100 anni dalla nascita di don Milani

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100 anni dalla nascita di don Milani


 di Tiziano Tussi




Anniversario: 100 anni dalla nascita di don Milani. Un pugno di libri ed una breve vita di impegno per i poveri. Un ricordo soprattutto per un uso di critica radicale al sistema scuola attuale e pregresso.

Che la scuola attualmente faccia acqua come un colapasta, da tutti i buchi, è notorio. Cosa vuole dire fare acqua, perdere liquidi? Vuole dire che finalmente il potere ha raggiunto la quota massima di recupero sulle lotte studentesche del '68, detto così tanto per intendere l'apporto critico al sistema scuola di quegli anni. Orbene: don Milani fu un precursore di quel periodo, e mettiamo assieme anche il caso zanzara, giornale studentesco del Liceo classico Parini di Milano, che nel 1967 fu oggetto di occhiuta attenzione del potere, un caso internazionale, per una questione allora scottante, ma in fondo anche oggi, seppur condita in altra salsa, quella sessuale, i rapporti fisici tra giovani, incontri prematrimoniali.

Ma di don Milani dobbiamo parlare. Nel 1967 esce Lettera a una professoressa, scritta nella solitudine ed isolamento di Barbiana, piccolo paese in provincia di Firenze, una quarantina di chilometri, messo disordinatamente sulla montagna appenninica toscana. Una frazione di un già piccolo paese, una chiesa e poche case, un cimitero. Qui una scuola popolare retta da Don Milani per i ragazzini del posto, per permettergli di passare poi a sostenere gli esami pubblici, elementari e medie, in maggioranza.

Proprio la bocciatura di due di loro dà via al testo. Milani ci teneva ad essere sempre sulla breccia e sosteneva gli ultimi, i diseredati, gli espulsi dalle possibilità più favorevoli della società italiana. In quei decenni già si vedeva la differenza tra le città e la campagna. Tale distanza si acuisce tra la fine degli anni '40, al termine della Seconda guerra mondiale e gli anni '50, esplodendo negli anni '60 e '70. Già si intravvede quello che sarà: un'Italia definita dalle posizioni di potere sociale e politico delle città. Una sottomissione che si allarga sempre più nella campagna, che soffre per la rincorsa verso la città, i suoi servizi, banche, farmacie, corrente elettrica, case con bagni disponibili, acqua corrente in casa. Cose comuni per le città, almeno per le zone abitate da ricchi e/o borghesi, non così presenti in campagna e nelle zone più proletarie delle città.

Nel corso di quei decenni le distanze fisiche si affievoliscono, ma restano grandi le distanze culturali e i servizi alla popolazione. Si assiste perciò ad uno spopolamento delle campagne e, a maggior ragione, delle montagne e colline. Don Milani viene spedito a Barbiana per cercare di levarselo di torno. Animo inquieto, abitato da scatti di ribellione che non erano comuni nei preti. I preti-operai, che verranno dopo, pochi comunque, e le comunità di credenti votate verso la povera gente, non avranno mai la possibilità di fare sentire in modo significativo la propria voce, nel mondo della chiesa, sino a tempi recenti. Ma anche ora con grandi difficoltà. Basterebbe ricordare i problemi che ebbero i preti che si riconoscevano nella Teologia della liberazione in sud America con papa Woytila.

Ad ogni modo, don Milani tiene la sua scuola con grande volontà. E per tutti quelli che lo piangono ora e che difendono la scuola "abito su misura" di oggi, occorrerà ricordare che la scuola di Barbiana era aperta tutto l'anno, anche la domenica, con orari molto lunghi, dodici ore, per tutti i mesi dell'anno quindi si studiava, si discuteva e si prendeva posizione verso questioni di rilievo della società italiana.

Tra i testi pubblicati sul caso don Milani o da lui scritti, a volte accompagnati da materiale vario, vi è L'obbedienza non è più una virtù, scritto antimilitarista radicale e definitivo. Per quelle posizioni scaturite dalla risposta che Milani stilò ad una lettera di segno opposto, militarista, di cappellani militari in congedo della Toscana, che invitava al sacro furor di patria, prendendosela con l'obiezione di coscienza e che così terminava: "Considerano un insulto alla patria e ai suoi caduti la cosiddetta "obiezione di coscienza" che, estranea al comandamento cristiano dell'amore, è espressione di viltà."[1]

I cappellani militari seppur in congedo erano stati chiari. Non si può obiettare, occorre difendere la patria. Don Milani, che aveva già scritto un testo, che era stato all'origine della causa del suo allontanamento a Barbiana, Esperienze pastorali, prende queste brevi considerazioni dei cappellani militari come obiettivo per cercare di mettere un po' di ordine tra il ruolo della chiesa a quella delle guerre, che vedevano ben presenti anche i cappellani militari. La sua critica si indirizza verso le modalità di comportamento nelle guerre. Fa riferimento alla prima parte dell'articolo 11 della Costituzione. Milani si richiamava spesso al testo costituzionale da poco in vigore, dal 1° gennaio 1948, per avere un riferimento certo. Spesso invitava i suoi ragazzi a prendere atto dell'esistenza del testo costituzionale, dei partiti e dei sindacati e li indirizzava ad un impegno in quella direzione. Le sue argomentazioni erano perspicaci e colpivano nel segno e nelle debolezze dei militaristi. La "guerra giusta" era una mercificazione. Al suo posto vi erano azioni impregnate di orrore: fibulazioni, torture, decimazioni.

In questa risposta Milani elenca le guerre che l'Italia ha portato avanti dal 1860 sino alla Seconda guerra mondiale. L'unica eccezione è la Resistenza: "…ma in questi cento anni di storia italiana c'è stata anche una guerra «giusta» (se guerra giusta esiste). L'unica che non fosse offesa delle altrui patrie; ma difesa della nostra: la guerra partigiana." Ce n'era abbastanza per un bel processo che in effetti si tenne dietro la denuncia di ex combattenti che adirono a vie legali, per cercare di condannare don Milani per apologia di reato. Il processo si tenne anche per il direttore di "Rinascita" storica rivista del Partito Comunista Italiano, Luca Pavolini, che in quegli anni ne era direttore.

La difesa nel processo servì a Milani per stilare una lettera ai giudici, messa per iscritto perché Milani era ammalato e non partecipò alle udienze. Nello scritto egli ribadisce le sue posizioni pacifiste e mette alla berlina il militarismo imperante. La lettura di ciò che scrisse è talmente chiara che non necessita di ulteriori approfondimenti. Ed è uno scritto che si pone sulla scena della vita di don Milani, nel crepuscolo della stessa, troncata da un tumore che non lasciava scampo poco dopo. Egli muore a 45 anni dopo la fine del processo e del giudizio di assoluzione perché il fatto non è reato. Don Milani fa appena in tempo a morire che il ricorso del Pubblico Ministero verso il giudizio di primo grado ottiene la condanna del direttore dei Rinascita mentre per don Milani, si ha una soluzione diversa, dato che era morto oltre un anno prima. Alla fine, l'hanno avuta vinta i cappellani militari. Ma intanto il '68 era iniziato ed avrebbe portato con sé un'aria fresca e nuova nella mefitica e maleodorante aria intrisa di miasmi di quegli anni.

Tra gli scritti di Don Milani ve ne sono alcuni che andrebbero letti per capire qualcosa di più del personaggio. Verso i suoi pensieri si sono scagliati poi, in epoca attuale, le voci di destra e conformiste, difendendo le posizioni liberali più classiche e retrive. Don Milani ha messo alla berlina la differenza di classe, con le sue conseguenze, ed ha cercato di armare culturalmente gli ultimi, i diseredati di Barbiana.

Critiche più o meno recenti, attuali, lo dipingono come l'iniziatore della distruzione della scuola pubblica. L'orrore verso la bocciatura e la repressione culturale di classe, la selezione, queste voci, dicono abbia aperto al nullismo nelle aule. Ecco un florilegio di Marcello Veneziani (La verità, 26 maggio 2023): "Don Milani scrisse a proposito di «selezione suicida»: «Una scuola che seleziona distrugge la cultura»; «La selezione è un peccato contro Dio o contro gli uomini» e «il frutto della selezione è un frutto acerbo che non matura mai». (sono alcuni estratti da Lettera a una professoressa, n.d.r..) quanto male hanno fatto queste parole, pronunciate in buona fede da un generoso utopista, alla scuola italiana? Ogni selezione era per lui classista ma se non premi i più capaci e meritevoli, alla fine azzeri la scuola."

Altri nomi sullo stesso tenore, Sebastiano Vassalli e Paola Mastrocola. Presi di mira in un altro articolo: "Che differenza c'è tra don Milani e il donmilanismo, criticato ad esempio da Paola Mastrocola e Sebastiano Vassalli? (domanda in una recente intervista alla storica Vanessa Roghi, ne il bo live, sito dell'Università di Padova) Risposta: "Il donmilanismo, l'atteggiamento che porterebbe a non bocciare, è un'invenzione come il rodarismo, che consisterebbe nella fine dell'insegnamento della grammatica."  Voci di destra che ci fanno però capire i limiti del suo operare e i fraintendimenti che si possono creare.

La sua posizione non andava di certo verso uno svuotamento della scuola. Non bocciare, o meglio non farlo in presenza del riconoscimento di classe pare sacrosanto e anche in linea con il merito. Il problema è: chi riconosce il merito? La nostra classe dirigente e culturale si forma proprio sulle differenze di classe ed una volta in cattedra riconosce i suoi polli. Quelli uguali a lei come classe e chi è escluso dalla stessa, per ragioni le più varie. Quindi il non bocciare preteso dai buoni di cuore di ora in dimenticanza della critica radicale, del pensiero critico e della lotta per la sua presenza nelle aule, rimane certo un problema di svuotamento dell'insegnamento del "fare lezione". Ma se smettessimo la lotta di classe (La filosofia è lotta di classe nella teoria, Louis Althusser) ecco che la discriminazione sarebbe solo verso quelli che non hanno voglia di studiare.

Queste raccomandazioni di lotta e di critica assieme allo studio continuo, fanno dello stile di don Milani una chiara diversità verso lo scenario del buonismo attuale. Lo si vede anche in un altro scritto che non viene mai indicato in riferimento al prete. Una discussione di don Milani con alcuni ragazzi di Vicchio che volevano trovarsi per ballare a scuola nel pomeriggio. Ed avevano chiesto l'autorizzazione al preside della scuola, che gliela aveva data. Don Milani si scaglia contro questa richiesta. Il tutto pubblicato in un supplemento di Conquiste del lavoro, rivista della CISL, nel 1987, a vent'anni dalla morte del prete. Con il titolo Anche le oche sanno sgambettare. In sostanza don Milani richiama i ragazzi, 16 anni di età, ai loro impegni nella società, la necessità di frequentare sindacati e partiti. Da qui forse il motivo della pubblicazione presso la CISL. Mette a nudo le motivazioni che i ragazzi e soprattutto le ragazzine gli portano: divertirsi, toccare un corpo di un altro sesso, passare tempo in piacevolezze.

Milani ricorda che lui non avrebbe nessun tempo per queste cose piacendogli la vita che fa, non ha bisogno di divertimenti, cioè di divergere da ciò che fa. E per la sessualità, dato che è prete e non può praticarla, dice alle ragazzine, così le chiama, che un piacere carnale, relativamente a poche persone, non serve a nulla. La conoscenza dell'altro sesso deve essere approfondita e varia, poi potranno decidere chi sposare. Non può concepire nessun richiamo al piacer fisico continuativo, si tratta di incontri sociali e culturali. Ma è il senso del tempo che piace molto in queste parole.

Il tempo, dice don Milani, non basta mai a chi è impegnato nella vita, mentre per chi si diverte ce n'è sempre d'avanzo. Lo spreco del tempo è un peccato molto grave. Lui parla dei suoi alunni a Barbiana e ricorda che loro non hanno tempo che gli avanzi, anzi sarebbero contenti di averne altro per potere studiare, discutere, e diventare meno esclusi dalla società per potere aiutare gli altri. Insomma, un impegno a tutto tondo, altro che richieste buoniste e scantonamenti dalla socialità.

Queste sono idee lontanissime dalla cultura di sopraffazione nullista e dagli atteggiamenti di uso della vita degli altri per fini propri.

Un altro testo significativo è l'uso di uno pseudo incontro tra don Milani e una troupe dello Specchio, giornale fascista dell'epoca che cercò di turlupinare ed aggirare la dirittura morale di don Milani. E così trasformò una non intervista nel suo contrario. La cosa fece scalpore e fu un segnale di quello che don Milani significava. Una spina nel fianco del potere reazionario.

Anche la chiesa doveva ancora fare molta strada per poter avviare percorsi di liberazione. La sinistra poteva così fare propria la figura di don Milani, che però non era per niente di sinistra, era solo un prete, radicalmente prete, che aveva a cuore gli ultimi, così come nel Vangelo, Cristo ricorda sempre. I diseredati, i poveri, gli affamati, gli assetati di cibo e cultura vanno sfamati. Ecco cosa fece don Milani. Ma né la chiesa ufficiale poteva capirlo e soprattutto sostenerlo, né la politica laica avrebbe potuto abbracciarlo completamente. Restando lui interamente prete e quindi lontano dalle preoccupazioni della lotta per il potere politico.

Note:

[1] L'obbedienza non è più una virtù, Documenti del processo di Don Milani, Varie edizioni

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