successivi al colpo di Stato.
Con diverse sfumature,
oggi le destre oscillano tra il negazionismo totale
(sono tutte menzogne), la giustificazione (il
governo marxista di Allende andava comunque fermato) e la corresponsabilità che
assolve tutti (il caos e l’ingovernabilità provocata da Allende hanno causato
la risposta del golpe; in un modo o in un altro siamo tutti
colpevoli).
Un copione che si
ripete puntuale, non solo in Cile, ma nel resto del continente ed oltre.
Il potere
armato
Anche rispetto al Cile
di oggi, nell’esaminare l’eredità della dittatura è sempre utile comprendere
la differenza tra arrivare al governo, (conquistando il potere
politico) ed avere il potere reale, quello garantito dai “poteri
forti”, in particolare da quello finanziario, mediatico, giudiziario e
militare. A questo proposito, il caso cileno è emblematico: Allende
aveva il governo, ma non il potere.
Per quanto riguarda il
potere militare, esso si è naturalmente rafforzato durante gli anni della
dittatura. Oggi, a più di trenta anni dalla sua uscita di scena come
protagonista, rimane intatto il potere delle Forze Armate e dei Carabineros,
che godono di un’autonomia, di un’indipendenza e di privilegi parzialmente
“incomprensibili”. Il peso delle FF.AA. si è mantenuto sostanzialmente intatto,
sebbene leggermente ridotto da parziali riforme della “costituzione” della
dittatura, in una transizione senza fine iniziata
nel 1990, con un passaggio di consegne di cui chi scrive è stato testimone
diretto.
Oggi gli uniformati
continuano ad avere diversi privilegi e un regime esclusivo in quanto a
pensioni (col metodo a ripartizione), giustizia, sanità. Hanno persino con il
potere di veto su quali siti possono essere dichiarati luoghi di memoria della
repressione o da quali caserme rimuovere o meno le targhe di commemorazione a
nome di Augusto Pinochet o degli altri membri della “Giunta militare”.
È bene ricordare che,
nonostante il passaggio di consegne ai civili del 1990, il dittatore è rimasto
comandante in capo dell’Esercito fino al 10 marzo del 1998. E dal giorno
dopo, grazie alla “costituzione” della dittatura del 1980, Pinochet ha assunto
la carica di senatore vitalizio fino al 4 luglio del 2002. Con l’arroganza
garantita dall’impunità, rispetto alle violazioni dei diritti umani ha sempre
sostenuto che “l’Esercito del Cile non ha motivo di chiedere perdono per aver
partecipato a questo compito patriottico”. Sfiorato dai processi in cui è
riuscito a non comparire mai sul banco degli imputati, Pinochet è morto nel suo
letto il 10 dicembre 2006 ed i suoi funerali sono stati una prova di forza del
fascismo.
Solo nel 2005, un anno
prima della sua morte e a 15 anni dalla fine della dittatura, una riforma
costituzionale ha posto fine, tra l’altro, all’inamovibilità dei comandanti in
capo delle Forze Armate e dei Carabineros, ha eliminato i senatori nominati ed
i senatori a vita, nonché il ruolo delle Forze Armate come le uniche garanti
delle istituzioni.
Dal 1990 ad oggi, gli
alti comandi militari (in servizio e in pensione) non hanno mai smesso di intromettersi
nella vita politica, più o meno apertamente, con segnali aperti o dietro le
quinte. Lo hanno fatto in maniera costante, provocatoria, sfidando
sfacciatamente il governo con dichiarazioni e gesti assolutamente sediziosi,
spalleggiati dalla destra politica che ha una delle sue basi nella “famiglia
militare”.
In questi anni, si sono
susseguite le visite dei generali in pensione al “carcere di lusso” di Punta
Peuco dove sono “reclusi” alcuni dei pochi alti gradi militari
condannati per drammatiche violazioni dei diritti umani. E poche settimane fa,
lo stesso comandante in capo dell’Esercito è andato a rendere omaggio a
un ex generale, suicidatosi subito dopo aver appreso della sua condanna
giudiziaria per l’omicidio dell’artista Victor Jara.
Il forte potere
militare è stato però intaccato dai numerosi scandali di
corruzione che hanno coinvolto molti comandanti ed alti gradi (in
particolare dell’Esercito). L’inchiesta, nota come milico
gate, ha minato la credibilità dell’istituzione militare che,
tutto sommato, era ancora vista come un’istituzione “rispettabile”. I fondi
milionari (di cui molti sono riservati con scarso controllo interno)
provenivano dalla discussa “Legge riservata del rame”, che
destinava alle FF.AA. la bellezza del 10% delle entrate dello sfruttamento del
rame da parte dell’impresa statale CODELCO. Non si tratta certo di bruscolini,
visto che il Cile è il principale produttore mondiale di rame con il 27% della
produzione globale, e ospita le miniere più grandi del mondo.
Il passato
presente
I segni profondi dei 17
anni della dittatura civico-militare marcano tuttora la politica del Cile, a 33
anni dalla sua fine.
Innanzitutto, perché
il modello sociale ed economico neo-liberista, blindato
dalla “costituzione” della dittatura, è sostanzialmente intatto, “migliorato”
con leggeri ritocchi dai governi di centro-sinistra post dittatura. È intatto
il “Dio mercato” come bussola per la guida dell’economia, nonché lo “Stato
sussidiario al mercato”, con le concessioni ai privati di tutto il
possibile, dalle pensioni, alla sanità, dall’educazione fino ai corsi d’acqua
(caso unico al mondo). Il Cile rimane uno dei Paesi più diseguali del
continente. La “costituzione” della dittatura non solo è ancora in vigore, ma
rischia di rimanerci, visti gli attuali rapporti di forza.
Per quanto riguarda
le violazioni dei diritti umani da parte della
dittatura, in questi anni il silenzio delle istituzioni è stato assordante, con
una timida azione giudiziaria. In base ai dati ufficiali del “Secondo Rapporto
della Comisiòn Valech” dell’agosto 2011, le vittime
dirette della dittatura sono 40.018, di cui circa 3.200 le persone uccise o
fatte sparire nel periodo 1973-1990. Mancano ancora all’appello 1.469 vittime
di sparizione forzata, di cui 1.092 detenuti-e desaparecidos-as, e 377
assassinati-e, di cui non sono stati consegnati i corpi.
Una ferita aperta,
sanguinante e dolorosa, che i diversi governi hanno parzialmente cercato di
affrontare attraverso gesti di riparazione. Ma dal ritorno alla “democrazia”
nel 1990, non si è mai conclusa la ricerca dei resti dei desaparecidos da
parte dei familiari che non hanno pace, mentre rimangono impuniti quasi tutti i
responsabili di quegli omicidi, che il Cile ha fatto poco per assicurare alla
giustizia. Alcuni di loro, condannati in Italia con giudizio
definitivo grazie ai processi che si sono occupati del “Plan
Condor” (e degli omicidi di persone di origini italiane), passeggiano
tranquillamente per le strade di Santiago e di altri Paesi, nonostante le
richieste di estradizione.
Da parte loro, in
quanto istituzioni, né le Forze Armate, né i Carabineros hanno
mai ammesso la responsabilità della rottura golpista della democrazia e del
tradimento alla Costituzione in un momento di grave crisi politica ed
economica, come furono i mesi che precedettero il golpe.
Nonostante le (scarse) dichiarazioni ufficiali che affermano il contrario, non
c’è mai stata una vera collaborazione per conoscere il destino dei desaparecidos.
Coloro i quali hanno
accusato direttamente Pinochet per gli orrori commessi, come l’ex-comandante in
capo dell’esercito e generale in pensione Ricardo Martinez, sono semplicemente
dei traditori per quei settori delle FF.AA. “leali allo spirito di corpo” ed
alla dittatura. “Credo fermamente, con la mia formazione e con i miei 46 anni
nell’Esercito cileno, che la responsabilità di tutto ciò che è accaduto sia del
comandante in capo di allora, il generale Augusto Pinochet”, ha detto Martinez
pochi giorni fa. Tra i molti crimini, il generale ha puntato l’indice contro
Pinochet per l’assassinio del suo predecessore a capo dell’Esercito, il
generale costituzionalista Carlos Prats Gonzáles e di
sua moglie, avvenuto nel 1974 a Buenos Aires dove si erano rifugiati. E tra gli
omicidi “eccellenti” c’è da ricordare inoltre quello dello stesso
generale René Schneider Chereau,
anch’egli comandante in capo dell’Esercito subito prima di Prats, assassinato
nel 1970 per preparare il golpe “sgombrando il campo” dai
militari costituzionalisti.
Schneider non fu
l’unico alto grado militare assassinato dai golpisti. Poche settimane prima del
colpo di Stato, il 27 luglio 1973, fu assassinato anche l’aiutante di campo (Edecàn)
del Presidente Allende, il capitano Arturo Araya Peeters.
Araya era l’unico ostacolo che impediva all’altro futuro membro della giunta
militare, José Toribio Merino, di accedere al comando della Marina cilena e
portare a termine il colpo di Stato.
Quella del Generale
Martinez è stata quindi una dichiarazione importante. Ma il silenzio delle
caserme è assordante per le altre istituzioni in divisa, come
l’Aeronautica, la Marina e i Carabineros che, a 33 anni dalla fine della
dittatura, tacciono olimpicamente sulle loro responsabilità, non collaborano
alla ricerca dei desaparecidos e si rifiutano sdegnati di
condannare Pinochet.
Tra le
iniziative positive del governo del Presidente Gabriel Boric, in questi giorni c’è stato un segnale importante al
Paese. In occasione del 50° anniversario del golpe, il governo ha
lanciato un “Piano nazionale di ricerca” con
l’obiettivo di “chiarire le circostanze della scomparsa e/o della morte delle
vittime di sparizione forzata, in modo sistematico e permanente, in conformità
con gli obblighi dello Stato del Cile e con gli standard internazionali”[1]. L’obiettivo principale è quindi scoprire
il destino di tutti-e coloro che sono stati-e fatti-e sparire dagli uniformati
durante la dittatura civico-militare.
Qualche giorno fa, in
occasione della parata militare, il comandante in capo dell’esercito, il
generale Javier Iturriaga, ha affermato che “la nostra generazione deve
assumersi la responsabilità del passato, come ha fatto, e collaborare con la
giustizia in tutto ciò che ci viene richiesto”. Parole che pesano come un
macigno, che saranno messe alla prova del tempo. Parole che si aggiungono a
quelle del vescovo di Santiago, Carlos Godoy, che ha ricordato “la ferita
aperta che abbiamo come Paese e il fatto che ci siano ancora famiglie che non
hanno potuto rivedersi o dirsi addio”[2].
Il cammino della
memoria è ancora lungo e in salita.
[1] https://www.derechoshumanos.gob.cl/plan-nacional-de-busqueda/
[2] https://www.iglesiadesantiago.cl/arzobispado/site/artic/20230908/pags/20230908100651.html
Fonte: https://marcoconsolo.altervista.org/cile-il-passato-bussa-alla-porta/
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