C’era una volta il Pci...

 

Piero Bernocchi-Roberto Massari
 
C’era una volta il Pci...
70 anni di controstoria
in compendio
 
INTRODUZIONE
di Michele Nobile
 
Di Roberto Massari e Piero Bernocchi sapevo già che insieme, fin dal 1967, avevano diretto un gruppo d’intervento per organizzare i lavoratori edili del più grande cantiere romano (Spinaceto) intorno a un giornale autoprodotto dagli stessi lavoratori: Avanguardia edile. E sapevo anche - avvenimento ben altrimenti noto - che una delle più importanti aperture del Pci al movimento studentesco del 1968 fu l’intervento di un rappresentante degli studenti nel tradizionale grande comizio del Primo maggio a piazza San Giovanni. Non conoscevo invece il collegamento tra i due fatti: e cioè che alcuni giorni prima, in occasione dello sciopero nazionale degli edili, grazie al lavoro di base che i nostri autori avevano svolto nella categoria e alla pressione di piazza degli stessi lavoratori, Massari aveva potuto parlare al comizio della Fillea-Cgil a Porta San Paolo a nome degli studenti che da alcuni mesi svolgevano l’intervento in vari cantieri edili della Capitale. Nel suo intervento propose che l’unità delle lotte dei lavoratori e degli studenti venisse sancita anche nel comizio dell’imminente primo maggio e grazie all’incontro poi avuto col segre­tario della Camera del lavoro il «miracolo» si poté realizzare per la prima e ultima volta. Era anche il periodo in cui il Pci di Luigi Longo manteneva una linea di aper­tura verso il movimento studentesco.

A tanti anni di distanza, qui Bernocchi scrive che quell’episodio suscitò l’im­pressione che tra il partito di Longo e il movimento degli studenti fosse possibile «se non un vero e proprio matrimonio, almeno un avvio di “fidanzamento”». Ma anche il fidanzamento si dimostrò impossibile: troppo forte era la contraddizione tra un movimento antiburocratico, antiautoritario, rivoluzionario negli ideali, inter­nazionalista e critico dell’Unione Sovietica, e un partito fautore della parlamentare «via italiana al socialismo», integrato nelle istituzioni dello Stato borghese, legato alla burocrazia e alla politica estera sovietica.

Tornerò su questo episodio al fine della comparazione delle tattiche della buro­crazia del Pci e della Cgil in congiunture diverse. Qui lo ricordo per un altro moti­vo: per indicare il punto di vista che rende possibile un libro come questo, molto ben documentato e allo stesso tempo dissacrante da sinistra dell’intera vicenda sto­rica del Pci. È il punto di vista di chi contribuì a far nascere e crescere il movimen­to del 1968 nella capitale d’Italia, di chi visse da protagonista il respiro originario del più grande e radicale movimento sociale italiano del dopoguerra: un movi­memnto che era a sua volta parte di una più ampia vicenda mondiale e che costituì la crisi più profonda e pervasiva dell’imperialismo nella seconda metà del Novecento secondo dopoguerra, sconvolse le società «opulente» del capitalismo avanzato, contestò il dominio delle burocrazie pseudosocialiste. Movimento socia­le, sottolineo, da distinguere dal ruolo nefasto che in esso ebbero gruppi e partitini.

Lo spirito del movimento del 1968 è stato travolto dalla restaurazione capitali­stica, ma i suoi ideali di rivoluzione sociale - egualitari, internazionalisti, di libera­zione della sessualità e della creatività, di democrazia diretta e diffusa - dovrebbero ancora essere la stella polare di chi pensa di poter cambiare il mondo e la vita. Tra coloro che di quel movimento furono veramente militanti con un ruolo di direzio­ne, pur con la maturazione occorsa nei decenni, gli autori sono tra i pochissimi che hanno mantenuto quello spirito, che li accomuna oltre le differenze dei personali percorsi politici. E che essi siano ancora in grado di operare insieme, ancora e sem­pre in una prospettiva rivoluzionaria, a più di mezzo secolo dal ‘68, mi sembra un elemento essenziale da premettere alla lettura delle pagine che seguono: «miracoli» di questo genere non se ne vedono facilmente.

Enfatizzo il punto perché in questa, come in tutte le ricostruzioni storiografiche e nelle opere delle scienze sociali, si pone il problema del rapporto tra fatti e valori, oggettività e soggettività, descrizione e valutazione. Conosciamo il più tradizionale degli approcci, che separa nettamente quei termini, ipotizzando una conoscenza pura e oggettiva del tutto sottratta all’influenza dei valori e del quadro sociale; e conosciamo anche l’ultrarelativistico rovesciamento postmoderno della relazione tra fatti e valori, opposto speculare del positivismo.

E sappiamo anche dell’imprescindibile necessità che nel passato hanno avuto le burocrazie «socialiste» e «comuniste» di trasfigurare la propria storia, d’occultare determinati fatti, di inventarne altri perché il fine giustificherebbe qualsiasi mezzo o perché, si dice, non esistevano alternative. La burocrazia è per natura nemica della trasparenza e questo è stato vero specialmente per la burocrazia «comunista», cioè staliniana, e per i suoi cosiddetti «intellettuali organici», adepti della categoria sociale-politica per cui era abissale la distanza tra il fine ultimo con cui si pretende di legittimare la propria esistenza e la realtà della pratica.

Ebbene, senza addentrarsi ulteriormente in un discorso epistemologico, i nostri autori possono dire la verità sulla storia del più grande partito comunista del mondo detto «occidentale» e farne una critica da sinistra proprio grazie allo spirito del 1968 che, come fenomeno mondiale e nelle sue tante sfaccettature, veramente mosse contro il dominio, lo sfruttamento e il conformismo, sia nei più avanzati Paesi liberaldemocratici sia in quelle dittature totalitarie che si dicevano «sociali­ste». Non senza illusioni e ingenuità, i movimenti del 1968 tentarono di ricomporre la dicotomia tra l’ideale e la pratica, di essere a tutti gli effetti «movimento reale che abolisce lo stato di cose presente». Ed è proprio con quello spirito che non si può aver timore di dire la verità sull’insieme della storia del Pci: quel tipo di espe­rienza personale e rivoluzionaria non solo rende possibile vederla e dirla, la verità, ma permette di coglierne la logica intrinseca che la lega agli avvenimenti.

A chi non conosce a fondo la storia del Pci e del comunismo internazionale, tanto più se di questa ha una visione mitica e nostalgica, il libro risulterà sconvol­gente e scorretto. Eppure, tutti i fatti narrati da Bernocchi e Massari sono noti e da tempo ben documentati, in alcuni casi, malgrado reticenze ed eufemismi, perfino nella tarda storiografia ufficiale del Pci, di cui Paolo Spriano fu il massimo e migliore esponente.

Gli autori non fanno scoperte (pur avendo in passato contribuito ad altri lavori a carattere storiografico, oltre ad aver vissuto direttamente certi fatti narrati).

L’originalità e l’interesse del libro, come detto, risiede nel punto di vista che rende possibile dire la verità e mostrare la logica del percorso storico del Pci.

Sconvolgente dovrebbe essere apprendere che Palmiro Togliatti, detto «il Migliore», segretario del Pci dal 1926 alla morte nel 1964, fu complice o responsa­bile della deportazione e della morte di diverse centinaia di militanti antifascisti ita­liani che s’erano rifugiati nella «patria socialista»; sconvolgente dovrebbe essere apprendere che lo stesso, in qualità di membro dell’Esecutivo dell’Internazionale comunista e responsabile per l’Europa centro-occidentale, fu corresponsabile dello sterminio, di quadri e militanti dei partiti comunisti di Polonia, dell’Ucraina Occidentale e della Bielorussia occidentale (queste ultime allora parti dello Stato polacco): le stime oscillano ampiamente, ma probabilmente è nell’ordine di almeno 2.000 persone: una goccia rispetto alle feroci «purghe» staliniane del 1937-8 (oltre 780mila soltanto le esecuzioni, senza contare le deportazioni). E in quanto rappre­sentante del Comintern in Spagna, Togliatti fu pure politicamente responsabile dell’eliminazione fisica di combattenti e dirigenti rivoluzionari, anarchici come Camillo Berneri e Andreu Nin del Poum (partito marxista indipendente da Mosca), del disarmo violento delle milizie anarchiche e poumiste, dell’attacco alle forme di potere popolare in Catalogna e in Aragona. Così gli stalinisti - di cui Togliatti era a capo su incarico sovietico - portarono certamente un colpo mortale al processo rivoluzionario spagnolo, indebolirono la resistenza su quei fronti e di fatto contri­buirono alla vittoria dei franchisti, spalleggiati a loro volta da Hitler e Mussolini.

E ancora: come testimonia pure Umberto Terracini (per questo segretamente espulso dal Pci per essersi opposto, ma riammesso nel 1943), Togliatti e la direzio­ne del Pci sostennero con l’ipocrita convinzione allora d’obbligo, il più straordina­rio voltafaccia di Stalin: il Patto di non-aggressione (in realtà poco meno di un’al­leanza) con la Germania nazista, in vigore dal 23 agosto 1939 al 22 giugno 1941, giorno dell’invasione hitleriana dell’Unione sovietica.

Personalmente lo considero il supremo crimine politico di Stalin e del regime sovietico nei confronti dell’umanità e della causa del comunismo, che presuppone tutti gli altri crimini staliniani ma che tutti li supera per gli effetti immediati che ebbe sulla storia mondiale, rendendo possibile l’aggressione nazista alla Polonia (e due settimane dopo quella sovietica, concordata con Berlino) e lo scoppio della Seconda guerra mondiale. Paradossalmente ma comprensibilmente, per tanti mili­tanti comunisti l’invasione nazista dell’Unione sovietica nel giugno 1941 fu la libe­razione da una posizione moralmente e politicamente insostenibile, un oltraggio a chi già combatteva la barbarie.

2. Che almeno fino agli anni Settanta la vicenda storica del Pci sia strettamente intrecciata alla politica estera sovietica, con il primo in posizione subordinata, è fuori discussione. Anche il compromesso storico da metà di quel decennio non avrebbe potuto darsi senza la distensione tra Unione Sovietica e Stati Uniti; e il legame tra le due storie è dimostrato pure dalla concomitanza del processo di fine del blocco sovietico e del partito italiano benché, a quel punto, la prima non fosse che l’occasione, non la causa, della seconda.

La storia dello stalinismo sovietico e internazionale è caratterizzata da «svolte» brusche e contraddittorie. Ad esempio, nei primi anni Trenta l’Internazionale comunista operò una svolta avventuristica e ultrasinistra per cui i socialdemocratici divennero «socialfascisti», nemici più infidi e pericolosi del nazismo, con disastro­se conseguenze sia in Germania che per i comunisti italiani. A questa si suole con­trapporre la svolta successiva, per cui i socialisti tornarono ad essere compagni e i partiti comunisti collaboravano con i partiti borghesi detti progressisti e antifascisti, nel quadro della politica di «sicurezza internazionale» nella Lega delle nazioni. A questa seguì però il Patto di non-aggressione tra Germania nazista e Unione Sovietica, che obiettivamente e istantaneamente, tra l'agosto 1939 e il giugno 1941 trasformò la percezione mondiale dei comunisti: da acerrimi nemici del nazismo a collaborazionisti del regime hitleriano avviato alla conquista dell’Europa. E poi, dopo l’aggressione nazista all’Unione Sovietica, si tornò ai fronti popolari, alla col­laborazione con i partiti antifascisti e al contenimento della lotta di classe entro i limiti democratico-borghesi della liberazione dalle forze d’occupazione della Germania nazista e della fine del fascismo.

Risultati di questo frontismo furono la nuova Repubblica parlamentare italiana e la Costituzione democratica; nello stesso tempo, però, il frontismo consentì che tra il regime fascista e quello repubblicano vi fosse continuità di apparati istituzionali, poliziotti, magistrati, alti burocrati e leggi. In altri termini, assicurò la continuità strutturale dello Stato capitalistico e del capitalismo nazionale. Non fu operazione digerita tranquillamente da chi aveva combattuto la Resistenza, che si aspettava una più ampia e profonda epurazione degli apparati statali e l’esproprio dei capita­listi che il fascismo avevano appoggiato e in cui avevano prosperato. Ci fu anche chi seppellì le armi e sarebbe stato ben disposto a riprenderle, o fece giustizia - o ingiustizia - a modo suo, non nel quadro di una strategia politica collettiva.

Tuttavia la grande operazione di salvaguardia del capitalismo e del suo Stato riuscì, grazie all’illusione che, in un secondo momento, il partito sarebbe stato la guida della lotta per il socialismo. È in questo dualismo temporale e nella separa­zione tra la lotta per obiettivi politici e socioeconomici dentro la società capitalisti­ca e la lotta per il socialismo, che consisteva la doppiezza togliattiana e la comple­mentarietà tra «movimentismo» - sempre tenuto sotto controllo - elettoralismo e parlamentarismo.

Si badi che questa logica non era affatto nuova. Al contrario, è in sostanza la stessa, ad esempio, del Programma di Erfurt (del 1891) della socialdemocrazia tedesca e del «Papa rosso» Karl Kautsky nei decenni precedenti il primo conflitto mondiale. La peculiarità del Pci - e degli altri partiti stalinizzati - consisteva nel fatto che il riferimento a una vera rivoluzione, quella dei soviet del 1917, e allo Stato che da essa era sorto, garantiva - o meglio: creava l’illusione - che prima o poi il partito avrebbe veramente instaurato il socialismo.

3. E come la socialdemocrazia tedesca a cavallo dei secoli XIX e XX, il Pci riu­scì a creare una vasta e articolata subcultura, che nelle regioni «rosse» e nei quartie­ri operai era la sua grande forza. Il sostrato di questa subcultura era l’epopea della Resistenza, delle lotte operaie, bracciantili e contadine, la prospettiva della battaglia contro i monopoli, la rendita e la plutocrazia finanziaria, mentre l’alterità veniva esternamente rafforzata dalla fine dell’unità antifascista, dagli anni del manganella­tore Scelba, dalla Guerra fredda e dalla indiscutibile fedeltà allo Stato sovietico.

Dove fu più forte, la subcultura «comunista» s’innestò su tradizioni locali risa­lenti al primo socialismo, tornate alla luce nella Resistenza e nell’epoca del «partito nuovo»; creava identità antropologiche personali e famigliari; impastava la memo­ria storica con i miti del partito e i riti della «democrazia progressiva» e dell’antifa­scismo, con le feste dell’Unità e le Case del popolo. Al di là della formale profes­sione di fede marxista-leninista, l’atmosfera mentale nel Pci del secondo dopoguer­ra era quella di un partito populista (nel senso originario del termine, ben diverso dall’uso mistificante attuale), programmaticamente volto a costruire una cultura nazional-popolare.

Si guardi però l’altra faccia della medaglia: sul piano materiale o della concreta costruzione e operazione dei rapporti sociali, la subcultura «comunista» svolgeva funzioni d’integrazione sociale - o di conformismo alle aspettative dell’ambiente subculturale - e d’integrazione socio-economica, nella forma di particolari rapporti tra imprese, sindacati e istituzioni locali dei distretti industriali e delle cooperative: essa costruiva una variante locale/regionale del capitalismo italiano. E svolgeva pure funzioni d’integrazione nelle istituzioni, locali e nazionali, dello Stato capitali­stico, attraverso la mobilitazione elettorale, la delega della rappresentanza al corpo degli eletti a tutti i livelli delle istituzioni, la crescita del ceto di funzionari degli apparati del partito, sindacali, cooperativi, delle associazioni.

In tal modo, questa subcultura contribuiva alla riproduzione dei rapporti di produzione capitalistici e al consolidamento del nuovo Stato liberaldemocratico e capitalista italiano, ruolo già svolto dal Pci nella fase resistenziale e della Costituente. L’ossatura della subcultura «comunista» era la partecipazione politica attraverso il partito e le associazioni collaterali da esso dirette, l’orientamento alla professionalizzazione della politica (e del sindacalismo), l’enfasi sull’apparato e la diffidenza o l’aperta ostilità su quanto sfuggiva al suo controllo o fosse in contradi­zione con la moralità nazional-popolare: la sfera della liberazione sessuale, ad esempio, che comprende ma supera la lotta per obiettivi d’emancipazione delle donne nel quadro democratico-borghese dei rapporti famigliari.

Sicché, in sinergia con le più ampie trasformazioni della società, paradossal­mente, il successo politico, amministrativo ed economico e istituzionale del Pci minava le stesse basi ideali della propria subcultura. La costruzione e la conquista di roccaforti nella società civile e nello Stato, causa ed effetto della subcultura e della sua espressione in voti, era coerente con il cosiddetto e presunto «gramscismo togliattiano». Tuttavia, pur ammettendo le ambiguità a proposito della dicotomia guerra di posizione-guerra di movimento, per Gramsci si trattava pur sempre di acquisire posizioni di forza per affermare un’egemonia proletaria e per condurre, in termini di dottrina politico-ideologica, una «guerra di classe» contro l’ordine bor­ghese. Al contrario, la strategia perseguita in tutto il dopoguerra, giustificata con l’interpretazione di Gramsci fornita dal togliattismo degli intellettuali di area Pci, era orientata a restaurare la collaborazione con la Democrazia cristiana, interrotta dall’avvento della Guerra fredda.

4. E tornò il momento per la collaborazione tra i due grandi partiti popolari, dopo le esplosioni del movimento studentesco del 1968 e dell’autunno caldo ope­raio (e non solo) del 1969. Esplosioni spontanee della conflittualità sociale che non furono merito del Pci e della Cgil, ma che gli apparati seppero utilizzare, la secon­da certo meglio del primo. Fu nel momento più critico del capitalismo italiano e del sistema dei partiti, che il Pci e i sindacati confederali dimostrarono la loro utilità per fermare il processo di radicalizzazione dei lavoratori, canalizzandolo nell’alveo delle elezioni e dei contratti; nello stesso tempo, la spinta verso la democrazia diretta strutturata in organismi collettivi di lotta sociale veniva neutralizzata con nuovi istituti statali di «partecipazione» delegata: organi collegiali nelle scuole nel 1974, consigli di quartiere nel 1976.

In capo a pochi anni si ripropose la complementarietà tra «movimentismo» e istituzionalismo degli apparati della burocrazia partitica e sindacale, una dialettica che sfuggì alla comprensione dei gruppi della nuova sinistra sia neonata che nell’e­poca della vecchiezza, altrimenti non sarebbe stata concepibile l’idea astrusa di poter «rifondare il comunismo» - in un solo Paese! - con gli esponenti di quelle stesse burocrazie che col comunismo avevano rotto da tempo, ammesso che vi avessero mai avuto a che fare.

Il «compromesso storico» tra Pci, Dc e Psi, lanciato da Enrico Berlinguer nel 1973, fu l’aggiornamento della strategia frontista togliattiana, la fase in cui occor­reva capitalizzare sul terreno istituzionale la crisi a cavallo degli anni Sessanta-Settanta.

Torniamo all’episodio raccontato all’inizio di questa introduzione, per cogliere la differenza, che retrospettivamente appare come una complementarietà tra la «linea Longo» negli anni 1968-72 e il compromesso storico lanciato nel 1973 dal nuovo Segretario. A cavallo degli anni Sessanta-Settanta, per il Pci e la Cgil si trat­tava di porsi come mediatori tra l’esplosione della conflittualità sociale, da un lato, e lo Stato e il capitalismo italiano, dall’altro, così d’accumulare un «capitale politi­co» da investire nella collaborazione di classe e nelle relazioni tra i partiti: è in quel quadro che si comprende la relativa apertura al movimento studentesco del 1968, nel tentativo di smussarne la radicalità.

Nel 1976 quel «capitale politico» diede il suo frutto: il governo monocolore delle astensioni di Andreotti. Rimandando ai capitoli sul «compromesso storico» in questo volume, qui sottolineo solo alcuni aspetti per cui quell’operazione, intrapre­sa nel momento di massima influenza sociale del Pci e della Cgil, paradossalmente fu anche il presupposto della fine della storia del Pci e della vitalità della sua sub­cultura.

In primo luogo, il compromesso storico è incomprensibile al di fuori di una spe­cifica congiuntura internazionale: che è quella della distensione delle relazioni tra Stati Uniti e Unione Sovietica; dei crolli delle dittature europee (1974-5, Grecia, Portogallo, Spagna), durante i quali i rispettivi partiti comunisti contribuirono a prevenire che la radicalizzazione politica oltrepassasse gli argini democratico-bor­ghesi; dell’eurocomunismo, cioè dell’effimera convergenza dei progetti nazionali di alcuni partiti comunisti intorno a una relativa autonomizzazione dall’Unione Sovietica, di cui fu massima espressione la rinuncia del Pci a battersi per l’uscita dell’Italia dalla Nato, dichiarata da Berlinguer in un’intervista nel giugno 1976. E tuttavia, quando la distensione Stati Uniti-Unione Sovietica entrò in agonia, nel 1978 già prima della presidenza di Reagan, si esaurì anche il margine internaziona­le che aveva consentito al Pci d’avvicinarsi al governo nazionale.

In secondo luogo, con la linea dei «sacrifici» e dell’«austerità», il Pci e la Cgil sostituirono la retorica moralistica alla velleità di riformare e ristrutturare il capita­lismo italiano intorno a un’ipotesi di programmazione economica centrata sull’in­dustria pubblica (le scomparse «Partecipazioni statali»). In sostanza e al di là della retorica, Pci e Cgil rinunciarono anche alla pretesa di riformare il capitalismo ita­liano. In cambio di vaghe promesse sulla riduzione della disoccupazione (in parti­colare giovanile), si adattarono al «capitalismo realmente esistente», alle esigenze della produttività, alla compressione del salario reale attraverso le misure fiscali governative, all’inizio della ristrutturazione gestita dal padronato.

Nello stesso tempo, il Pci fece del suo meglio per accreditare il «rinnovamento» della Dc, nonostante la serie di scandali che giunsero fino a coinvolgere la demo­cristiana Presidenza della Repubblica. Questi furono i presupposti dell’attacco che il padronato lanciò in proprio, senza più mediazioni, ai lavoratori della società emblema dell’industria del sindacalismo italiano: quella stessa Fiat di Torino che era stata un primo campo di sperimentazione del compromesso storico in fabbrica. A quel punto, il «movimentismo» accennato dalla burocrazia fu impotente. Per dirla brutalmente: aveva terminato il ruolo d’utile idiota.

In terzo luogo, si consideri il test costituito dal nuovo grande movimento stu­dentesco e giovanile del 1977, ultimo movimento di massa radicale in Italia. Esso minacciava il fragile equilibrio sociale e le ancor più fragili illusioni, su cui si basa­va il governo di «solidarietà nazionale». Fu per questo che, a differenza del 1968, il Pci e la Cgil s’incaricarono direttamente nella provocazione e nella vera e propria guerra senza esclusione di colpi contro quel movimento, che non va assolutamente ridotto alle iniziative avventuristiche dell’Autonomia operaia, prevaricatrici innan­zitutto del movimento stesso, e men che mai al «partito armato».

Retrospettivamente, la «linea Longo» e il compromesso storico di Berlinguer vanno considerate come due tattiche diverse della medesima strategia togliattiana: l’alternanza e la complementarietà tra fasi di «movimentismo» e fasi di repressione delle avanguardie, a seconda delle congiunture, sono tipiche della logica politica della burocrazia «comunista».

5. Negli anni Settanta, così come al termine della Resistenza, il Pci era stato ancora una volta determinante nella normalizzazione dell’ordine politico e sociale. Ma la storia non si ripete. Il fallimento del compromesso storico costituì obiettiva­mente il definitivo fallimento della strategia togliattiana, perseguita durante tutto il dopoguerra, mirante all’effettiva integrazione del partito nello Stato capitalistico italiano, non solo a livello dei governi locali ma del governo nazionale.

Tuttavia, al contrario della normalizzazione del dopoguerra, il lascito del com­promesso storico non fu il consolidamento di una subcultura animata dalla speran­za che il futuro sarebbe stato migliore del presente, capace d’attraversare indenne dieci inverni. Quanto nella subcultura c’era di potenzialmente antagonistico ormai era estinto o in via d’estinzione, ridotto a narrazione mitologica dei tempi eroici e a celebrazione ritualistica. Rimanevano però gli apparati e un corpo molto vasto e variegato di professionisti della politica, privi però di una credibile strategia. Fallito il consociativismo del compromesso storico e negata la possibilità d’alternanza - come dal Risorgimento in poi sempre era stato per le opposizioni - non rimaneva che l’altra possibilità tipicamente italiana, benché non esclusiva del nostro Paese: il trasformismo. Gli ultimi decenni, quelli della cosiddetta Seconda repubblica, sono stati un trionfo senza precedenti del trasformismo, non di singoli individui ma d’in­teri gruppi, fatto onnipervasivo. Prima di tangentopoli e del tracollo degli altri par­titi della prima Repubblica, fu proprio il Pci il primo dei partiti a intraprendere la via del trasformismo, l’unica ormai praticabile per sperare di poter giungere al governo nazionale.

La fine del Pci è anche la fine del libro e l’inizio di un’altra storia, quella della postdemocrazia italiana. Occorre tuttavia cogliere il nesso che lega le due storie. Quel che era stato il «partito nuovo» aveva finito per dar vita alla rincorsa di massa delle prospettive di carriera. Ancor peggio, l’esaurimento della pluridecennale stra­tegia di «democrazia progressiva» finì in un gigantesco contributo degli ex comu­nisti all’avvento della postdemocrazia in Italia, ancor prima della «discesa in campo» del Cavaliere. La postdemocrazia non è un regime illiberale, semidittato­riale o fascisteggiante. È un processo internazionale, risultato di una lunga trasfor­mazione degli apparati statali e della politica, caratterizzato dalla concentrazione del potere nell’Esecutivo e nei vertici dei partiti, dalla trasformazione dei partiti in organi parastatali, dalla spettacolarizzazione della politica, dalla convergenza pro­grammatica di «destra» e di «sinistra» nell’erosione dei diritti sociali in nome della competitività internazionale, delle compatibilità di bilancio e del libero mercato.

In breve, la postdemocrazia consiste nello scioglimento dell’ossimoro proprio dei regimi liberaldemocratici affermatisi dopo la Seconda guerra mondiale e nell’e­poca del welfare state: vista dal lato dei sistemi di partito, è venuto meno l’elemen­to democratico nel senso etimologico, di rappresentanza politica degli interessi sociali minimi del popolo dei lavoratori, da parte dei partiti radicati nella storia del movimento operaio.

Retrospetivamente, la linea dell’«austerità» di Berlinguer e della Cgil durante il compromesso storico ne fu una prima, contradditoria e incompleta anticipazione. Il processo si sviluppò poi organicamente, direi dal volontario abbandono del pro­gramma tipicamente socialdemocratico con cui l’Union de la gauche di Mitterand e Marchais aveva vinto le elezioni nel 1981; e con tempi e modalità differenti tutti i partiti socialdemocratici hanno adottato gli interessi immediati del capitale, abban­donando il discorso delle riforme strutturali favorevoli ai lavoratori e della graduale evoluzione della società in direzione del socialismo. Negli anni Novanta questo nuovo orientamento venne indicato come l’ennesima «terza via» di Tony Blair, Gerhard Schröder, della Gauche plurielle di Lionel Jospin, la versione «di sinistra» del cosiddetto neoliberismo.

Paradossalmente, in Italia l’indispensabile chiave di volta per completare l’arco della postdemocrazia fu l’operazione trasformistica del Pci. Fu una fine ingloriosa ma che aveva radici profonde. Una delle condizioni perché in Italia torni a vivere la prospettiva anticapitalistica è liberarsi di quel che ne resta. E questo libro può aiu­tare a svolgere un tal genere di pulizia mentale.

E' possibile ordinare il libro presso la casa Massari Editore. Email: erre.emme@enjoy.it

 


 

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