RIMETTERE LA “QUESTIONE SALARIALE” NELLE MANI DEI LAVORATORI

RIMETTERE LA “QUESTIONE SALARIALE” NELLE MANI DEI LAVORATORI E’ L’UNICO STRUMENTO PER ARRESTARE, ED INVERTIRE, LA DIMINUZIONE DEI SALARI.


Secondo i dati forniti dall’Ocse l’Italia è l’unico, tra i membri europei che vi aderiscono, in cui i salari medi sono diminuiti rispetto al 1990. Che ci sia un problema salariale nel nostro paese, è ormai evidente a tutti; non a caso il tema dell’introduzione o meno di un “salario minimo legale” è diventato uno degli argomenti più dibattuti della campagna elettorale. LE CAUSE Il crollo della dinamica salariale nel nostro paese è dovuta all’incidenza di più fattori. Innanzitutto vi è stato, negli ultimi decenni, un aumento esponenziale di rapporti part-time, quasi sempre involontari, e diffusi soprattutto nei settori dei servizi e tra le donne. A seguito dei lockdown, l’ISTAT registra che oltre un terzo delle nuove assunzioni sono a part-time. Vi è stata inoltre una proliferazione dei cosiddetti contratti collettivi “pirata”, cioè quei contratti nazionali di vari settori – ma in alcuni casi anche aziendali – sottoscritti da realtà sindacali che svolgono un ruolo di comodo per le aziende più spregiudicate e che ben spesso hanno anche adesioni associative tra i lavoratori pressoché inesistenti. Questi contratti, prevedono trattamenti economici e normativi inferiori rispetto a quelli previsti nei contratti sottoscritti da CGIL – CISL – UIL, che sono invece quelli che le aziende applicano alla maggioranz dei lavoratori. E’ pur vero, che anche i tre principali sindacati hanno però sottoscritto alcuni contratti con paghe irrisorie (come i CCNL Servizi Fiduciari e Multiservizi), per favorire l’obiettivo delle aziende di diminuire le proprie spese abbassando il costo del lavoro in contesti lavorativi esternalizzati in appalto. Secondo alcune stime i lavoratori in queste condizioni, cioè interessati dai contratti “pirata” di sindacati di comodo o dalle versioni di CGIL-CISL-UIL come il Multiservizi e i Servizi Fiduciari, sarebbero circa 1,5 – 2 milioni, qualcuno afferma anche 3 milioni.
Fenomeni relativamente recenti sono inoltre la diffusione di false cooperative, che possono approvare regolamentazioni interne per derogare peggiorativamente ai contratti collettivi; i co.co.co. a cui bisogna riconoscere solo i minimi retributivi della contrattazione, ma non altre voci di salario diretto e indiretto previste da quest’ultima; le false partite iva mono-committenti che sono sprovvisti di accordi collettivi; gli stagisti a rimborso spesa. Esistono poi forme contrattuali subordinate “precarie”, cioè senza garanzie di stabilità in quanto a termine (intermittenti, somministrati, tempi determinati) e che secondo l’ISTAT attualmente riguardano oltre 3 milioni di lavoratori e la maggior parte delle nuove assunzioni a seguito dei lockdown. Queste figure, pur essendo generalmente ricondotte nei trattamenti salariali dei contratti collettivi, sono però state sviluppate per frammentare e indebolire le rivendicazioni dei lavoratori, perché soffrono di una strutturale debolezza contrattuale dato che hanno la necessità ciclica di rinegoziare la propria continuità lavorativa e retributiva. Se l’attuale dibattito si sta soffermando principalmente sugli elementi finora elencati, sta invece ignorando completamente quello che è il punto sostanziale del problema: cioè i modelli contrattuali che hanno designato attori, modalità e contenuti della contrattazione collettiva, avviati con l’Accordo Interconfederale del 1993 e successivi tra Confindustria e CGIL – CISL – UIL e che hanno caratterizzato la fase della cosiddetta “concertazione sociale”, che sono i principali responsabili della riduzione della dinamica salariale nel nostro paese.
In primo luogo perché hanno definitivamente abolito la “Scala Mobile”, cioè quel sistema di indicizzazione automatica dei salari all’aumento dei prezzi di determinati beni di consumo, così da tutelare il potere d’acquisto dei salari rispetto all’aumento del costo della vita. Al suo posto è stata introdotta, tramite i rinnovi dei CCNL, una “contrattazione” teorica biennale dei salari, definiti nel rispetto dapprima dell’inflazione programmata e poi adeguati a quella reale. Teorica per tre motivi principali: in primo luogo l’inflazione programmata si è sempre dimostrata inferiore a quella reale; inoltre, ben spesso l’adeguamento non è stato realizzato a causa della stasi delle relazioni contrattuali, che ha anche portato CCNL scaduti a non essere rinnovati per anni; infine perché l’inflazione reale viene calcolata con l’indice ISTAT dei consumi, che ha ben poco a vedere con i consumi delle famiglie dei lavoratori. Non è un caso se, quindi, negli ultimi decenni abbiamo assistito a pochi rinnovi contrattuali, con aumenti salariali risibili, tra i 50 e gli 80 Euro, molto raramente sono stati raggiunti o superati i 100, spalmati su 4 anni. Con l’Accordo Interconfederale del 2009 le parti sociali hanno inoltre individuato nell’indice IPCA, cioè l’indice dei prezzi senza i costi delle materie energetiche, il nuovo parametro a cui far riferimento per i rinnovi dei CCNL. Con esso si introducono due peggioramenti sostanziali: gli aumenti salariali non saranno più definibili in misura certa, dato che gli importi stabiliti all’atto del rinnovo del CCNL potranno modificarsi automaticamente, anche in peggio, in virtù del successivo andamento dell’indice negli anni; inoltre, gli aumenti potranno tradursi in importi risibili, come avvenuto per il CCNL Metalmeccanici del 2016 (non a caso definito il peggior rinnovo dal 1963!), con una prima tranche di 1,70 € lordi. In questo momento in cui l’inflazione reale è stimata intorno al 9%, soprattutto a causa dell’aumento dei costi energetici, l’indice IPCA la attesta invece al 2%.
Infine, bisogna ricordarsi che in ogni rinnovo dei CCNL degli ultimi decenni, importanti quote dei cosiddetti “aumenti contrattuali”, non sono andate ad incidere sulla paga base dello stipendio dei lavoratori, ma sono state dirottate dalle azienda ad ingrassare Enti Bilaterali e fondi sanitari e di previdenza complementare privati, cioè società private nei cui consigli di amministrazione siedono assieme rappresentanti di CGIL – CISL – UIL e associazioni datoriali.
LE PROPOSTE RIVENDICATIVE
Avere bene in mente quali sono le cause della diminuzione dei salari, deve essere la base per elaborare una proposta rivendicativa che rimetta la “questione salariale” nelle mani dei lavoratori: devono essere loro a definire il quadro nel quale porre la contrattazione del salario. Innanzitutto vi è la necessità di una legge veramente democratica sulla rappresentanza sindacale e sull’efficacia dei contratti, per ridare effettività e vera rappresentatività all’attività sindacale nei luoghi di lavoro e, di conseguenza, alla contrattazione collettiva. Le regole sulla rappresentanza sono state stravolte con interventi legislativi ed accordi tra le parti, con il preciso obiettivo di impedire che i lavoratori scegliessero liberamente da chi farsi rappresentare, affidando il monopolio della rappresentanza e della contrattazione a CGIL – CISL – UIL, che hanno ripagato con politiche rivendicative di favore. Le aziende, organizzandosi in “associazioni datoriali”, decidono infatti quali sindacati preferiscono chiamare a contrattare, salvo alcune procedure (licenziamenti collettivi, cassa integrazione ecc…) in cui la legge stessa impone la convocazione di CGIL – CISL – UIL.
Attualmente in Italia oltre il 90% delle aziende applica contratti collettivi, i quali vengono però discussi e stipulati in stragrande maggioranza solo da CGIL – CISL – UIL e sulla base delle regole di austerità salariale e flessibilità normativa indicate negli accordi interconfederali sopra citati. Serve invece una legge sulla rappresentanza sindacale che imponga alle aziende l’obbligo di contrattare con le rappresentanze sindacali elette in maniera libera, equa e trasparente, tra tutte le organizzazioni sindacali costituite, anche quelle che non hanno firmato gli accordi datoriali. Una legge di questo tipo, darebbe attuazione all’ultimo comma dell’art. 39 della Costituzione, sinora rimasto inapplicato, introducendo la vincolatività erga omnes del CCNL, cioè l’applicazione obbligatoria per tutte le aziende e gli occupati di quel settore. Condizione fondamentale perché la Costituzione venga rispettata è definire chi sono i sindacati – e anche le parti datoriali - effettivamente rappresentativi sulla base di parametri oggettivi (il dettato letterale della Costituzione dice “in proporzione dei loro iscritti”) e che quindi possono contrattare.
In questo modo, si scardinerebbe il “sistema” consociativo di contrattazione antidemocratico che oggi ne affida il monopolio a CGIL-CISL UIL, dato che diventerebbero libere di accedere alla contrattazione le organizzazioni e le rappresentanze sindacali che hanno il supporto verificato ed effettivo delle maestranze. I lavoratori tornerebbero protagonisti nel definire piattaforme e rappresentanze della contrattazione, si avrebbe così la possibilità di mettere un freno ai fenomeni dei “contratti pirata” e delle contrattazioni al ribasso, oltre che al massiccio spostamento di quote di salario in fondi speculativi privati. Il salario minimo deve essere inteso, ed elaborato, come strumento per definire un plafond al di sotto del quale la contrattazione non può scendere, impedendo le paghe povere. Bisogna assolutamente evitare, invece, che si traduca in uno strumento sostitutivo della contrattazione. Attualmente, infatti, le aziende non sono obbligate ad applicare un Contratto Collettivo: innanzitutto perché anche le aziende (proprio come i lavoratori con i sindacati) sono anch’esse libere di non aderire ad una associazione datoriale; inoltre, perché non vi è una legge sulla rappresentanza sindacale che dia efficacia erga omnes ai CCNL, i quali restano quindi atti di autonomia privata efficaci solo per le parti stipulanti: basta infatti che un’azienda non aderisca ad alcuna associazione datoriale per non essere obbligata ad applicare i CCNL. Fu proprio così che fece la FIAT con Marchionne per uscire dal CCNL Metalmeccanici, dando disdetta all’adesione a Federmeccanica. Come già accennato, la quasi totalità delle aziende del nostro paese, sia che aderiscano o meno ad una associazione datoriale, applicano però alle proprie maestranze un CCNL: ciò è anche dovuto al fatto che in Italia non esiste un salario minimo definito dalla legge! Infatti, secondo l’art. 36 della Costituzione, le aziende sono obbligate a garantire “retribuzioni proporzionate e dignitose”. Pertanto, la maggioranza della giurisprudenza, proprio per cercare di dare attuazione all’art. 36 della Costituzione, ha individuato nei minimi retributivi previsti dai CCNL di settore i parametri al di sotto dei quali le aziende non potessero andare, così che anche le aziende più riottose, per evitare l’incertezza di contenziosi legali, hanno finito per applicare un CCNL.
Nel nostro sistema, pertanto, l’introduzione di un salario minimo per legge, tanto più se di importo inferiore al trattamento complessivo garantito dai contratti collettivi, spingerebbe le aziende ad uscire da quest’ultimi e ad applicare unicamente il salario minimo, per loro ben più conveniente: infatti, sia nel caso delle propose di salario minimo di 9 o 10 euro all’ora, la maggior parte dei CCNL prevede retribuzioni complessive superiori; la situazione non cambia di molto anche aumentandolo a 12. Bisogna inoltre specificare che il salario minimo per legge, si applicherebbe ai
soli rapporti di lavoro subordinati (indeterminati o a termine) che attualmente, come già detto, sono nella quasi totalità coperti dai CCNL.
Perdere il CCNL significa perdere tutta una serie di voci di salario diretto e indiretto – come il pagamento dei primi 3 giorni di carenza per malattia che competono all’azienda, le integrazioni aziendali alla malattia/maternità/infortunio pagate dall’INPS, gli scatti di anzianità, le maggiorazioni per straordinario/festivo/notturno, festività non godute, la 13° (che è obbligatoria solo nei settori industriali) e la 14°, i r.o.l., indennità di funzione e premi vari, edr e indennità integrative ecc… - che sono esclusivamente determinati dalla contrattazione. Il salario finale, infatti, non è dato solo dal rateo orario della paga base, ma da tutta una serie di altre voci che definiscono il Trattamento Economico Complessivo dei CCNL, e che sono previste per il lavoratore solo ed esclusivamente se l’azienda gli applica un contratto collettivo. E le prime aziende che metterebbero in campo una “politica aggressiva” di questo genere, credo che sarebbero proprio quel sottobosco di srl e cooperative che popolano il mondo degli appalti e subappalti oltre che le piccole e piccolissime imprese, spesso di natura pseudo famigliare, che costellano il nostro tessuto produttivo. Tutte aziende che già ora cercano di applicare il contratto nazionale meno costoso e che non si capisce per quale motivo, a fronte del solo obbligo legale di applicare il salario minimo, dovrebbero continuare a riconoscere al lavoratore i trattamenti “in più” previsti da un contratto nazionale che non sono obbligate ad applicare. Col tempo si adeguerebbero tutte le aziende, replicando un sistema che è già vigente in moltissimi paesi, dove c’è il salario minimo legale ma di contratti collettivi nazionali – e di tutte quelle voci della retribuzione che definiscono il loro trattamento economico complessivo — non se ne sente parlare neanche per sbaglio: un caso esemplificativo sono gli Stati Uniti.
Infine, credo che anche il solo pensare di poter lasciare la definizione della dinamica salariale nelle mani del legislatore, possa rivelarsi un ulteriore autogol per i lavoratori; dobbiamo infatti tener conto del contesto politico attuale, fatto di governi che continuano a emanare provvedimenti che degradano la contrattazione collettiva. Nulla impedirebbe che, giustificandolo con la necessità di rispondere ad una situazione di crisi economica, il governo riduca per decreto l’importo del salario minimo. D’altro canto è proprio così che è stata decapitata la scala mobile. I lavoratori si ritroverebbero, quindi, con una contrattazione collettiva sempre più indebolita, o anche senza, e con un salario minimo ridotto: cornuti e mazziati.
Per tutto quanto sopra, l’introduzione di un salario minimo deve essere subordinata alla necessaria introduzione di una legge veramente democratica sulla rappresentanza sindacale, che garantisca la vincolatività a tutte le aziende del CCNL di settore, le cui retribuzioni base, quindi, non potranno avere un importo orario inferiore a quello del salario minimo. La determinazione dell’importo del salario minimo, infine, non deve essere lasciata nelle sole mani del governo, ma dovrà essere rivalutato periodicamente in base all’inflazione oppure contrattato dalle parti sociali.
L’unico strumento realmente efficace per tutelare il potere d’acquisto dei lavoratori è la Scala Mobile. La CUB, fin dalle sue origini, si è battuta per impedirne la cancellazione, promuovendo anche importanti scioperi nei primi anni ’90. Il nostro sindacato è proprio nato in netta rottura con la “concertazione sociale”, mettendo in guardia i lavoratori che il sistema introdotto con l’Accordo del 1993 avrebbe approfondito un processo di “moderazione salariale” iniziato già alla fine degli anni ’70, che aveva messo da parte la lotta alle disuguaglianze anteponendogli la compatibilità rispetto al quadro economico complessivo, la redditività delle imprese, la sostenibilità dei conti pubblici, favorendo uno spostamento della ricchezza in favore dei profitti degli imprenditori a discapito dei
salari dei lavoratori. Mentre allora la quota del reddito da lavoro sul PIL era del 70%, ora è del 55; il reddito degli imprenditori è aumentato di oltre il 13%, mentre i salari sono scesi al – 2,9 %. In sostanza: mentre i lavoratori si impoverivano e si impoveriscono, i percettori di redditi da capitale hanno visto aumentare la grandezza della propria fetta. L’unico modo per cercare di invertire in maniera efficace questa tendenza è, prima di tutto, ricostruire le condizioni per una reale contrattazione: come suggerisce la proposta della CUB “sulle rappresentanze sindacali unitarie nei luoghi di lavoro, sulla rappresentatività sindacale e sull’efficacia dei contratti collettivi di lavoro”, la legge dovrà definire solo chi è titolato a contrattare, non imporre catene e recinti come le attuali “clausole di rinvio” e limitazioni all’esercizio dello sciopero attualmente previsti da Accordi Interconfederali e CCNL. I contratti nazionali devono tornare ad essere strumento di difesa e miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, definendo le condizioni di uniformità di base per tutti i lavoratori del settore, per evitare dumping salariale e concorrenze al ribasso; la contrattazione di secondo livello deve tornare ad essere orientata al miglioramento delle norme del CCNL. In secondo luogo, dobbiamo rilanciare con forza la necessità della reintroduzione dell’indicizzazione dei salari all’aumento reale del costo della vita per i lavoratori. Non possiamo inoltre dimenticarci che anche tutte queste misure rimarrebbero comunque parziali se non si mettesse in campo un reale contrasto alla flessibilità nel mondo del lavoro, che generando insicurezza economica e incertezza per chi la subisce, si traduce in precarietà non solo in senso materiale ma come caratteristica esistenziale della persona. Parliamo pertanto di tutte quelle misure che da svariati decenni hanno trasformato il mercato del lavoro con il fine di frammentare, dividere ed indebolire i lavoratori. Diventa pertanto urgente agire contro i part-time involontari, stabilendo quindi un minimo orario settimanale (che potrebbe essere di 24 h) al di sotto del quale poter derogare solo se vi è la volontà certificata del lavoratore e introducendo regole più certe per i consolidamenti dei supplementari svolti. Contestualmente, bisogna ridurre l’orario di lavoro a parità di salario per i tempi pieni, dato che garantirebbe l’aumento dell’occupazione stabile. E’ necessario ripristinare la precedente tutela dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori contro i licenziamenti illegittimi, così da contrastare il ricorso a provvedimenti disciplinari discutibili, con il solo fine di colpire il lavoratore. Eliminare o limitare i rapporti precari: riconducendo il tempo determinato soltanto a situazioni particolari esplicitate tramite una causale; eliminando gli stage e la somministrazione che è stata scientificamente pensata per impedire la sindacalizzazione dei lavoratori; rimodulando l’istituto dell’apprendistato; rendendo più facile e più esigibile da un punto di vista sanzionatorio l’accertamento della subordinazione in caso di false collaborazioni autonome. Infine, bisogna reintrodurre il principio di parità di trattamento tra i lavoratori del committente e dell’appaltatore (eliminato dalla Legge Biagi che ha consentito il proliferare di contratti come i Servizi Fiduciari e il Multiservizi) come primo passo per arrivare ad una reinternalizzazione di tutti gli appalti. L’emergenza Covid ha inoltre messo in luce tutti i limiti del nostro sistema di ammortizzatori sociali, che deve essere necessariamente rivoluzionato e costruito su strumenti semplici ed efficaci, tali da garantire un’estensione universale dei diritti e la garanzia di un reddito dignitoso per tutti i soggetti deboli. Sul fronte della cassa integrazione, c’è bisogno di due soli e semplici strumenti, uno ordinario e un altro straordinario, che garantiscano chiarezza ed uniformità di trattamenti per tutti i lavoratori. La Naspi deve essere percepita per un periodo pari alla durata del lavoro stesso, entro un massimale di due anni. Bisogna infine introdurre un reddito minimo garantito di 1000 € per i
disoccupati e i pensionati, vincolato a determinati requisiti economici del precettore e a percorsi formativi (gestiti da enti pubblici) per favorire il reimpiego del lavoratore, che superi quindi l’attuale elemosina del Reddito di Cittadinanza con il fine di combattere veramente la povertà, garantendo a tutti una vita dignitosa, contrastando le politiche di ricatto liberando i lavoratori dallo stato di necessità che li obbliga ad accettare anche rapporti di lavoro vessatori. In conclusione, ritengo che la proposta rivendicativa della CUB dovrebbe essere più articolata e riassumersi in: - Per una legge veramente democratica sulla rappresentanza sindacale e sull’efficacia erga omnes dei contratti, per ripristinare la democrazia nei luoghi di lavoro, rilanciare la contrattazione collettiva e l’aumento dei salari. - Salario minimo di 12 Euro, inteso come plafond al di sotto del quale i contratti collettivi non possono scendere. - Reintroduzione della Scala Mobile, per indicizzare automaticamente i salari all’aumento del costo della vita. - Combattere la precarietà aumentando le ore contrattuali dei part-time involontari; ridurre l’orario di lavoro a parità di salario per i full time; limitare i contratti a termine, reintrodurre l’originale tutela dell’art. 18; internalizzare gli appalti; rivoluzionare gli ammortizzatori sociali; introdurre un reddito minimo garantito di 1000 Euro per disoccupati e pensionati.
 

Settembre, 2022
Mattia Scolari

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