In morte di un “migliorista”: Giorgio Napolitano

 

In morte di un “migliorista”: Giorgio Napolitano

di Tiziano Tussi

 


Giorgio Napolitano è stato molte cose, in politica. Da ultimo Presidente della Repubblica per una volta ed un po’ di più. Anche lui specchio di tempi miseri nei quali non si riusciva a trovare un altro candidato, dopo di lui, per la massima carica dello Stato. Siamo nel 2006. Napolitano doveva reggere la carica sino al 2013. Ma non essendoci altri più rappresentativi di lui vi restò per un secondo mandato dal quale si sfilò circa due anni dopo, motivo ufficiale, questioni di salute. Al di là dei ricordi vicini nel tempo e dei suoi spostamenti politici, sempre più in senso istituzionale e centrista, interessante appare rilevare la sua storia pregressa. 

Le sue radici culturali e politiche già nei decenni precedenti la sua abiura dal comunismo del PCI a fronte dell’accettazione del premio Kissinger, nel 2001, più di venti anni fa. Del resto, Napolitano era stato il primo “comunista” che aveva avuto un visto per recarsi negli USA. Il “comunista preferito” da Kissinger, come lui stesso ebbe a dire, al che lo stesso Napolitano chiosò come risposta “ex comunista”. Partiamo da quell’ex: lo facciamo seguendo un testo, oramai introvabile, se non usato, che riporta una lunga intervista, così la collana diceva, collana Laterza, Intervista sul PCI, a cura di Eric J. Hobsbawm del 1976, finito di stampare nel dicembre 1975. 

Intanto l’interesse, oltre alle posizioni di Napolitano riguardano ovviamente le domande e le osservazioni di Hobsbawm, figura maestosa di storico di sinistra, comunista. Che col tempo poi divenne sempre più un punto di riferimento per chi si interessa di storia del 1900. 

Al momento di pubblicare il libro aveva poco meno di sessant’anni e rappresentava già una chiara figura di indirizzo per gli studi sul marxismo e sul “secolo breve”, dal titolo di un suo fortunato e successivo tomo. Le domande dell’intervistatore sono dirette a chiarire la posizione di Napolitano, sia dal punto di vista culturale e ideologico sia dal punto di vista pragmatico e politico. Siamo alla metà degli anni ’70. Molte cose accadute dalla Resistenza e molte ancora che si profilavano all’orizzonte di questa Italia martoriata e sballottata, tra stragi e tentativi golpisti. 

Vediamo alcune parti del libro: la posizione di Napolitano nel 1975, che allora si occupava di tematiche culturali nel PCI, si apre con la precisa descrizione di quello che è il suo campo di riferimento ideologico: “dare vita ad un regime democratico di tipo nuovo” che vada verso il socialismo restando nella cornice borghese (p. 12 e 14). Questo concetto sarà ripetuto infinite volte. Perciò ci si deve veramente credere, al di là della “doppiezza” di togliattiana memoria. E quindi accettare il senso di verità e convinzione del suo sentire.  Una sorta di ultra- democraticismo (p. 15).

 Questo indirizzo di fondo, almeno per una parte lo accumunava proprio a Togliatti, definito “il migliore”, ed alla sua idea di un comunismo eccentrico rispetto alla lezione dell’URSS. La “via italiana al socialismo” di togliattiana memoria. Il segretario storico del PCI che muore nel 1964, lascia nel partito molti solchi profondi e Napolitano ci si infila con senso di responsabilità verso le grandi masse di operai che avrebbero dovuto costruire un rapporto duraturo con le altre componenti della società italiana, ben inteso democratiche, socialiste e cattoliche, per arrivare così ad un socialismo sui generis, ma ben radicato nel nostro paese. Così almeno credeva Napolitano. “Non era assolutamente nella prospettiva nostra [] Una transizione rapida al socialismo” (p. 18), e questo lo dice per il periodo della Resistenza. Hobsbawm gli chiede anche perché non si è fatta la rivoluzione allora e Napolitano risponde che era già tanto avere conquistato “posizioni avanzate” durante la Resistenza e non si poteva fare di più (p. 19).

 Insomma, il gradualismo ad ogni costo. Posizione politica che sarà criticata anche da Tito, proprio verso la politica di Togliatti.  E porterà anche al disarmo dei partigiani, di cui, una parte forse piccola, voleva fare come in Russia, ma non il PCI come organizzazione. Un gradualismo che conquisterà poi tutto il partito, tranne qualche mal di pancia da parte di soggetti che per anni vengono messi da parte. Indicativa è la vicenda di Terracini, riammesso nel partito dopo molti anni in cui fu espulso. Sempre a pagina 19, viene poi aggiunta l’appartenenza al campo militare ed economico dell’Occidente. Insomma, cosa fatta capo ha

La fregatura del dopo Resistenza trova, per Napolitano, il partito comunque saldo (p.  20). Vengono perciò rivendicati i primi anni del dopo guerra e la Costituzione, come elementi forti di una via più democratica verso il socialismo, che anche quando si perde all’orizzonte, rimane una finalità da perseguire. Il PCI come partito moderno (p. 26). 

Alcuni errori, di cui anche Napolitano fu partecipe, ma qui non lo dice, sono stati la repressione zdanoviana, per la cultura, e i carri armati in Ungheria nel 1956, che lo stesso Napolitano giustificò. Ma nel testo in oggetto non c’è la trattazione di questo ultimo fatto (p. 28 e 36-37). Problemi di linea politica vengono portati al partito, ed a lui, dal boom del capitalismo italiano verso nuovi traguardi e l’ammodernamento delle campagne (p. 30).  Hobsbawm insiste sulla differente linea politica tra il PCI e la storia del comunismo in Europa. Napolitano rivendica questa diversità e la difende con insistenza (p. 38/40).  Successivamente (p. 43-48) prova a difendere la linea togliattiana alla luce del 1968 e della rottura con settori delle classi di giovani, studenti ed operai. Per questo si cerca di proporre in modo fantasioso, in salsa di pura astrazione la chimera del “ruolo dirigente della classe operaia” (p. 60 e 61). 


Come se questa dicitura - classe operaia e ruolo dirigente – fosse rilevabile concretamente e di facile comprensione di ancor di più facile e rapporto tra classe operaia e ruolo dirigente a livello di messa in campo. Cerca poi di arruolare anche Gramsci al suo pensiero, citando un articolo dello stesso, Contro il pessimismo, visto in salsa positiva, la stessa salsa che dovrebbe usare, mescolandola, il PCI (p. 62). Ma ora si deve lavorare per comporre un campo largo di democrazia avanzata. E anche velocemente dopo la fine del governo di Allende in Cile, nel 1973. Per portare avanti tali disegni, Napolitano non dimentica l’esistenza dell’URSS, che offre comunque una sponda, ma defilata, alla politica del PCI (p. 73).

 Il PCI di allora, Napolitano in primis, recupera anche la NATO a questo percorso di democrazia allargata, NATO vista come possibile elemento di distensione, non dichiarato nella sua natura, che evidentemente non è tale (82). Le critiche che vengono dalla sinistra del partito, in fondo lasciano il tempo che trovano, dato che non tengono in considerazione tutto il lavoro politico e culturale, teorico e pratico che lo stesso partito sta affrontando. 

Sempre la stessa lezione del Cile che imperversa, ma non solo: “Anche dalla lezione portoghese (del 1974, n.d.r.) si deve trarre la conclusione [] che non è possibile sfuggire ad alcuni passaggi obbligati di un processo di trasformazione in senso socialista che voglia svolgersi sul terreno democratico.” (p. 108). Vengono perciò in mente le “leggi immutabili dell’economia”, cui alluderà, in futuro, Deng Xiao-Ping. Insomma, un quadro, già tracciato, una cornice definita. E all’interno si trova il PCI che al massimo può cambiare qualche colore.

 La posizione di Napolitano tende a non esaltare né demonizzare gli avvenimenti storici del socialismo, ma si indirizza verso una continua discussione sugli stessi, per fare prevale la tesi della “via italiana al socialismo”. Una curiosità. A pagina 122 cita una inquietante premonizione, utilizzando il binomio tra “liberi ed uguali”. Una rivelatrice assonanza verso il gruppo contemporaneo che si chiamava nello stesso modo, già scomparso? Forse, ma lasciamo queste piccolezze. Insomma, un rapporto con tutti nella discussione senza fine. 

Tutti buoni i buoni che poi sono tutti, tranne chi cerca di usare il pensiero critico per sostenere i rapporti sociali e politici in modalità classista, senza tenere presente le necessarie gradualità dello stare assieme. * Certo guardando la fine che ha fatto il PCI cui Napolitano ha preparato lea tomba già una cinquantina di anni fa si riesce anche meglio a rendersi conto della pochezza ideologica del gruppo dei miglioristi. Ma anche in quella situazione ed in mezzo a tanto pensiero astratto, si può comunque valutare la grande distanza, anche di quelle compagini, dalla vuotezza assoluta di oggi. 

Basti pensare al PD attuale ed ai suoi dirigenti, a partire dall’attuale segretario (è brutto dire segretaria, si pensa subito ad altre cose). Napolitano è comunque un gradino molto alto, ben al di sopra, teoricamente, a questi che ci sono oggi. Ma già nel 1975 ha rappresentato un profondo stimolo alla disaggregazione e disgregazione del suo partito.  Se ne rendeva conto?   

 

·     # Se mi è permesso un ricordo personale: metà anni Settanta, piazza Duomo, Milano. Comizio sindacale, parla Bruno Storti leader della CISL di allora. La contestazione della piazza fu imponente costringendo Storti a terminare in anticipo il suo comizio. Le discussioni del dopo contestazione, la piazza metteva di fronte due idee di comunismo. Uno era quello dei gruppi radicali di estrema sinistra, l’altro era quello del PCI che ripeteva, Napolitano docet, “noi, (i comunisti del PCI) questi qui (la DC) li spacchiamo. Non si deve prenderli di petto “li spacchiamo”. La realtà ha spaccato il PCI, con tutto il resto, ha lasciato una grande vuoto a sinistra dietro di sé.

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