False promesse e ristrutturazione economica ai danni dei lavoratori
False promesse e ristrutturazione economica
ai danni dei lavoratori
Di Alessandra Ciattini e Federico Giusti
Prima e dopo il neoliberismo
Lavorare meno per lavorare tutti\e, era uno slogan,
anzi un obiettivo, del movimento operaio per ridurre l'orario giornaliero e
settimanale, allentare la morsa dello sfruttamento, favorire nuova occupazione
sapendo che un esercito industriale di riserva avrebbe potuto alla lunga
determinare la contrazione dei salari e un sostanziale arretramento delle
condizioni di vita e di lavoro. Il progresso tecnologico, consentendo di
ridurre il lavoro necessario alla produzione rende la riduzione dell'orario di
lavoro non solo possibile, ma anche necessaria se vogliamo garantire il lavoro
a tutti. Perciò tale riduzione a parità salariale, in un determinato
contesto storico, ha rappresentato anche una richiesta legata alla riconquista
dei tempi di vita a favore dello studio, del tempo libero e delle relazioni
familiari e sociali. Per lo stesso motivo il capitale rifugge la riduzione dell'orario
di lavoro a parità di salario in quanto il ricatto della disoccupazione
costituisce un formidabile fattore di disciplinamento della classe lavoratrice.
Erano gli anni nei quali le ricette neo
liberiste in economia e in campo sociale non avevano ancora preso il
sopravvento e lo Stato sociale, costruito prevalentemente sulle famiglie
monoreddito, per quanto incompleto era tale da consentire una pensione
dignitosa (gli anni maturati erano calcolati con il sistema retributivo con un
assegno previdenziale in linea con gli ultimi stipendi percepiti), servizi
pubblici in campo educativo e sanitario tali da far studiare i figli
all'università, grazie anche alle allora famose 150 ore, assicurando alla
popolazione il diritto alla cura e alla prevenzione, alla tutela insomma della
salute.
Erano anche gli anni nei quali si rivendicava
una medicina del lavoro atta a prevenire malattie professionali o a curarle con
ampio ricorso a servizi gratuiti e semi gratuiti
Parliamo insomma di un paese diverso da quello
attuale e di un welfare state conquistato in anni di conflittualità sociale,
sindacale e politica.
Gli ultimi 40 anni neo liberisti, dovuti
all’ennesima crisi capitalistica, hanno ridefinito un quadro generale di
riferimento assai diverso, la sanità pubblica è stata dilaniata a colpi di
tagli e riduzioni di spesa. Nelle facoltà sanitarie, e non solo, nonostante la
carenza di medici ed infermieri, si entra solo superando le forche caudine dei
test di ingresso. La famiglia monoreddito è stata distrutta dalla erosione del
potere di acquisto. Accedere a un lavoro per le donne è stata una conquista da
salvaguardare, ma se in una famiglia si lavora e tuttavia si sta peggio di
prima sia per le basse retribuzioni che per la carenza di supporti pubblici
alle donne lavoratrici, costrette così a unire il lavoro domestico gratuito a
quello retribuito, tale conquista diviene una beffa.
Scopriamo che il lavoro per le donne è
sovente part time e sottopagato; le ore lavorate in Italia sono in continua
diminuzione determinando anche l'arretramento della nostra economia, per lustri
basata sui processi di delocalizzazione e privatizzazione, sul sistema degli
appalti e dei subappalti che hanno determinato una nuova frontiera all'insegna
dello sfruttamento, della ricattabilità e dello scarso potere di acquisto e di
contrattazione. Queste premesse risultano indispensabili se vogliamo analizzare
e comprendere la situazione attuale ed immaginare i progetti che il capitalismo
ci sta preparando.
The Economist, con un articolo
pubblicato recentemente, entra nel merito dei nuovi processi capitalistici
successivi alla crisi del 2007-2008. La crisi pandemica prima e dopo la guerra
in Ucraina (ma anche quella scatenata da Israele contro il popolo palestinese,
le cui conseguenze materiali in campo economico sono ancora in evoluzione), e
le sanzioni alla Russia hanno determinato il rallentamento dell'economia
europea e occidentale, fermo restando che se la locomotiva Usa pare non subire
contraccolpi negativi, ma anzi un qualche potenziamento, quella renana, e di
conseguenza europea, si è letteralmente ingessata come dimostrano gli ultimi
dati economici che parlano per il 2022-2023 di recessione tedesca. La quale
sarà accompagnata a breve da quella degli altri paesi europei.
Prendiamo allora come sfida l'invito a
riflettere sugli scenari di un decennio fa che hanno prodotto innumerevoli
produzioni delocalizzate nel sud est asiatico e la desertificazione dei siti
produttivi occidentali, processi determinati dal minor costo della forza lavoro
asiatica.
Le privatizzazioni e le delocalizzazioni hanno generato
l'impoverimento del tessuto produttivo europeo, la finanziarizzazione
dell'economia, ma anche la politica dei bassi salari, crollati a partire dal
1970, perché nei paesi a capitalismo avanzato l'industrializzazione del
terziario è stata possibile con la costruzione di cooperative fasulle e di
appalti\subappalti, che hanno reso più economici certi servizi solo per effetto
del deterioramento delle condizioni di vita e lavorative, dello sfruttamento
intensivo dei salariati con l'erosione del potere di acquisto e di
contrattazione.
Negli Usa l'avvento di Trump e di un
conservatorismo nuovo, populista e anche xenofobo, è il risultato di processi
economici ed egemonici della prospettiva neoliberista, che ha fatto leva sul
malessere delle classi subalterne bianche, le quali hanno subito una
retrocessione simile alla nostra.
Si fa presto a dire che la popolazione in età
lavorativa cinese stia diminuendo perché anche in Oriente sono alle prese con
le rivendicazioni sindacali, poco note in Occidente, dei salariati per
aumentare il potere di acquisto dei salari, come sta avvenendo anche in Cina.
Se affermiamo che l’instabilità globale
emerge con la pandemia e che le guerre stanno rendendo l’outsourcing meno
attraente, si racconta solo una parte della verità, omettendo volutamente
l'analisi delle contraddizioni tra capitale e lavoro e di come i paesi a
capitalismo avanzato stanno affrontando la loro ennesima crisi.
Dopo gli anni pandemici, nei quali le
delocalizzazioni produttive avevano acuito le contraddizioni, determinando la
penuria di prodotti semi lavorati e di materie prime e in generale la
formazione di colli di bottiglia dovuti alle chiusure temporanee di diverse
imprese, il ritorno delle produzioni negli Usa viene finanziato con il bilancio
statale. Centrale in questo senso è l'Inflation Reduction Act e
con i benefici all'economia “green” (doverosamente fra virgolette) e pensato in
funzione anti europea (come del resto le sanzioni alla Russia). Tuttavia, non
si tratta ancora, in sostanza, della presa d'atto del fallimento dei processi
di esternalizzazione.
Non dobbiamo nemmeno dimenticare che la
sfida green ha dato vita a nuovi scenari. Ne sono un esempio la ricerca di
materie prime a basso costo che impegna i paesi NATO e occidentali ad
assicurarsi, a colpi di guerre, il loro approvvigionamento o i nuovi canali
energetici e processi di ristrutturazione capitalistica, che nei prossimi anni
sanciranno la crisi di alcuni settori economici con la perdita di tanti posti
di lavoro. E ciò allo scopo di mantenere un’egemonia che appare vacillante alla
maggior parte dei paesi del mondo.
Cosa si prospetta per il futuro?
Ma quali sono i problemi che ci troviamo ad
affrontare? Vediamo un articolo che riprende un
saggio dell'Economist recentemente pubblicato, su citato, estrapolandone
alcuni passaggi, la cui tesi principale sta nella convinzione che, per varie
ragioni, si sta prospettando una stagione d’oro per i lavoratori che
vedranno crescere i loro salari.
Si può leggere nell’articolo: “Dagli Stati
Uniti alla Corea, complice anche il calo demografico, tutte le aziende hanno
difficoltà a coprire i posti vacanti. E il lavoro è diventato così prezioso che
le aziende si ingegnano per trattenere i lavoratori. Anche in Germania, dove
l’economia va tutt’altro che bene, nei centri per l’impiego ci sono 730mila
posizioni di lavoro offerte che restano vuote. Questa carenza di personale
dovrebbe favorire, in teoria, l’immigrazione per tamponare i posti vacanti. Ma
non tutti i Paesi – vedi l’Italia – perseguono questa strada. Mentre il
Giappone, ad esempio, offre visti a tempo limitato per lavoratori in diversi
settori, tra cui la produzione di componentistica e la costruzione navale, e i
salari nel Paese stanno aumentando”.
Sempre secondo l’articolo su citato, anche in
Italia si registra qualche cambiamento in questa direzione ed alcune aziende
hanno deciso di sperimentare la settimana corta di quattro giorni a parità di
salario, richiedendo maggiore produttività e innescando una migliore
conciliazione tra vita e lavoro.
La mancanza dei lavoratori richiesti
favorisce il salariato nella scelta lavorativa e attribuisce maggiore potere ai
sindacati. Non a caso, anche i lavoratori dell’acciaio tedeschi nei prossimi
negoziati chiederanno una settimana lavorativa di 32 ore, rispetto alle attuali
35.
Tuttavia,
bisogna sottolineare, come scrive Eugenio Donnici (https://www.sinistrainrete.info/lavoro-e-sindacato/26951-eugenio-donnici-tutti-giu-per-terra.html) : “L’obiettivo “100-80-100“, che
implica il 100% delle prestazioni, con una riduzione dell’orario all’80% e
mantenendo il 100% della retribuzione, presuppone un aumento della capacità
produttiva, ossia un aumento della produttività del lavoro”. Di questa
continuano ad appropriarsi le aziende, le quali godono anche di una riduzione
dei costi per la concentrazione del
lavoro in meno giornate. Nulla viene concesso se non c’è nello stesso
tempo un vantaggio per chi detiene i mezzi produzione.
In un momento di grande inflazione, è ovvio
che tra le strategie per trattenere e attirare i lavoratori ci sono anche gli
aumenti salariali e l’attribuzione di benefici economici (Bonus Retention). L’incremento
delle dimissioni e il passaggio da una azienda a un’altra sono determinati
anche dalla ricerca di una retribuzione migliore. E come dimostrano diversi
studi, questo potrebbe portare benefici anche alle fasce a più basso reddito. Negli
Stati Uniti, dal 2020, circa il 38 per cento dell’aumento della
disuguaglianza salariale accumulata nei quattro anni precedenti sarebbe stato
cancellato. Ma cosa è avvenuto della disuguaglianza accresciutasi dagli 70 al
2019?
L’articolo si mostra
fiducioso anche nello sviluppo tecnologico, in particolare sostiene che l’intelligenza
artificiale potrebbe aumentare la produttività e rendere più gratificante il
lavoro, dato che i compiti più noiosi e ripetitivi verrebbero sostituiti dalle
macchine. La conseguenza inevitabile sarà la sparizione di alcuni ruoli
professionali, ma coloro dotati manualità, creatività e originalità potrebbero
essere ricercati con un possibile aumento degli stipendi.
E l’Italia?
La riduzione dell'orario di lavoro
settimanale continua a rappresentare una rivendicazione storica dei salariati e
delle organizzazioni sindacali. In alcuni ambiti produttivi la settimana
lavorativa diminuisce mentre in altri si va dilatando, favorita dagli stessi
sindacati attraverso la contrattazione di secondo livello e gli accordi
all'insegna della produttività detassati fino a 3000 euro.
La contrattazione nazionale e quella di
secondo livello vengono gestite in base agli obiettivi di produttività.
Un'eventuale contrazione dell'orario di lavoro può determinare anche
l'accrescimento della produzione qualitativo, se si promuove la fidelizzazione
del lavoratore, e quantitativo, se si abbina all'intensificazione dei ritmi e
dei carichi di lavoro.
È ormai acclarato come lo smart working
sia stato utilizzato a fini capitalistici per avere prestazioni migliori e
anche quantitativamente maggiori, in barba ai profili professionali delle
maestranze. Il lavoro da casa in determinati settori conviene al datore,
rappresenta un risparmio dei costi (energetici, di produzione e in termini di
spesa per il personale non necessitando l'erogazione dei buoni mensa e altri
istituti contrattuali). Il dipendente è attratto dallo smart anche perché gli
consente di coniugare meglio i tempi di vita con quelli di lavoro, non
rivendica un welfare adeguato con riferimento ai servizi in campo educativo e
sanitario capaci di rispondere agli effettivi bisogni.
Il lavoratore in smart è in prospettiva poco
sindacalizzato e individualista (quindi non combattivo), le prestazioni erogate
non passano dal confronto con colleghi\e, ma rispondono invece a un rapporto
gerarchico spesso invisibile, tuttavia, assai forte anche attraverso la
tecnologia del capitalismo della sorveglianza.
Questi aspetti sono stati solo
frettolosamente analizzati guardando non in prospettiva futura e in una logica
di classe, ma analizzando il problema dal punto di vista individualista, come
viene in prevalenza nelle scienze sociali borghesi.
La riduzione dell'orario di lavoro per
alcuni settori produttivi è quindi possibile, ma diventa una gentil concessione
della parte datoriale contraccambiata dalla crescita esponenziale della
produttività e della flessibilità, una ridefinizione del lavoro secondo
progetti e obiettivi calati dall'alto e mai oggetto di riflessione critica.
Quella che un tempo era una rivendicazione
sindacale e politica avanzata presto potrebbe trasformarsi in una necessità
impellente del capitale che, ricorrendo a tecnologie innovative, riesce a
garantire maggior produzione in meno tempo e con minori costi. E, grazie a
questi vantaggi, il capitale, invece di investire i risparmi in una produzione
umanizzata, in un welfare adeguato, preferisce concedere la riduzione della
settimana lavorativa a parità di salario, rinnovando al contempo i contratti
nazionali al di sotto del potere di acquisto reale; nella sostanza si tratta di
aumenti insufficienti ma presentati come grandi conquiste soprattutto se
accompagnati dalla riduzione oraria. C'è da rilevare, inoltre, anche che questa
modalità di ridurre l'orario di lavoro, consentendo in meno ore di realizzare
il medesimo prodotto o servizio, non costituisce nemmeno una risposta al
problema occupazionale indotto dalle innovazioni tecnologiche.
Meriterebbe uno studio serio e approfondito il
57° Rapporto sulla situazione sociale
del Paese
(2023) del CENSIS.
Leggiamo testualmente un passaggio a
proposito del calo demografico che imporrà presto politiche diverse in materia
di immigrazione e incentivi alle famiglie da mascherare sotto forma di aiuti al
welfare.
“Nel 2050, fra meno di trent’anni, l’Italia
avrà perso complessivamente 4,5 milioni di residenti (come se le due più grandi
città italiane, Roma e Milano insieme, scomparissero). Questo dato sarà il
risultato composto di una diminuzione di 9,1 milioni di persone con meno di 65
anni (e -3,7 milioni con meno di 35 anni) e di un aumento di 4,6 milioni di
persone con 65 anni e oltre (e +1,6 milioni con 85 anni e oltre)”.
Il rapporto fotografa un paese in crisi,
nel quale le giovani generazioni si dichiarano disilluse e sono giustamente
convinte di avere un peso pressoché inesistente, essendo state private come
tutti i salariati un ruolo sociale e politico. Sempre più forte è il senso di
impotenza e l'insicurezza sociale derivante anche dalla precarietà
occupazionale e dallo scarso potere di acquisto dei salari. Sul banco degli
imputati sale la globalizzazione, per anni presentata come grande opportunità a
partire dal crollo del prezzo dei biglietti aerei, che in realtà dipendeva dal
sistema low cost e da quello degli appalti aeroportuali.
Il lento e inesorabile declino del sistema
produttivo italico
riguarda anche la stessa società e desta profonde preoccupazioni tra quanti
studiano le dinamiche sociali ed economiche, consapevoli che dalla crisi
attuale si possa uscire solo con percorsi condivisi con le parti sociali, ma
solo apparentemente. Non siamo davanti alla ennesima concertazione, ma ad un
salto di qualità nella ricerca di consenso e di compartecipazione sindacale e
sociale ai processi di ristrutturazione capitalisti.
Il sindacato e le parti sociali devono essere
coinvolti nei processi di innovazione tecnologica e produttiva per affrontare i
quali serve anche un cambio di passo o se preferiamo una sorta di paradigma
culturale innovativo. Questa presunta innovazione, tuttavia, sancisce la
subalternità del lavoro al capitale e anche rivendicazioni storiche come la
settimana corta possono essere utilizzate a uso e consumo del capitale stesso.
Più che rivendicazioni diventano una sorta di gentil concessione o di riduzione
del danno. Per esempio, parti significative e crescenti del salario saranno
collegate all'incremento della produttività, ai percorsi formativi permanenti
da garantire anche nel tempo libero, seppure presentati non come sottrazione
dei tempi di vita ma in veste di opportunità di crescita individuale, per
assoggettare i nostri corpi e le nostre menti all'ideologia e alle ragioni del
capitale.
Stiamo
entrando veramente nell’epoca d’oro dei lavoratori?
Siamo
certi che l'analisi sopra riportata sia sostanzialmente corretta o invece
rappresenti la classica narrazione a senso unico della crisi?
Sempre The Economist si preoccupa di sfatare l’idea
incrollabile che i ricchi continuino a diventare sempre più ricchi mentre la
gente comune si impoverisce sempre di più, accanendosi contro la convinzione
che il capitalismo sia truccato per favorire i ricchi e punire i lavoratori.
Convinzione che sta dietro a progetti politici sia di sinistra che di destra e
che, secondo i fautori della bontà del capitalismo, deve essere assolutamente
smentita. Evidentemente anche il prestigioso giornale britannico si è reso
conto che l’attuale regime capitalistico non è ben visto dai più e con qualche
sacrosanta ragione.
Secondo il nostro autorevole giornale
certamente la sfiducia nei confronti del libero mercato è aumentata, ma –
scrive - le prove a sostegno della tesi secondo cui la disuguaglianza sta
aumentando nel mondo ricco sono diventate più deboli. Ritorna sul tema
precedente secondo il quale i divari salariali si stanno
riducendo. Osserva: “Dal 2016 i guadagni settimanali reali per coloro che
si trovano agli ultimi posti nella distribuzione salariale americana sono
cresciuti più rapidamente di quelli ai vertici. Dopo la pandemia di
Covid-19 questa compressione salariale è andata oltre; secondo una stima,
è bastato a invertire uno straordinario 40% della disuguaglianza salariale al
lordo delle imposte emersa negli ultimi 40 anni. È in corso una miniera
d’oro tra i colletti blu.
angelodellamiciziaforum
Per verificare queste affermazioni andiamo a
vedere come è finito il famoso sciopero dei mesi passati, durato circa sette
mesi, dei lavoratori statunitensi della UAW (United Automobile
Workers), le cui richieste erano, ricavate dal loro manifesto (https://uaw.org/wp-content/uploads/2023/08/Members-Demands.pdf): aumenti salariali
del 40%, rivalutazione al costo della vita, pensioni sicure, ripristinare le
prestazioni mediche per i pensionati, diritto di scioperare nel caso di
chiusura delle fabbriche, garanzia di lavoro per sostenere il benessere delle
comunità, fine degli abusi dei tempi di lavoro, i lavoratori sono impegnati
fino ad 80 ore la settimana e vogliono tempo pagato per stare insieme alle
proprie famiglie, significativo aumento delle pensioni. Si tenga presente che
le rivendicazioni riguardavano circa 146.000 lavoratori, i quali appartengono
alle tre grandi (General Motors, Stellantis, Ford). Ora andiamo a vedere cosa
hanno effettivamente ottenuto, tenuto presente che un consistente gruppo di
operai, quelli della Allison Transmission di Indianapolis (fornitore di
trasmissioni militari per i carri armati Abrams e i veicoli da combattimento
Bradley) hanno al 96,2% respinto l’accordo voluto dalle burocrazie sindacali,
che hanno addirittura chiamato in causa Biden. Questi ha presenziato a un loro
picchetto e ha dichiarato il suo forte sostegno alle rivendicazioni dei
lavoratori.
Nonostante l’accordo si stato presentato come
uno straordinario successo dai dirigenti sindacali, il cui capo si chiama Shawn
Fain, i lavoratori, che hanno votato sotto pressione, non condividono la stessa
opinione. A loro giudizio le disposizioni sui salari e sul costo della
vita sono inadeguate e non invertono la massiccia perdita di salari reali
subita a causa di decenni di concessioni UAW e di un’inflazione record. I
contratti non ripristinano le pensioni perse e i benefici sanitari per i pensionati,
non mettono fine all’odiato sistema a livelli (tra i lavoratori) e all’abuso
dei lavoratori temporanei, né riducono gli orari di lavoro estenuanti e
massacranti. Inoltre, le grandi aziende si stanno comportando in maniera assai
diversa da quanto promesso. Secondo i lavoratori, che intendono organizzare
azioni indipendenti dal sindacato, con l’accordo si intende aprire la strada
alla massiccia distruzione di posti di lavoro mentre le multinazionali, con il
pieno sostegno della burocrazia UAW, costringono i lavoratori a pagare per la
transizione alla produzione di veicoli elettrici. Infatti, gli accordi
con GM, Ford e Stellantis includono acquisizioni di “cessazione volontaria
del rapporto di lavoro” e prendono di mira impianti come il complesso Ford
Rouge come “surplus”. L’amministratore delegato di Ford ha affermato di
aspettarsi che la produzione di veicoli elettrici richiederà il 40% in meno di
lavoratori, il che significa che le aziende stanno pianificando la distruzione
di centinaia di migliaia di posti di lavoro. in modo assai diverso da quanto
promesso https://www.wsws.org/en/articles/2023/11/17/jels-n17.html.
Il passaggio alle auto elettriche sta indirizzando
politiche analoghe in Germania, dove studi della Confindustria locale
stimano un taglio della forza lavoro nelle industrie meccaniche del 40% e tagli
superiori alle 300.000, sempre con lo scopo di aumentare la produttiva e
abbassare i costi, eliminando i “lavoratori superflui”.
Ritornando alle riflessioni dell’Economist
da cui siamo partiti, che prefigura un’età dell’oro fittizia per i
lavoratori delle società a capitalismo avanzato impegnate nella svolta green e
che ci vuol far credere che esso apporta straordinari benefici a noi salariati,
dobbiamo dire che i fatti dimostrano l’esatto contrario. E, come se ciò non
bastasse, il capitalismo dovrebbe anche dirci, tema su cui non si sofferma,
quali progetti ha per quei miliardi di persone che vivono con un dollaro al
giorno, i cui paesi sono oggetto di saccheggio e di guerre volte alla
distruzione totale come quella di Gaza?
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