La globalizzazione: vincitori e vinti.

 

Con il termine globalizzazione si indicano tutti quei fenomeni legati all'interconnessione dei paesi del mondo dal punto di vista economico, politico e culturale. A livello economico riguarda l’unificazione dei mercati e quindi la creazione di un unico sistema globale reso possibile anche da un costante aumento delle innovazioni riguardanti le comunicazioni e le tecnologie, mentre a livello politico riguarda principalmente la crisi dello stato-nazione. L’abbattimento delle dogane, la riduzione dei costi di trasporto delle merci, l’innovazione nelle telecomunicazioni, la crescita delle multinazionali e la liberalizzazione della circolazione dei capitali sono i principali fattori che hanno determinato la globalizzazione.

Il modello di sviluppo della globalizzazione è quello capitalista sviluppista che punta a una crescita economica infinita nel cui ambito è necessario mantenere alto il livello dei consumi grazie alla strategia del consumismo. Tutto questo ha portato a una crisi ambientale legata allo sfruttamento delle materie prime non rinnovabili o di quelle rinnovabili ma ad un ritmo troppo sostenuto rispetto ai tempi di rigenerazione. Inoltre, a livello sociale ha generato una modificazione della struttura sociale interna agli stati al cui interno il divario tra ricchi e poveri sta aumentando sempre di più. Hanno giocato un ruolo chiave anche eventi storici come l’abbandono del sistema socialista in URSS e la lenta transizione della Cina al capitalismo.

Subito dopo la Seconda guerra mondiale si creò una contrapposizione tra le due superpotenze vincitrici, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica e ben presto si formarono due blocchi opposti: l’Occidente ad Ovest e i paesi comunisti ad Est. Questi due blocchi rappresentavano due grandi ideologie opposte: il capitalismo a Occidente e il comunismo, contrario al libero mercato e alla proprietà privata delle imprese, ad Oriente. La tensione venne chiamata Guerra Fredda perché non portò mai a un conflitto militare diretto. Con la Perestroika della seconda metà degli anni '80, il leader russo Gorbaciov tentò di portare dei correttivi a una struttura economica in crisi ma il suo tentativo non andò a buon fine, anzi si arrivò a un lento collasso dell’Unione Sovietica. Con la separazione delle repubbliche sovietiche l'egemonia mondiale resta in mano agli Stati Uniti e alla loro idea di libero mercato e di capitalismo.

 

A cosa ha portato il processo di globalizzazione?

 

Passando ad analizziamo gli effetti generati dalla globalizzazione prodotti in ambito economico, sociale e politico, rileviamo che, tra quelli economici, spicca il contrasto tra la forte crescita economica di alcuni paesi (Cina, India e comunque tutta l’area del Sud-est asiatico) e  allo stesso tempo  invece una bassa crescita o stagnazione economica dell'Africa sub-sahariana fra il 1980 e 2000.

A livello sociale ha determinato la crescita degli squilibri socio-economico e territoriali, sia interni agli stati che su scala globale, e l’aumento dei flussi migratori, oltre al peggioramento delle condizioni nelle aree rurali dei paesi meno sviluppati.

Gli effetti politici invece riguardano la riduzione del ruolo degli stati (crisi degli stati) e la ripresa delle forze politiche che si ispirano al nazionalismo.

La globalizzazione ha portato allo sviluppo delle multinazionali, società che operano su scala internazionale attraverso filiali estere e investimenti di capitale. Queste società sono costituite da gruppi di imprese che hanno il centro direttivo (casa madre) nel loro paese di origine. La maggior parte si trovano in UE, USA e Giappone, ma col nuovo millennio, anche in Cina, e realizzano fatturati enormi. Le multinazionali principali si occupano di petrolio, automobili e elettronica: la casa madre ha potere decisionale e di controllo sull'intera struttura societaria (tabella 1).

 

 

Tabella 1: confronto fra le principali 10 multinazionali fra il 2002 e il 2012. Fonte: Fortune.

 


 

La delocalizzazione industriale è una strategia che consiste nella scomposizione del processo produttivo e del suo trasferimento in altri paesi dove è possibile beneficiare di vantaggi come la riduzione del costo della manodopera, l’assenza di sindacati e di normative restrittive in campo ambientale, un regime fiscale e doganale ridotto e la possibilità di sfruttare risorse minerarie e energetiche locali.

Ricordiamo che  il dumping sociale (cioè la pratica dei datori di lavoro di usare manodopera a costo ridotto spostando la produzione in un’area a basso salario o impiegando lavoratori migranti) è definito anche da molti imprenditori una concorrenza sleale, figuriamoci per i lavoratori che la subiscono.

 

Flussi migratori

 

Con la globalizzazione le merci, i capitali e le informazioni possono circolare senza limitazioni mentre per le persone bisogna distinguere se sono poveri o ricchi. Le cause dei flussi migratori sono legate agli squilibri socio economici, alle calamità naturali e a guerre e persecuzioni di carattere personale. La geografia dei principali flussi ci indica che solo il 30% dei flussi è da Sud a Nord mentre il restante 70% è suddiviso tra Sud e Sud e Nord e Nord e che i flussi da Sud oggi provengono dall’Asia, dall’Africa e dall’America Latina. Il flusso migratorio interno più massiccio invece è stato quello nella Cina contemporanea dove centinaia di milioni di persone si sono spostate in modo pianificato dalle regioni interne agricole verso la costa più industrializzata.

 

Mondo del lavoro

 

Nel Nord del mondo la delocalizzazione ha portato alla perdita di milioni di posti di lavoro, al peggioramento delle condizioni lavorative e salariali, con riduzione dei diritti e precarizzazione del lavoro. Addirittura in Italia sono state effettuate ben 4 riforme del mercato del lavoro (meglio dette controriforme) che hanno peggiorato fortemente le condizioni dei lavoratori. Queste riforme sono partite nella seconda metà degli anni novanta e hanno interessato tutti i governi a prescindere dall'orientamento politico Prodi, Berlusconi, Monti e Renzi. Addirittura il “Jobs act” di Renzi ha abolito una pietra miliare dei diritti cioè l’art.18 dello Statuto dei lavoratori che dava garanzie di non discriminazione di fronte a un licenziamento. Nel Sud del mondo accanto all’aumento dei posti di lavoro creato dalla delocalizzazione, si è avuto uno sfruttamento della manodopera a causa della grande offerta di lavoro che costringe i lavoratori ad accettare salari molto bassi e scarse tutele.

 

Povertà e fame

 

La povertà, nonostante il grande sviluppo dell'economia mondiale sospinto dalla globalizzazione, è ancora radicata in Africa sub-sahariana dove oggi interessa il 42% della popolazione causando fame e disagio sociale. Infatti in questa macroregione si registra la quasi la totalità dell'aumento globale della fame a livello mondiale: ben 34,5 su 36 milioni. In base al rapporto dell’Unicef 2018 dopo aver toccato, a livello mondiale, il minimo storico nel 2015 a 785 milioni di persone, è risalita nel 2017 a 821 milioni, dato confermato anche nel 2018.

Il problema non è solo legato alla denutrizione (quindi alla mancanza di calorie necessarie) ma anche alla malnutrizione (assumere le calorie sempre sotto forma del solito principio nutritivo).

 

 

Chi sono stati i  maggiori beneficiari in termini di incremento del reddito?

 

Dagli studi è emerso che ci sono due tipologie di classi sociali: i ceti medi emergenti dei paesi in via sviluppo (Sud del mondo) che hanno avuto un grande  espansione e che hanno registrato dal punto di vista dell’incremento del reddito i maggiori aumenti in percentuale. Questa classe emergente si concentra nei paesi asiatici in primis Cina e India.

Il secondo gruppo si trova nella parte superiore della distribuzione del reddito all’interno dei paesi economicamente più sviluppati. Il grafico dell’economista Branko Milanovic si chiama “elefante” perché la curva che fuoriesce dal grafico (sul cui asse delle ascisse troviamo i percentili della distribuzione globale dei redditi e su quello delle ordinate si ha la crescita cumulata dei redditi reali) pare un elefante. Sull’asse delle ascisse verso sinistra abbiamo i più poveri mentre all'estremità destra si ha l’1% più ricco. Il punto vicino alla linea dello zero ha avuto un incremento bassissimo di reddito e rappresenta la classe medio-bassa dei paesi sviluppati (lavoratori dipendenti, lavoratori autonomi, piccoli commercianti) delle economie dell’area OCSE ed in modo prevalente delle classi medio basse degli Usa, del Giappone e della Germania (grafico 1).

Si stima di aver avuto un'uscita della povertà estrema di oltre 1,1 miliardi di persone fra il 1990 e il 2015, dei quali circa 800 milioni solo in Cina confermando che la grande crescita economica è stata anche  inclusiva.

 

 

Grafico 1: l'elefante di Branko Milanovic

La crisi del 2008

 

La deregolamentazione dei mercati finanziari nella globalizzazione ha portato anche a gravi problemi come la crisi finanziaria del 2008 esplosa negli Usa. Il mercato immobiliare era in forte crescita provocando l'aumento dei prezzi delle case; la bolla speculativa si espanse e le famiglie cominciarono a indebitarsi per acquistare immobili, anche quelle che non fornivano adeguate garanzie. Le banche, consapevoli dei rischi ai quali si esponevano, a questo punto hanno ceduto i mutui subprime a società finanziarie che hanno emesso delle obbligazioni. Queste obbligazioni sono state immesse sul mercato mescolate a titoli affidabili nelle cosiddette "salsicce finanziarie" e sono state acquistate dagli investitori istituzionali, iniziando cosi a circolare anche tra i piccoli risparmiatori di tutto il mondo. Nel 2007 molte famiglie non sono state più in grado di far fronte alle rate dei mutui, a causa dell'aumento dei tassi e quindi delle rate, costringendo le banche a divenire proprietarie degli immobili e a metterli sul mercato, provocando, a seguito di un aumento dell'offerta, un crollo del valore degli immobili stessi. Questi titoli divenuti "tossici" hanno iniziato a creare problemi sia ai piccoli risparmiatori ma soprattutto alle banche che si sono trovate con una grande quantità di queste salsicce finanziarie svalutate in portafoglio. Il 15 settembre del 2008 c'è il fallimento della quarta banca d'investimento più importante (Lehman Brothers) e la crisi è passata dal settore finanziario all'economia reale creando recessione economica su scala globale con chiusure di aziende, impennata della disoccupazione e aumento della povertà a livello mondiale, soprattutto nelle economie sviluppate (grafico 2).

La crisi economica innesca inevitabilmente riflessi sociali colpendo direttamente le persone con licenziamenti e disoccupazione, strettamente legati poi alla crisi dello Stato che deve farsi carico dei problemi legati alla cassa integrazione ma anche al “salvataggio” delle banche. L’incremento delle disuguaglianze, la proletarizzazione della classe media, il crescente numero di individui che sono usciti sconfitti dalla globalizzazione hanno spinto l’opinione pubblica nelle braccia di quelle forze politiche dette populiste.

Lo slogan “to big to fall” cioè “troppo grande per fallire” rispecchia in pieno il disastro che il fallimento di una banca come la Lehman può generare, per questo motivo a livello mondiale sono stati spesi dagli stati circa 15.000 miliardi di dollari per operazioni di salvataggio delle banche, senza interventi normativi tesi a regolamentare il settore rimuovendo le cause che hanno creato le condizioni per scatenare la crisi come ad esempio il Glass-Steagle act (la separazione fra banche d'investimento e banche commerciali) che, introdotto da Roosevelt a seguito della crisi del '29, è stato poi abolito nel 1999 da Clinton creando i presupposti per una nuova crisi finanziaria globale. Pertanto gli investitori istituzionali privati hanno ripreso ad effettuare operazioni speculative azzardate come e più di prima.

A quando la prossima crisi finanziaria?

 

Grafico 1: valore dell'indice Dow Jones della borsa di Wall street tra 1l 1970 e il 2009

 

Gregorio Pardi

II a afm - a.s. 2019/20  Ite Pacinotti Pisa

Elaborato realizzato nell'ambito del programma di geografia economica

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