Se si arriva a condannare un Rappresentante dei lavoratori alla sicurezza....

 In questi anni in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro si sono fatti molti passi indietro e una recente Sentenza lo dimostra eloquentemente trasformando le facoltà riconosciute ai rappresentanti dei lavoratori alla sicurezza in una sorta di obbligo. 


Parliamo della Cassazione Penale, Sez. 4, 25 settembre 2023,  sentenza n. 38914 con condanna inflitta al datore di lavoro e a un RLS in seguito ad un infortunio mortale per schiacciamento avvenuto durante la movimentazione di pesanti tubi metallici. L'Rls è stato condannato per non avere sollecitato il datore di lavoro a formare i dipendenti e per non avere informato i responsabili aziendali sui rischi connessi all'utilizzo del carrello elevatore. 

Una sentenza per noi aberrante perchè il Rappresentante dei lavoratori non ha alcun potere di veto e sono decine i rappresentanti che in questi anni hanno scritto esposti e lettere per le quali hanno subito ritorsioni dai datori  fino al licenziamento. E in quei, troppi, casi, non ci sembra che la Magistratura abbia dimostrato di stare dalla parte dei lavoratori anche in presenza di codici di comportamento e gli obblighi di fedeltà aziendali.

Il testo unico sulla sicurezza non assegna infatti al Rls alcun ruolo di veto, l'Rls non incide sulle decisioni assunte dai datori, non ha potere contrattuale effettivo e sovente si trova anche isolato rispetto ai sindacati che preferiscono sottoscrivere accordi di secondo livello scambiando aumenti irrisori dei salari con aumento dei ritmi e dei tempi di lavoro, operando senza sicurezza e reali tutele 

L'art. 50 D.Lgs. n. 81 del 2008, che ne disciplina le funzioni e i compiti, attribuisce al Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza un ruolo di primaria importanza quale soggetto fondamentale che partecipa al processo di gestione della sicurezza dei luoghi di lavoro, costituendo una figura intermedia di raccordo tra datore di lavoro e  lavoratori, con la funzione di facilitare il flusso informativo aziendale in materia di salute e sicurezza sul lavoro. 

Ma il Rappresentante non alcun ruolo nella filiera produttiva al contrario del datore e  del Responsabile del servizio prevenzione e protezione e da qui il suo potere effettivo è veramente irrisorio.

Molto è stato detto e scritto sulla carenza di controlli, oggi le ASL mediamente riescono a effettuare controlli di routine (quindi non a seguito di infortuni gravi) solo sul 5% delle aziende del territorio, fatti due conti una azienda può essere oggetto di controllo circa ogni 20 anni.

 Restano quindi insoluti innumerevoli problemi come dimostra la carenza degli organici negli organismi di vigilanza, i controlli effettuati in maniera sporadica nelle piccole e medie aziende e lo scarso potere degli stessi ispettori addetti alla vigilanza che non possono procedere alla sospensione delle attività e alla relativa applicazione dell’apparato sanzionatorio.

Non vi è stato nel tempo un intervento risolutivo per distinguere il preposto “di diritto” (che effettua attività di supervisione e controllo a seguito di delega formale) e il preposto “di fatto” (che effettua le medesime attività senza nessuna delega formale, ma solo perché è più esperto all’interno di una squadra di lavoratori).

Sarebbe  necessario un apparato sanzionatorio verso datore di lavoro e dirigenti che non nominino formalmente i preposti anche “di fatto”, eliminando ambiguità e consentendo ai preposti di essere consci delle proprie responsabilità, anche a seguito del relativo corso di formazione specifico (8 ore oltre a quelle previste per i lavoratori non preposti).

 All'atto pratico un preposto nel settore privato non puo' interrompere l'attività di un lavoratore e di conseguenza parte dell’attività produttiva (con conseguenti ricadute economiche per l’azienda), avendo ricevuto in precedenza indicazioni opposte da parte di datore di lavoro o dirigenti oppure comportamenti persecutori a interruzione dell’attività del lavoratore avvenuta.

Il legislatore non ha poi attenzionato la condizione di lavoro negli appalti e nei sub appalti, restano fuori i “subappalti a cascata” (e sono tanti, specie in edilizia e agricoltura), dove alla fine della catena si trovano ditte o lavoratori in nero.

I controlli sugli appalti da parte della committenza sono meri atti formali e quasi mai prendono in esame le condizioni di lavoro effettive.

Perfino nella Pubblica amministrazione capita sovente di imbattersi in lavoratori impossibilitati a seguire i corsi di formazione, nel privato la formazione viene erogata da un docente pagato o dipendente dell’azienda. Pertanto, l’azienda ha tutto il potere di chiedere al docente di evitare argomenti “scomodi”.

In molti casi la formazione non viene nemmeno fatta: i lavoratori vengono “cortesemente” invitati a firmare il registro delle presenze di un corso effettivamente “virtuale”.

I corsi di formazione “on line” (nonostante le precisazioni normative) consistono, spesso, in una sequenza di slides, senza alcuna possibilità di interfaccia con un docente.

In genere, l’addestramento (definito dal D.Lgs. 81/08 come il “complesso delle attività dirette a fare apprendere ai lavoratori l'uso corretto di attrezzature, macchine, impianti, sostanze, dispositivi, anche di protezione individuale, e le procedure di lavoro”) consiste nell’insegnare come utilizzare un macchinario, guidare un carrello elevatore, eseguire varie attività lavorative a solo fini produttivi. Non si tratta quasi mai di spiegare al lavoratore quali sono le procedure e le modalità di prevenzione e protezione dei rischi.

Per assicurare l'adeguatezza e la specificità della formazione nonché l'aggiornamento periodico dei preposti le relative attività formative devono essere svolte interamente con modalità in presenza e devono essere ripetute con cadenza almeno biennale e comunque ogni qualvolta sia reso necessario in ragione dell'evoluzione dei rischi o all'insorgenza di nuovi rischi.

Questo lo prevede il testo unico ma stiamo parlando di posti di lavoro reali o di semplici intenti mai realizzati?

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