Dossier Cile ............a cura del GIGA

riceviamo e pubblichiamo il dossier del Cile tratto dal quotidiano IL Manifesto Ecco il governo Boric: donne, clima e un po’ di comunismo Cile. 14 ministre su 24 dicasteri. Tra loro, leader della protesta e la nipote di Allende: guiderà le forze armate. Ma qualcosa non cambia: l’ex presidente della Banca centrale va all’Economia, per la gioia degli imprenditori C’è molta «energia di trasformazione», secondo le parole di Gabriel Boric, nella squadra di governo da lui annunciata venerdì davanti al Museo nazionale di Storia naturale. Ad attirare l’attenzione, per la sua forte valenza simbolica, è stata la nomina al ministero della Difesa della nipote di Salvador Allende, Maya Fernández Allende, deputata del Partido Socialista vicina al Frente Amplio, al punto da unirsi alla squadra di Boric dopo la sua vittoria alle primarie della coalizione Apruevo Dignidad (l’alleanza tra Frente Amplio e Partido Comunista). Nata appena due anni prima del golpe, aveva passato i primi vent’anni della sua vita a Cuba con la madre Beatriz, morta suicida a L’Avana, per tornare in Cile nel 1990 e iscriversi allo stesso partito del nonno. Sarà lei, dall’11 marzo, a presiedere i tre rami delle forze armate. Ma la nipote di Allende è solo una delle ben 14 donne tra i 24 ministri scelti dal presidente eletto, che è così andato oltre la stessa presidente Bachelet, che nel suo primo governo aveva introdotto una perfetta parità di genere. E se una novità assoluta è la designazione di una donna alla guida degli Interni, la 35enne Izkia Siches, che è stata a capo della campagna elettorale di Boric e ha presieduto l’importante Colegio Médico, alle donne sono stati assegnati anche altri ministeri di peso, dagli Esteri alla Giustizia, dalla Salute alle Miniere. Senza dimenticare l’Ambiente, che, si suppone, avrà un peso tutt’altro che trascurabile in quello che Boric ha annunciato come «il primo governo ecologista della storia del paese»: a presiederlo sarà la fisica e climatologa Maisa Rojas, direttrice del Centro di Scienza del clima e resilienza e coordinatrice del Comitato scientifico sul cambiamento climatico (tra molto altro). Sono donne anche due dei tre ministri comunisti presenti nel prossimo governo, insieme a Flavio Salazar (Scienza e tecnologia): Camila Vallejo, nota leader del movimento studentesco del 2011, alla guida della Segreteria generale di governo, e Jeannette Jara, a capo del ministero del Lavoro. Ma un segnale di cambiamento viene anche dalla nomina di Marco Antonio Ávila, primo insegnante a presiedere il ministero dell’Educazione: un’importante indicazione del ruolo prioritario che assumerà l’educazione pubblica. Se il cambiamento c’è, non è però completo. A fronte dell’assenza di una maggioranza propria in parlamento, Boric ha allargato il governo anche a forze estranee ad Apruevo Dignidad, a cominciare da quelle – screditatissime tra le forze che hanno dato vita alla rivolta sociale del 2019 – della ex Concertación. Tra queste la parte del leone è toccata al Partido socialista a cui sono andati Difesa, Esteri e Politiche abitative e urbane. Ma a esso è legata anche la nomina più discussa e più applaudita dagli imprenditori: quella al ministero dell’Economia di Mario Marcel, già presidente della Banca centrale sotto i governi di Bachelet e Piñera e presente in tutti i governi della Concertación. Di «grande decisione» ha non a caso parlato il multimilionario cileno Andrónico Luksic, che ha definito il neoministro «un economista serio, con esperienza internazionale, che ha dimostrato grande responsabilità alla guida della Banca centrale». Durissimi, viceversa, i commenti della sinistra radicale: «Quello che è bene per Luksic è bene anche per il popolo?». Evidentemente, è il commento dei settori legati alla «Prima linea» della protesta, in riferimento al noto slogan dell’estallido social, «per Boric non erano 30 anni, erano 30 pesos». Per il presidente eletto, tuttavia, gli obiettivi restano chiari: «Rilanciare l’economia senza riprodurre le disuguaglianze strutturali. Crescita sostenibile con una giusta redistribuzione delle ricchezze». E ribadisce: «Realizzeremo, passo dopo passo, tutti i cambiamenti che ci siamo proposti». Claudia Fanti 23.01.2022 El Salvador 30 anni dopo, chi salverà El Salvador Dal Fronte Farabundo Martì alla città dei bitcoin. L’anniversario degli storici accordi di pace "negato" dal presidente twittero e pigliatutto, Najib Bukele, convinto che solo le criptomonete possano risollevare le sorti del Pulgarcito de America, il minuscolo paese dell’istmo centramericano in cui si è consumata la guerra di "contrainsurgencia" più sofisticata condotta dagli Usa dopo il Vietnam. Con 75mila morti, perlopiù civili Il 16 gennaio di trent’anni fa nel castello di Chapultepec a Città del Messico furono firmati gli accordi di pace fra la destra al governo e la guerriglia del Frente Farabundo Martì de Liberación Nacional (Fmln) che misero fine a dodici anni di guerra civile in El Salvador. Ma l’intesa era stata raggiunta la sera del 31 dicembre ’91 a New York a Palazzo di Vetro, quando il peruviano Javier Pérez de Cuéllar mise alle strette il presidente Alfredo Cristiani e la comandancia general del Fmln avvertendoli che la sua mediazione nel negoziato sarebbe scaduta quella mezzanotte stessa insieme al suo mandato di segretario generale dell’Onu. NEL MINUSCOLO EL SALVADOR si era consumata la guerra di contrainsurgencia più sofisticata condotta dagli Stati uniti dopo il Vietnam (con gli ex vietcong che addestravano gli insorti nel Nicaragua sandinista). Per di più nell’istmo centroamericano, tradizionale «cortile di casa» degli States. Ogni giorno Washington foraggiava il governo civico-militare con almeno 2 milioni e mezzo di dollari fra armi e aiuti economici (oltre che consiglieri militari). La sua strategia di guerra di «bassa intensità» era quella di «togliere l’acqua al pesce», ovvero, in un territorio di appena 21mila kmq densamente abitato, di eliminare la popolazione (l’acqua) nella quale la guerriglia (il pesce) si muoveva con grande consenso. Di qui le almeno 75mila vittime, in buona parte civili Su queste pagine abbiamo seguito il corso di quel lungo conflitto. Fino a quando il primo febbraio 1992 assistemmo all’ingresso in festa dei combattenti del Fronte (disarmati) nella Plaza de la Libertad di San Salvador. MA NE MANCAVA UNO, che sento qui il dovere di ricordare: Antonio Cardenal, nome di battaglia Jesús Rojas, un dirigente del Fmln che avevo conosciuto un anno prima in una sua breve permanenza in Nicaragua da dove (negli ultimi anni) la comandancia del Fronte dirigeva la guerra. Alto, robusto, di origine nicaraguense e nipote nientemeno che del padre-poeta Ernesto Cardenal (ministro della Cultura durante la Rivoluzione Sandinista). Da ex seminarista gesuita a San Salvador si integrò ben presto nelle fila della guerriglia diventandone comandante di campo. CONVERSAMMO A LUNGO quel tardo pomeriggio a Granada, sulle rive del Grande Lago Cocibolca; e dopo cena, prima di accomiatarci, mi disse: «La prossima volta che vieni in Salvador potresti fare un reportage nella zona liberada di Chalatenango dove sto». Lo presi in parola e in uno dei miei frequenti viaggi di quel periodo nel Pulgarcito de America (pollicino, come lo chiamava il poeta Roque Dalton) giunto a San Salvador mi passarono clandestinamente i suoi contatti per raggiungerlo nella sua area al confine con l’Honduras. Era tutto organizzato, quando venni a sapere che la settimana dopo re Juan Carlos e la consorte Sofia avrebbero visitato il Nicaragua, recandosi proprio a Granada, prima città fondata dagli spagnoli su terraferma in America Latina e rimasta dov’era. Mi consultai con la redazione esteri e decidemmo di rimandare Chalatenango per seguire il primo viaggio nella storia di regnanti di Spagna in Nicaragua. Destino volle che quell’alba dell’11 aprile 1991 (invece di essere con lui) ero sulla via dell’aeroporto per rientrare col volo di Copa a Managua, quando Jesús cadde in un’imboscata dell’esercito insieme ad altri 14 guerriglieri… LE OSTILITÀ SI SAREBBERO concluse meno di un anno dopo con un pari e patta militare. Ma evidente era l’affermazione del Fmln sul piano politico, tanto più da banana republic quale era stato storicamente El Salvador. Infatti, se pur nessuno degli autori dei massacri di civili (come quelli del Rio Sunpul o del Mozote) finì in carcere grazie a un’amnistia successiva, ben 112 ufficiali superiori della forza armata vennero rimossi e pensionati. Il nuovo esercito e la polizia furono ricostituiti integrando anche ex guerriglieri. Solo un paio di militari finirono agli arresti per la mattanza dei sei gesuiti dell’Università Centroamericana del novembre 1989 (durante la tentata ofensiva final del Fronte). L’assassinio invece dell’arcivescovo Oscar Romero del marzo 1980, all’indomani del quale di fatto scoppiò il conflitto, è rimasto tuttora impunito. Deposte le armi non si è registrato pressoché alcun omicidio politico nel Salvador e si instaurò una dinamica politica ed elettorale accettabilmente democratica rispetto al resto della regione. Ciò che non venne affrontato è la revisione della proprietà delle terre pur timidamente prevista da quegli accordi, in un paese in buona misura ancora prigioniero dell’atavico schema coloniale oligarchia versus peones; che provocò la strage di campesinos del 1932 (dove perì il ribelle Farabundo Martì) ad opera di un sanguinario regime militare che solo una lotta armata avrebbe potuto più tardi scalzare. NEPPURE L’AVVENTO al governo dell’ex guerriglia negli ultimi due mandati (dopo i tre della destra) ha potuto scalfire più di tanto le disuguaglianze sociali, con il Fronte che non riusciva a far passare le proprie riforme per non avere la maggioranza in parlamento, dove veniva sistematicamente boicottato dal partito Arena. Senza contare poi le divisioni e i settarismi nella sinistra salvadoregna. Col risultato di non riuscire nemmeno a contenere il fenomeno della violenza delle maras (bande giovanili) e la massiccia emigrazione verso il nord, le cui sole rimesse familiari riescono a tenere in piedi i magri bilanci dei più poveri. Fino a che l’Fmlm stesso ha partorito l’attuale giovane presidente Najib Bukele, sconsideratamente espulso dal suo seno quando era sindaco della capitale. Scagliandosi contro questo paralizzante bipartitismo, il twittero Najib si è imposto nel 2019 alla massima carica dello stato e ha stravinto le elezioni parlamentari e municipali del 2021 col suo partito Nuevas Ideas, conquistando il favore della maggioritaria giovane e disperata popolazione del Salvador. In un delirio di potere personale ha poi subordinato il potere giudiziario e iniziato a perseguitare la stampa indipendente. LA SCOMMESSA DI BUKELE oggi è quella di “salvare” il paese con il bitcoin, la criptomoneta che con azzardo ha messo in circolazione dal settembre scorso e che ha generato grande incertezza, oltre a risvegliare una sinistra ridotta nei consensi a una cifra. Recentemente Bukele ha annunciato pure la prossima fondazione di Bitcoin City, che sarà finanziata con l’emissione di Bitcoin Bond e interamente alimentata con energia geotermica del vulcano Conchagua. Mentre in occasione di questo storico 30mo anniversario ha annullato per decreto la commemorazione di quegli accordi di pace che ha definito una «farsa» e «l’inizio dell’era della corruzione», convertendo il 16 gennaio in «festa delle vittime della guerra»; come a dire dei caduti provocati dai due stessi contendenti. Non solo: ha ordinato a polizia ed esercito di bloccare gli accessi a San Salvador a bus e pulmini che trasportavano manifestanti da tutto il paese per una mobilitazione nazionale che ha avuto tuttavia un grande successo. Ma un presidente che rimuove o, peggio, tergiversa la memoria, ipoteca per sé (e per il proprio paese) un pessimo futuro… Gianni Beretta 23.01.2022 Il gesuita che convertì San Romero El Salvador. La beatificazione di Rutilio Grande, primo prelato ucciso su ordine dei latifondisti perché «comunista amico dei campesinos», completa l’opera di riparazione di avviata da papa Bergoglio Si è svolta domenica scorsa a San Salvador la cerimonia di «beatificazione» del gesuita Rutilio Grande, primo sacerdote ucciso in El Salvador nel marzo del 1977 dalla Guardia Nacional su ordine dei latifondisti che lo additavano come «un comunista dalla parte dei campesinos». Con lui nell’agguato consumatosi nella zona rurale di Aguilares perirono trivellati di colpi nella stessa auto un anziano contadino e un quindicenne. Anch’essi sono stati dichiarati «beati»; insieme al missionario francescano di origine italiana Cosma Pessotto, ammazzato in una chiesa più tardi nel giugno ’80, a guerra civile già iniziata. ALLA FUNZIONE, presieduta dal cardinale salvadoregno Rosa Chavez, non ha assistito il giovane presidente Najib Bukele che giusto una settimana prima aveva provocatoriamente cancellato la commemorazione per i trent’anni dagli accordi di pace che misero fine a quel cruento conflitto fra regime civico-militare e guerriglia. Bukele ha preferito partire per Ankara, dove sottoscriverà un inedito accordo commerciale col suo omologo turco Erdogan. Fu un pesante tributo di sangue quello pagato negli anni ’70 e ’80 da quella parte di chiesa salvadoregna in odore di Teología de la Liberación: 20 sacerdoti (fra cui i sei gesuiti dell’Università Centroamericana), quattro monache e centinaia di catechisti di un popolo eminentemente cattolico. Fino al sacrificio dell’arcivescovo di San Salvador Oscar Romero il 24 marzo 1980 mentre diceva messa. Sì, proprio lui che era stato proposto in Vaticano come metropolita dai suoi colleghi vescovi reazionari per essere egli stesso un conservatore; a perpetuare il secolare schema coloniale di una oligarchia con i suoi due bracci operativi, militare ed ecclesiastico. MA IL TORMENTATO e scorbutico monsignor Romero aveva paradossalmente allora come unico amico (nonché confessore) il padre Rutilio Grande, che aveva scelto come «cerimoniere» per il suo insediamento alla massima carica religiosa. È l’assassinio di Rutilio, neanche un mese dopo, a spalancargli definitivamente gli occhi sulla realtà della repressione nel suo paese, convertendolo nella «voce dei senza voce» per una riconciliazione nazionale fondata sulla giustizia sociale. Da quel momento Romero ha avuto violentemente contro la destra, l’esercito e tutto l’episcopato locale (tranne monsignor Arturo Rivera y Damas). A ROMA INVECE papa Paolo VI lo ricevette incoraggiandolo. I problemi gli si complicarono anche in Vaticano dall’ottobre ’78 con l’avvento al pontificato di Karol Woytjla e il suo piano di azzeramento della sovversiva opción preferencial por los pobres latinoamericana (che spazzò via nell’arco di qualche anno). La curia romana cominciò a giocare apertamente contro il primate salvadoregno fino a chiederne l’esautoramento con l’invio di un amministratore apostolico. Giovanni Paolo II non avallò quel provvedimento. Ma nel maggio ’79 quando ricevette Romero per la prima volta nella Santa Sede lo rimproverò severamente: «Devi dialogare con il governo» gli disse. E Romero: «Ma Santo Padre, ammazzano la nostra gente…». Quella di Woytjla fu una vera e propria delegittimazione che isolò del tutto Monseñor nel suo paese. Fino al suo ammazzamento (dopo appena tre anni passati da arcivescovo) orchestrato dal fondatore della destra di Arena, nonché degli squadroni della morte, l’ex maggiore Roberto D’Aubuisson. Anche i suoi funerali furono “profanati” con l’uccisione di decine di fedeli nella piazza della cattedrale. È all’indomani di quel magnicidio che, di fatto, in El Salvador si scatenò il conflitto civile che si sarebbe prolungato per dodici lunghi anni. NEL MARZO 1983 nel suo primo viaggio in Centroamerica (che seguimmo sul posto su queste pagine) il papa polacco, violando ogni protocollo, volle andare a pregare sulla sua tomba. Forse in segno di riparazione. Di certo per la preoccupazione che la figura di monsignor Romero non fosse scippata dalla sinistra politica. «Monsignor Romero è nostro, è della Chiesa», ebbe a ripetere più volte negli anni successivi. Sta di fatto che il processo di canonizzazione di Oscar Romero, che prese il via solo nel 1994 per iniziativa del suo successore Rivera y Damas, quando arrivò a Roma rimase chiuso nel cassetto per tutto il resto del papato di Woytjla, così come del suo successore Joseph Ratzinger. C’è voluto l’avvento del primo papa latinoamericano (nonché gesuita) per sdoganare quella pratica. Appena un mese dopo la sua elezione papa Francesco, fra le sue priorità, diede disposizione al postulatore vaticano che riprendesse in mano quel dossier in un vero e proprio atto di risarcimento nei confronti del prelato salvadoregno. Beatificato a San Salvador due anni dopo (nel maggio 2015) monsignor Romero veniva dichiarato «Santo» a Roma dallo stesso Bergoglio nell’ottobre 2018; guarda caso insieme a papa Paolo VI, l’unico che l’aveva sostenuto. MA NON POTEVA FINIRE LÌ. Per completare l’opera di riparazione anche padre Rutilio Grande, l’ispiratore di colui che poi divenne San Romero de America, è stato dichiarato a tempo di record beato «in odio alla fede», cioè a dire da cattolico martirizzato per mano di stessi cattolici. Bene ha sintetizzato recentemente il gesuita Martin Maier (attuale direttore in Germania di Adveniat-America Latina) affermando che «la canonizzazione di monsignor Romero costituisce il paradigma del pontificato di papa Francesco» nel suo intento di riscattare il Concilio Vaticano II. Gianni Beretta 25.01.2022 Messico Lourdes Maldonado, terza giornalista uccisa nel 2022 Messico. Aveva chiesto aiuto al presidente López Obrador. Oggi la stampa scende in piazza I Domenica 23 gennaio la giornalista María Guadalupe Lourdes Maldonado è stata uccisa a Tijuana, freddata a colpi di pistola mentre si trovava a bordo della sua auto. Lourdes è la terza giornalista assassinata in Messico dall’inizio del 2022, la seconda ad essere uccisa a Tijuana. Appena una settimana fa, il 17 gennaio, il fotoreporter Margarito Martínez è stato ucciso a pochi passi da casa sua mentre andava a coprire un fatto di cronaca. Il 10 gennaio José Luis Gamboa Arenas, direttore della pagina Facebook Inforegio Network, è stato invece ammazzato nella città di Veracruz, capitale dell’omonimo Stato. Questi tre lutti riaffermano una realtà angosciante: il Messico è tra i paesi più pericolosi al mondo per esercitare il giornalismo. Dal 2000 ad oggi, l’organizzazione Artículo 19 ha registrato l’assassinio di 147 cronisti: 136 uomini e 11 donne. Con l’uccisione di Maldonado il saldo aumenta a 148. Dall’inizio del governo di Andrés Manuel López Obrador, nel 2018, sono stati ammazzati ben 28 giornalisti. SEMPRE SECONDO Artículo 19 il 98% dei delitti commessi contro la stampa – omicidi, sequestri, minacce – resta totalmente impunito, incentivando un clima di paura e autocensura. Nel marzo del 2019, Lourdes Maldonado aveva chiesto il sostegno del presidente rispetto a una vertenza di lavoro che la faceva temere per la propria incolumità. L’aveva fatto durante una delle conferenze stampa mattutine di López Obrador, segnalando come mandante di eventuali violenze contro di lei Jaime Bonilla Valdez, membro del partito presidenziale Morena. Bonilla – che pochi mesi dopo sarebbe stato eletto governatore della Baja California (Stato in cui si trova Tijuana) – è il proprietario di Primer Sistema de Noticias, l’impresa con cui Maldonado era in causa dal 2013 per licenziamento ingiustificato e debiti salariali insoluti. Appena lo scorso 19 gennaio la giornalista aveva vinto la causa, ottenendo un accordo di pagamento a proprio favore. «È doloroso quello che è successo a Tijuana. Naturalmente faremo un’indagine completa», ha assicurato López Obrador nella conferenza stampa di questo lunedì. Ha poi aggiunto che in questi anni il governo ha seguito il suo caso, specificando che non si è trattato di una questione di minacce o violenza ma di un problema di lavoro. IL PRESIDENTE ha poi assicurato che si realizzeranno gli accertamenti necessari per trovare i responsabili della morte della giornalista e determinare se esiste un legame con la denuncia che aveva presentato contro la società radiotelevisiva Primer Sistema de Noticias. La notizia della morte di Lourdes ha seminato sgomento e rabbia nel mondo del giornalismo messicano. L’idea di organizzare una protesta nazionale fisicamente visibile – e non ridotta alle effimere arene virtuali – è stata immediata. Nella notte di domenica sono nati gruppi Whatsapp per coordinare manifestazioni simultanee per esigere giustizia e denunciare le condizioni di precarietà e violenza che affliggono buona parte della stampa messicana. La protesta avrà luogo questo martedì e sarà accompagnata dalla proiezione delle foto dei giornalisti uccisi negli ultimi anni. Durante la conferenza stampa dello stesso giorno si cercherà inoltre di interrogare a più riprese il presidente affinché la strage di giornalisti diventi un tema di primaria importanza. Caterina MorbiatoCITTÀ DEL MESSICO 25.01.2022 Bolivia L’eredità di “Chato” Peredo, l’ultimo soldato del Che arriva negli Stati Uniti “Un rivoluzionario non è straniero da nessuna parte ed è un patriota ovunque.” Lo ha raccontato Osvaldo “Chato” Peredo, una delle grandi figure della storia boliviana. Un anno dopo la morte di questo leader idealista, il 12 gennaio 2021, ricordiamo l’eredità dell’ultimo soldato di Che Guevara con eventi alla Texas A & M University negli Stati Uniti. Viviamo in tempi molto difficili per la democrazia. Negli Stati Uniti, orde animate dall’ex presidente Donald Trump hanno attaccato il Campidoglio esattamente un anno fa. Il Partito Repubblicano è nelle mani di gruppi antidemocratici che sono strumenti quasi personali di Trump, un caudillo populista di destra. In Bolivia, dal 2019 ci sono stati tempi molto difficili per la democrazia, che solo ora con i progressi del presidente Luis Arce, si stabilizza a poco a poco. La democrazia è fragile, e a volte è sull’orlo del collasso perché la violenza è sempre una minaccia. Questa violenza può arrivare con colpi di stato o con mercenari, come è successo a giugno e novembre 2020. () In queste circostanze, dove la democrazia è sempre in pericolo, dobbiamo ricordare figure come Chato Peredo, che, come Marcelo Quiroga Santa Cruz, Domitila Chungara e Luis Espinal hanno dato tutto per la sovranità popolare dalla Bolivia. Hanno sacrificato le loro vite senza alcun interesse personale o ambizione di profitto. Più che mai, la Bolivia e il mondo hanno bisogno di ricordare questo tipo di eroi, molto diversi dai signori della guerra populisti di destra o di sinistra che si aggrappano al potere. Così, come quando scende la notte e il sole diventa un’altra stella, nella sua morte Peredo non scomparve, ma divenne un corpo permanente del firmamento. Ecco perché,da questo semestre, alla Texas A&M University, dove c’è un centro di reclutamento della Central Intelligence Agency, abbiamo deciso di diffondere le idee di Chato Peredo. Assegniamo il suo libro “Torniamo alle montagne”. Gli studenti, molti dei quali di origine latinoamericana, sono rimasti sorpresi dalla capacità di dedizione e sacrificio di Peredo, dei suoi fratelli e di altri compagni della guerriglia di Ñancahuazú e Teoponte. Molti altri studenti provengono da grandi città come Houston, Dallas e Austin, città di grande ricchezza, e per loro conoscere la realtà sociale boliviana e latinoamericana è stato come aprire gli occhi per la prima volta su qualcosa di molto lontano. Molti degli studenti hanno deciso di fare presentazioni audiovisive sull’eredità di Chato Peredo nel corso “Storia del pensiero politico latinoamericano”. I giovani americani devono conoscere l’America Latina e le sue idee, ma anche eroi come Peredo che sono stati una sintesi del politico e della morale. Chato Peredo non dovrebbe essere ricordato solo come “l’ultimo soldato del Che”. È vero che Peredo ammirava molto il guerillero argentino. Ma Peredo, con i suoi chiari ideali e la sua ferma condotta etica, presenta un modello alternativo di combattente per la democrazia popolare. Era un mentore senza ambizioni personali, che doveva diventare un leader per esigenze storiche. Ha preso decisioni illuminate in momenti chiave, come quando il partito MAS si stava dirigendo verso un percorso incerto. Tornò al partito quando tornò sulla strada giusta. È proprio in luoghi come il Campidoglio degli Stati Uniti o il Texas centrale, dove c’è un governatore cieco su questioni importanti come la gravità del covid-19 e sordo alla voce degli immigrati latini, dove abbiamo bisogno dell’esempio di Peredo, come un faro nelle nebbie dell’antidemocrazia. Diego von VacanoHouston (Usa) 23.01.2022 Diego von Vacano è professore di scienze politiche alla Texas A&M University USA Colombia Dopo 20 anni Betancourt torna in campo America latina. Ex ostaggio delle Farc, parteciperà alle primarie per le presidenziali della coalizione centrista La sua discesa in campo era nell’aria, ma non per questo ha fatto meno rumore: a 20 anni dalla sua prima candidatura alla presidenza della Colombia – bruscamente interrotta dal suo sequestro ad opera delle Farc nel 2002 -, Ingrid Betancourt ci riprova. «Oggi sono qui per finire quello che ho iniziato», ha spiegato la neocandidata alle presidenziali del 29 maggio in una conferenza stampa tenuta in un hotel della capitale, comunicando la decisione di prendere parte alle nutrite primarie della Coalición Centro Esperanza, insieme a ben altri sette precandidati. IN MANO AI GUERRIGLIERI per sei anni, in condizioni durissime, fino al luglio del 2008, la leader e fondatrice del Partido Verde Oxígeno, rientrata da Parigi nel paese appena un anno fa, ha fatto della sua drammatica vicenda personale una metafora dell’intera società colombiana: «Voglio parlare ai 51 milioni di colombiani sequestrati da decenni da un sistema di corruzione e violenza. La mia storia è la storia di tutti loro, perché, mentre io e i miei compagni di prigionia eravamo incatenati, le famiglie colombiane erano ostaggio della povertà, dell’insicurezza, della violenza e dell’ingiustizia». MA LA SUA FAMA internazionale come simbolo delle vittime del conflitto armato colombiano potrebbe non bastarle nella sua corsa verso la presidenza. Se anche riuscirà a superare lo scoglio delle primarie del 13 marzo, dovrà infatti affrontare un avversario assai temibile: il candidato del Pacto Histórico Gustavo Petro, in testa in tutti i sondaggi e ulteriormente favorito dall’assenza di avversari all’interno della sua coalizione. E proprio nei suoi confronti, dopo averlo lei stessa appoggiato al ballottaggio contro Duque nel 2018, Betancourt non risparmia oggi le critiche, definendolo il «candidato della sinistra radicalizzata», a cui oppone la sua visione lontana da ogni estremismo. La «visione di una donna» che, assicura, può aiutare il paese a uscire dalla cultura dell’odio e della corruzione», a diventare «il paradiso che ci hanno tolto». Un paradiso in cui ci sarebbe posto per tutti, anche per il guerrafondaio per eccellenza, Álvaro Uribe, a cui ammette di «dovere molto», essendo stata liberata proprio sotto il suo governo. MA, MENTRE SI DISCUTE del futuro della Colombia, il presente è ancora coperto di sangue: già sette i massacri registrati dal primo gennaio. Grande emozione ha suscitato in particolare la morte di una guardia indigena di appena 14 anni, Breiner David Cucuñame, caduto venerdì a Las Delicias, nel Cauca, durante un attacco a un gruppo di guardie indigene Nasa, insieme al dirigente Guillermo Chicana (con loro salgono a 314 i leader indigeni assassinati dal 2019). Secondo il Consejo Regional Indígena del Cauca, il ragazzo, descritto come «custode della Madre Terra e guardiano del territorio», sarebbe stato ucciso mentre, insieme a suo padre, lanciava l’allarme sulla presenza nei pressi della comunità di gruppi armati riconducibili al Comando Coordinador de Occidente, di cui fanno parte tre gruppi dissidenti delle Farc: «Sparavano a qualunque cosa si muovesse, senza curarsi della possibile presenza di bambini», ha denunciato una testimone. ED È PROPRIO questo comando guerrigliero a dare vita, nel dipartimento di Arauca, alla frontiera con il Venezuela, a duri scontri con l’Eln (Ejército de Liberación Nacional) durante i quali sono caduti, dall’inizio dell’anno, oltre 30 combattenti. Un conflitto che segue la rottura dell’accordo di convivenza sottoscritto dalle due guerriglie nel 2011 e dietro cui si nasconde la disputa per il controllo delle risorse del territorio. Ma se il governo di Duque ha annunciato l’invio nella regione di nuovi battaglioni dell’esercito, non sarà la militarizzazione a risolvere la situazione di violenza, la cui genesi va ricercata, secondo le organizzazioni per la difesa dei diritti umani, nell’abbandono da parte dello stato del settore rurale, nella povertà e nel mancato rispetto degli Ac

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