Un partito per il mio regno!
UN PARTITO: UN PARTITO PER IL MIO REGNO ! di Franco Astengo
La
crisi della democrazia dei partiti appare ormai evidente e di
particolare gravità, almeno nel caso italiano, perché il suo processo
degenerativo avviatosi fin dagli anni’90 del XX secolo sta
trasformandosi, dopo diversi tentativi, in una sorta di “stretta” nella
quale si sviluppano fenomeni fortemente negativi fino a far pronosticare
la fine del Parlamento, o almeno la sua inutilità.
Nel
corso degli anni questa crisi è stata analizzata in maniera del tutto
insufficiente e in alcuni casi fuorviante, dando luogo a clamorosi
equivoci dai quali sono sortite anche scelte politiche clamorosamente
sbagliate come quelle legate ai tentativi di riforma costituzionale
attorno ai quali via via il sistema si è bloccato fino al loro
respingimento, per due volte, da parte del corpo elettorale.
Di
questo stato di cose si è occupato un politologo del calibro di Peter
Mair (con Kaltz autore della fondamentale teoria del “cartel party” nel
1992) con il volume “Governare il vuoto. La fine della democrazia dei
partiti”, pubblicato da Rubettino, Soveria Mannelli 2016.
Un
testo di grande importanza la cui analisi è stata affrontata da Eugenio
Salvati, in un intervento pubblicato dai “Quaderni di Scienza Politica”
n.1, Aprile 2018.
Vale
la pena allora analizzare alcune argomentazioni portate avanti nel
testo di Salvati, cercando di trarne indicazioni di natura politica
anche allo scopo di sottolineare alcuni fenomeni fortemente
sottovalutati nel corso del tempo e che stanno alla base del difficile
stato di cose in atto.
Il
ragionamento avanzato da Mair si basa, prima di tutto, sul tentativo di
rispondere a una domanda che, in verità, in molti ci siamo
costantemente posti nel corso di questi anni: “La democrazia può
funzionare senza partiti ?” e ancora “O meglio, quale genere di partiti
operano nella complicata realtà della democrazia contemporanea, sempre
più vittima della disaffezione dei cittadini?”.
La
premessa è che i partiti che governano le nostre democrazie sembrano
sempre più partiti senza “un popolo”, organizzazioni ormai incapaci di
adempiere a quella funzione di collegamento tra politica istituzionale e
partecipazione interesse/popolare.
Entra
in scena, sotto questo aspetto, la formula elaborata nel 1960 da Elmer
E. Schattschneider sulla “semi – sovranità”: concetto che ci conduce al tema riguardanti le forme che può assumere il rapporto tra governati e governanti.
Un
rapporto che dovrebbe realizzarsi attraverso la cosiddetta funzione “di
rispondenza” da parte dei governanti rispetto alle domande, alle
preferenze e agli input provenienti dalla società e che la politica
dovrebbe essere poi in grado di tradurre in output.
E’
questo un punto di grande delicatezza proprio nella fase che sta
attraversando il sistema politico italiano, dove l’intreccio tra
“democrazia del pubblico” e utilizzo delle nuove tecnologie sta
determinando una miscela micidiale d’incontrollabilità dell’autonomia
del politico, fino a determinare un’assoluta separatezza tra le scelte
di governo mediate tutte dall’opportunismo tattico del riferimento
elettorale, le reali esigenze della “società complessa” mediate dal
“corporativismo da Facebook” ,fondato completamente sulle “percezioni” e
non sui fatti reali e la corsa “folle” all’accaparramento delle
posizioni di potere (corsa “folle” che alla fine favorisce i soliti
“gran commis” protagonisti del miglior trasformismo di natura italica”).
Nella
sostanza il quadro appare segnato dallo scollamento tra
procedure/Garanzie costituzionali e partecipazione / ruolo dei
cittadini: fenomeni che hanno segnato la crisi strutturale dei partiti
stretti ormai tra quella che è stata definita “Illusione Populista” e la
razionalità tecnocratica. Fenomeni che alimentano fortemente proprio lo
scollamento appena denunciato.
Come
già accennato in precedenza a questo punto la rappresentanza degli
interessi diffusi cede il posto a quella degli interessi particolari,
ossia con la necessità che hanno i politici di rispondere semplicemente
alle domande a breve termine delle elettrici e degli elettori (dal
reddito di cittadinanza, al possesso di armi).
Su
questo elemento s’innesta quel contrasto all’interno del quale
potrebbero farsi largo forme di democrazia (si è addirittura usato
l’ossimoro “democrazia autoritaria”) ancora più ibride, modelli in cui
alla preminenza della conoscenza e della tecnica si possono associare
aspetti di tipo plebiscitario ,contrabbandati da “democrazia diretta”
verso la quale da qualche parte si sta recuperando l’idea della
“democrazia consiliare” al riguardo della quale chi scrive queste note
ha cercato vanamente di impegnarsi nel corso degli anni.
Aspetti
plebiscitari utili a paventare una patina di consenso e di parziale
mobilitazione diffusa, utile a coprire un governo decisamente più
sbilanciato verso la dimensione tecnocratico – burocratico.
Sotto
quest’ aspetto va sottolineato come l’accordo Lega – M5S al riguardo
del “contratto di governo” sia stato approvato, attraverso la
piattaforma Rousseau 44.796 persone su 10.732.066 che avevano votato il
movimento il 4 marzo 2018, pari allo 0,41%.
Secondo
Mair (riportato da Salvati) al centro dell’analisi deve collocarsi lo
svuotamento sostanziale dello spazio politico tra partiti e cittadini,
ossia quello spazio dove avviene l’interazione tra politica e società.
Quel
luogo, insomma, in cui, teoricamente, i partiti dovrebbero raccogliere
domande e sostegno e offrire rappresentanza, risposte e assumere
responsabilità.
Come
verifichiamo ogni giorno quello spazio d’interazione è ormai coperto
soltanto dagli annunci e l’arena politica sembra essere trasferitasi
completamente nella virtualità dei social.
Sulle
ragioni del determinarsi di questo stato di cose ci si sofferma su tre
questioni: partecipazione elettorale, instabilità elettorale, indicatore
della fedeltà partitica.
Mi
soffermo soltanto sul primo punto, al riguardo del quale in passato mi
era capitato più volte di riflettere rammaricandomi del quanto la
sottovalutazione del fenomeno avesse determinato le difficoltà crescenti
che l’intero sistema politico italiano stava via via incontrando.
In
Italia si è scesi rapidamente da una partecipazione al voto
costantemente superiore all’80% degli aventi diritto (oltre il 90% dal
1948 al 1983) a percentuali parecchio inferiori che nel caso di elezioni
amministrative e referendarie non raggiungono il 50%. Il fenomeno è
stato colpevolmente scambiato, anche da parte di cattedre
particolarmente autorevoli, come di un semplice riallineamento al
“trend” delle democrazie cosiddette “mature” trascurando almeno due
fenomeni di fondo:
1) Il
primo riguarda la profondità delle ragioni del non voto: molti,
infatti, ritengono che l’offerta politica risulti del tutto
insufficiente nello stabilire l’effettiva possibilità che la scelta di
un’opzione piuttosto che di un’altra produca effettivo cambiamento.
L’offerta politica viene, infatti, considerata omologata nei diversi
soggetti che si propongono e non provoca quindi sufficiente reazione. Un
elemento, questo, da valutare attentamente, in particolare da parte del
M5S che proclama una propria diversità di comportamento, ma non
realizza l’effettiva prospettiva di un mutamento nella concretizzazione
di contenuti, anzi. E’ per questo motivo che la presenza, formalmente
innovativa, del M5S non ha prodotto, all’interno del nostro sistema
politico, un qualche recupero di partecipazione elettorale. Al contrario
la presenza del M5S e l’assunzione da parte della Lega Nord di
connotati più fortemente populistici ha prodotto soltanto un
rimescolamento delle carte e la fuga di altre centinaia di migliaia di
elettrici ed elettori (nell’occasione delle elezioni politiche del 2013
la partecipazione si collocò al 75,19% diminuendo con le europee 2014 al
58,68% e risalendo nel 2018 al 72,94% con una perdita tra il 2013 e il
2018 di 1.400.000 voti validi).
2) Il
secondo elemento riguarda la cosiddetta “riduzione del demos”. La
scomposizione sociale (la cosiddetta “società liquida)in atto da tempo
nel segno della “modernità” e dell’individualizzazione rispetto
all’innovazione tecnologica in materia di comunicazione, ha prodotto –
oltre al fenomeno dilagante e crescente dell’individualismo consumistico
– l’illusione che la politica non tacchi più la vita delle persone, ma
si tratti di fenomeno riservato soltanto a coloro che intendono vivere
“di” politica, scalandone i gradini in termini di cursus honorum
considerato soltanto nell’ambito ristretto del concetto di
governabilità. Questo secondo punto si è scatenata, come abbiamo già
avuto occasione di far osservare, la cosiddetta “antipolitica”con
l’aggressione dello spazio vuoto, operazione naturale del resto in tutte
le dinamiche politiche.
Il
tema della partecipazione elettorale deve essere collegato, all’interno
di un’analisi certamente più accurata e approfondita di quella che mi
trovo a sviluppare in questa sede, al fenomeno che Mair definisce “calo
della fedeltà partitica” e che, in Italia, ha assunto la vesta dello
svuotamento e della relativa conclusione dell’esperienza dei partiti a
integrazione di massa sviluppatisi fin dal primo dopoguerra e,
successivamente, modellati secondo lo schema di Duverger dei “cerchi
concentrici”, di cui era stato prototipo e modello il PCI “partito
nuovo” d’impronta togliattiana.
E’
evidente che sotto questo aspetto risultasse fondamentale il tema
dell’ideologia e del come la diversità delle ideologie attorno alle
quali si raccoglievano strati sociali diversi e in lotta fra di loro (e
di conseguenza alla ricerca di una rappresentanza politica omogenea
ciascuno per i diversi interessi) si sia alla fine risolta nel “pensiero
unico” e nella fenomenologia della “fine della storia” ( Francis
Fukuyama, The End of History and the Last Man, The National Interest, 1989).
Esiste
insomma una stretta correlazione (quasi ovvia verrebbe da sottolineare)
tra il “Pensiero Unico” e il calo verticale della fedeltà partitica,
avvenuta mentre non ci si accorgeva dell’affermarsi egemonico di una
nuova ideologia, quella che – in passato – mi sono permesso di definire
“dell’individualismo competitivo”.
In
questo caso, come sottolinea Mair, il dato è strutturale e coinvolge
tutte le maggiori democrazie europee, segnando un trend nell’emorragia
di iscritti ai partiti cominciato negli anni ’90.
In
Italia, sotto questo aspetto, è risultato fondamentale lo scioglimento
del PCI, vero punto di disequilibrio del sistema ancor di più dei
successivi scioglimenti di DC e PSI verificatisi sull’onda di
Tangentopoli.
Su questo argomento ha scritto proprio in queste ore un socialista coerente come Giovanni Scirocco: Dopo
l'89, sgombrato l'equivoco comunista, si è assistito a un clamoroso
"sputtanamento semantico" (per usare l'espressione di uno dei miei
professori al Liceo Carducci, Salvatore Guglielmino) del termine
"socialismo". Se ciò era comprensibile a Est, molto meno lo è, ai miei
occhi, in Occidente. Soprattutto, essendo ciò avvenuto con il concorso e
la complicità di chi avrebbe dovuto difendere il significato e il
valore di quel termine. A me hanno insegnato, per dirne una, che
"socialismo" vuol dire stare dalla parte dei lavoratori. Qui abbiamo
visto esponenti del maggior partito della sinistra schierarsi
tranquillamente con i datori di lavoro e i loro rappresentanti (anche i
vari senza vergogna che magari avevano precedente
militato nei Quaderni rossi, LC o nel Pci, perfino partecipando all'occupazione della Fiat). I risultati elettorali di questa follia sono sotto gli occhi di tutti. Se si perde il senso della direzione, tutto il
resto non ha senso”. ( un testo molto condivisibile a parte il dissenso personale sul passaggio riguardante “l’equivoco comunista”.
militato nei Quaderni rossi, LC o nel Pci, perfino partecipando all'occupazione della Fiat). I risultati elettorali di questa follia sono sotto gli occhi di tutti. Se si perde il senso della direzione, tutto il
resto non ha senso”. ( un testo molto condivisibile a parte il dissenso personale sul passaggio riguardante “l’equivoco comunista”.
Non
si può ancora dimenticare che gli anni’90 del XX secolo, periodo al
quale è necessario fare riferimento al fine di sviluppare un’analisi il
più possibile corretta, furono gli anni del Trattato di Maastricht, del
poderoso rilancio dell’integrazione europea sulla base del Mercato Unico
e della costruzione delle basi per approdare alla moneta unica,
all’inizio del nuovo secolo.
E’
risultato micidiale l’illusione che uno spazio economico comune potesse
essere sufficiente nel tenere insieme paesi diversi senza il collante
definito dell’appartenenza a uno spazio politico comune, fino a
comprendere 27 membri, fra i quali i paesi dell’Est europeo fuoriusciti
dal “socialismo reale” e oggi paradossalmente collegati nel cosiddetto
“gruppo di Visegrad” espressione di governo di destra razzista.
Fu
quella l’avvio della stagione della de-politicizzazione incarnata dalle
istituzioni maggioritarie costruite a Bruxelles, istituzioni che poi
faranno sentire tutto il loro peso tecnocratico sugli stati nazionali in
occasione di quelle che Mair definisce grandi sfide, cominciate nel
2008 con la grande crisi del ciclo capitalistico.
La
risposta a tale spaesamento è stata fornita dai nuovi attori politici
(oppure capaci audacemente di auto riciclarsi come nel caso della Lega
Nord), definiti tutti genericamente come “populisti” in una notte in cui
tutte le vacche hegelianamente sono nere,e che ottengono sempre più
successo grazie alla loro capacità di dare rappresentanza ai bisogni
marginalizzati nel mettersi in contrasto con altri gruppi (gli
immigrati, le cosiddette “élite”, i politici, ecc,ecc) in un quadro di
individualismo estraniante.
Concludo sul tema dei partiti, seguendo ancora lo schema Mair – Salvati.
Proprio
il quadro descritto sembra indicarci che i partiti, almeno in linea
teorica, sono ancora importanti e che la crisi strutturale contemporanea
è più che altro una crisi dei partiti di cartello, eredi delle grandi
famiglie politiche europee.
I partiti debbono continuare a esistere con il compito di promuovere scelte politiche alternative e rappresentare gli attori in grado di raccogliere e processare preferenze diverse provenienti dalla società.
I partiti debbono continuare a esistere con il compito di promuovere scelte politiche alternative e rappresentare gli attori in grado di raccogliere e processare preferenze diverse provenienti dalla società.
I
partiti sono forti e radicati quando sono in grado di raccogliere e
interpretare gli orientamenti e le preferenze delle loro basi sociali.
Nel
momento in cui la società si atomizza e i partiti non riescono più a
proporsi come alternativi sulla base di una visione della società ben
precisa, questi ultimi cercando di raccogliere il consenso più ampio
possibile ( sulla base di quella concezione negativa dell’autonomia del
politico della quale sono campioni gli attuali soggetti al governo in
Italia) e si muovono oltre quelli che possono essere gli steccati
definiti da basi sociali diverse e ben delineate, portando al parossismo
il partito pigliatutti (catch-all party, definizione coniata da Otto Kirchheimer),
modello del quale è stato epigono colpevole e sfortunato, in Italia, il
cosiddetto PD (R), partito al quale va attribuita la responsabilità
della quasi avvenuta cancellazione del concetto di sinistra nel sistema
politico italiano.
Sembrano
aver perso anche valore contraddizioni sociali e politiche decisive
come quella riguardante la differenza di genere, ormai totalmente
annullata in una politica gestita totalmente “al maschile” (anche da
parte delle donne”) tanto è vero che riaffiora la tentazione (limitante
se non ghettizzante) delle “quote rosa”.
Per
concludere: contrastare questa deriva appare oggi operazione pressoché
impossibile, tanto è vero che la tendenza (ben alimentata dai risultati
elettorali più recenti) è quella dell’auto – marginalizzazione in isole
dall’identità incerta tra movimentismo di stampo populista, residualità
più o meno ideologizzate, bandiere tenute al vento per pura voglia di
testimonianza.
Valutata
l’insufficienza complessiva (per diverse ragioni) delle soggettività
esistenti sul versante della sinistra (senza distinguere tra radicale e
riformista)occorre coraggio promuovendo, rivolgendoci a tutti,
un’iniziativa del tutto controcorrente, almeno in apparenza: quella
della promozione e dell’organizzazione di un partito della sinistra,
posto sulle basi delle esperienze storiche e delle necessità incombenti.
Un
soggetto politico che prima di tutto non consideri la storia finita e
il capitalismo (nelle sue varie declinazioni) il solo orizzonte
possibile.
Un
soggetto politico che non può essere definito altrimenti che “partito”,
la cui realtà teorica, politica, organizzativa debba essere imperniata
su due principi fondamentali:
1) Un
partito attrezzato per continuare a considerare l’andamento della
storia nel senso di una trasformazione in senso socialista della
società, per il superamento del capitalismo;
2) La
Costituzione italiana nella sua essenza riguardante il rapporto tra la
prima e seconda parte e del tipo di cittadinanza che vi si delinea,
intesa quale “tavola” ancora da applicare considerandola come strumento
per un passaggio di transizione. Costituzione che contiene in sé anche i
necessari elementi di riferimento sul piano della dimensione
sovranazionale e di politica estera.
3) La
questione del “governo” semplicemente non esiste, almeno per questa
fase politica. Questo perché il dato prioritario da conseguire è quello
della rappresentanza a tutti i livelli. Rappresentanza fondata su di
un’aggregazione radicata nella realtà e posta a diretto confronto con la
molteplicità delle contraddizioni che agiscono pesantemente sulla
società moderna (le abbiamo tutti presente; evitiamo inutili liste della
spesa.)
Il
tutto considerato che si tratta anche di delineare un orizzonte epocale
(e quindi di ricostruire una prospettiva teorica) al riguardo di un
tema che non può essere sottovalutato , quello che appare assai
complesso da affrontare al riguardo della prospettiva strategica che
deve essere posta essenzialmente al riguardo della trasformazione che
l’agire politico subirà oggettivamente sotto l’incalzare
dell’innovazione tecnologica: una rivoluzione di cui non abbiamo ancora
valutato le conseguenze e che ci potrebbe portarci a un altro livello di
confronto con una tecnocrazia basta su macchine azionate da dati e
algoritmi, in grado di determinare l’orientamento della vita delle
persone.
Fermiamoci però a questo punto limitandoci alla nostra ricerca del “controcorrente” delineato nella fase e nel medio periodo.
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