Cosa ci insegnano gli Arditi del Popolo oggi?

 

Cosa ci insegnano gli Arditi del Popolo oggi?


Alberto Pantaloni


Buonasera a tutte e tutti. Innanzitutto vorrei ringraziare Federico, Lorenzo e tutti gli amici e compagni della redazione di «Lotta Continua» per avermi invitato a questa presentazione. Permettetemi di dire che per motivi autobiografici sono particolarmente contento di essere oggi a Pisa. Dal 2004 al 2005 ho lavorato nel call center Vodafone che all’epoca si trovava ad Ospedaletto: tutti i giorni facevo la spola con Firenze, dove allora vivevo. Avevo un contratto a tempo determinato, ma, anzi soprattutto per questo, entrai in contatto con un delegato e una delegata RSU all’epoca di estremo valore. Impugnai il contratto con l’assistenza della FLMU-CUB e vinsi nei primi due gradi di giudizio, poi accettai la transizione economica perché nel frattempo ero ritornato a Torino.

Dopo questo breve amarcord, di cui spero mi perdonerete, passiamo al tema della serata. Questo volume, curato dalla redazione di «Lotta Continua», è quel che si dice una «autoproduzione», al di fuori del circuito accademico o della grande editoria. È un’autoproduzione importante, non solo perché tratta di un evento cruciale come quello delle Barricate di Parma (1 – 6 agosto 1922), ma perché, con un impianto storiografico e metodologico robusto, è in grado di affrontare la complessità del fenomeno arditista popolare dentro il contesto convulso dei due bienni: quello «rosso» del 1919-1920 e quello nero del 1921-1922. Nel compiere questa operazione, il libro guarda sia “all’indietro”, all’inizio della Prima guerra mondiale, l’inizio di quel trentennio che lo storico revisionista tedesco Ernst Nolte e il nostro Enzo Traverso hanno chiamato la «guerra civile europea» o da cui Hobsbawm fa iniziare il suo Secolo breve, sia “in avanti”, con una sezione dedicata all’assassinio di Mariano Lupo (detto Mario), giovane operaio e militante di Lotta Continua, avvenuto sempre a Parma, sempre in agosto, ma 50 anni dopo (1972).

Il volume è diviso in tre parti. La prima, che possiamo a sua volta dividere ulteriormente in due affronta rispettivamente il contesto istituzionale, politico e sociale in cui matura il fenomeno degli Arditi del Popolo, e la ricostruzione di quest’ultimo, con alcuni focus sulle origini romane e su alcune significative esperienze locali (Bari, Civitavecchia, Sarzana e Viterbo).

Il cuore del volume è rappresentato ovviamente dalle giornate parmensi dell’agosto 1922; accanto alla ricostruzione cronologica degli eventi, sono presenti degli approfondimenti che affrontano come la stampa liberale ha trattato gli scontri armata nella città emiliana, la specificità sociale ed urbanistica del quartiere dell’Oltretorrente, dove vennero erette le barricate dagli antifascisti, e le figure centrali di Antonio Cieri e soprattutto di Guido Picelli.

Una terza sezione, come già anticipato, è dedicata a Mario Lupo ed anche in questo caso, accanto alla dimensione narrativa dello scorrere degli eventi che portano all’omicidio ed alle giornate seguenti, vi sono degli articoli che ricostruiscono il “filo rosso” che nell’elaborazione e nei repertori d’azione di LC lega le Barricate di Parma all’antifascismo militante degli anni Settanta, finanche in forma iconografica e musicale.

È presente infine una bibliografia essenziale sugli Arditi del Popolo per coloro che avessero l’interesse ad approfondire il tema.

Non è possibile sviscerare tutti i temi e le suggestioni che emergono da questo libro, ma ci sono alcune questioni che, a mio avviso, vale la pena rimarcare. Parliamoci chiaro, non si tratta qui di avere una visione anacronistica dei fenomeni storici ed operare un’attualizzazione forzata di tesi e pratiche che appartengono a contesti e dinamiche di un secolo fa, ma capire se da questi emergono degli spunti di riflessione utili per l’oggi o che ci facciano comprendere meglio alcuni elementi tipici, culturali, se vogliamo “tradizionali” della storia della conflittualità sociale nel nostro Paese. 

Ne ho individuato principalmente tre.

Il primo attiene ai concetti di «guerra civile» e di «guerra di classe» che l’esperienza arditista popolare a mio avviso ci restituisce e ai quali, con la Resistenza del 1943-1945, si affiancherà quello di «guerra di liberazione». Il fascismo, tanto quello storico quanto quello del secondo dopoguerra, ha come elemento fondante e come mission la reazione violenta antioperaia ed antipopolare, con buona pace del «sinistrismo» delle origini e della tarda Repubblica Sociale Italiana. È questo l’elemento comune, pur nelle condizioni storiche molto diverse, fra il ventennio mussoliniano, la politica di Almirante e lo stragismo di Ordine Nuovo. Un elemento che ritroviamo peraltro in tutti i fascismi europei: ovviamente nel nazismo e nel franchismo, ma anche nella British Union of Fascists di Oswald Mosley nel Regno Unito, nata nel 1932 dopo che nel 1926 era stato sconfitto il movimento operaio e sindacale che aveva dato vita al più grande sciopero del Novecento e forse della storia contemporanea. 

Inoltre, come nei due bienni una consistente parte della classe politica liberale, le gerarchie ecclesiastiche e quasi tutta la Confindustria, con varie sfumature, decisero di appoggiare e finanziare i fascisti contro il movimento operaio e contadino, così 50 anni dopo, la storia si ripeté, con la sola differenza che al posto dell’establishment liberale del primo Novecento si era sostituita la destra democristiana: dal governo Tambroni al Piano Solo e infine con la «strategia della tensione» di fine anni Sessanta e lo stragismo della prima metà dei Settanta. 

Il non aver fatto i conti col fascismo e con la sua eredità (si pensi ad esempio all’amnistia Togliatti, ai processi contro i fascisti sottratti dal controllo del CLN e fatti finire su un binario morto, ma anche all’espulsione dei partigiani dalle forze di polizia della neonata Repubblica), non solo ha fatto sì che lo Stato mantenesse sostanzialmente il suo impianto fascista (in buona parte della legislazione, nel corpo prefettizio e in quello questorile, ecc.), ma che lo scontro fra fascismo ed antifascismo rimanesse un aspetto centrale nel conflitto sociale e politico del Paese, almeno fino ai primi anni Novanta, nella mia opinione. Anche in questo caso lo sdoganamento del fascismo in funzione antiproletaria e controrivoluzionaria (cioè di reazione alla rivoluzione sociale) fu fenomeno internazionale. 

Due esempi su tutti vanno fatti: la posizione di Churchill su Mussolini prima della Seconda guerra mondiale e il suo tentativo di salvare il duce nell’aprile del 1945; il reclutamento e la cooptazione di numerosi fascisti e nazisti da parte degli Stati Uniti in funzione anticomunista, nonostante in diversi sondaggi compiuti negli anni Trenta, l’opinione pubblica americana avesse espresso chiaramente la propria preferenza per un’alleanza con l’URSS piuttosto che con la Germania hitleriana. Da un punto di vista storiografico, dobbiamo a Claudio Pavone e al suo celebre libro Una guerra civile (1991) il merito di aver aperto a un nuovo filone di studi, che messo in discussione la narrazione allora dominante, di scuola storiografica PCI, per cui la Resistenza era sostanzialmente stata solo una guerra di liberazione nazionale contro l’occupazione tedesca. Di questo nuovo filone, in cui va ricordato tutta la ricca produzione di studi di genere sul tema, fanno parte anche i lavori sugli Arditi del Popolo, fino ad allora condannati a una specie di damnatio memoriae.

Il secondo spunto concerne quello che ho chiamato nel libro la «frantumazione politica» della sinistra italiana. L’esperienza degli Arditi del Popolo fu l’unica che negli anni Venti andò in aperta controtendenza, raggruppando antifascisti di provenienza anarchica, comunista, socialista e repubblicana. Non si tratta – e non si trattava allora, almeno se leggiamo le parole di Guido Picelli – di ingenuo ecumenismo, ma di avere la consapevolezza che in un contesto di estrema difficoltà si debba «bloccare in unità» (per dirla alla Gramsci) su alcuni punti fondamentali di difesa popolare, politica e, nel caso degli Arditi del Popolo, armata. 

L’opportunismo della destra socialista e del gruppo dirigente della CGL, il disorientamento e l’indecisione del PSI nenniano e serratiano, ma anche il settarismo del PCd’I bordighiano furono forse determinanti nel precipitare degli eventi. 

Devo purtroppo dire che questo è un fenomeno tipicamente italiano: basti guardare nuovamente al secondo dopoguerra e alla frantumazione della sinistra rivoluzionaria ed extraparlamentare. La stessa politica dei Fronti popolari, d’altronde, che conformò tutto il fronte resistenziale e antifascista europeo negli anni Quaranta, seguì la rovinosa politica del socialfascismo e del «terrore di Stato» stalinista, come lo ha chiamato Hobsbawm riferendosi alla politica sovietica nel conflitto civile spagnolo. Un rigido settarismo che in Germania, ad esempio, provocò lo sfaldamento della KPD, poi distrutta dalla repressione nazista.

Il terzo spunto è quello del rapporto fra ciò che possiamo chiamare «determinismo» e «volontarismo» nella strategia politica della sinistra. Oppure, usando le parole di Habermas durante un convegno organizzato dalla SDS tedesca a Berlino nel 1967, fra «passività» e «soggettivismo».

 Questo è un tema veramente spinoso, ma ineludibile. Quella degli Arditi del Popolo è una scelta fortemente soggettiva («unirsi, armarsi, organizzarsi», scrivono sul loro giornale a Parma), che arriva sicuramente fuori tempo massimo (d’altronde lo sciopero generale del 31 luglio 1922 è un fallimento totale), ma non per colpa degli Arditi. La questione si riproporrà sia durante la Resistenza, dove il PCI avrà un atteggiamento molto diverso, sia ancor più nel biennio 1968-1969 e negli anni Settanta. Non si tratta qui di contrapporre l’utopia soggettiva al realismo politico, ma di far dialogare il «pessimismo della ragione» con l’«ottimismo della volontà» (sempre citando Gramsci).

 L’attuazione di un «programma massimo» dipende in larga misura dall’esistenza di determinate condizioni: 

1) il peggioramento delle condizioni materiali dei lavoratori e delle lavoratrici e dei segmenti sociali popolari, e l’aumento del loro attivismo politico; 

2) una contraddizione lacerante fra settori della classe dominante; 

3) la presenza di una forza politica rivoluzionaria in grado di dirigere e organizzare il movimento. 

In assenza di queste condizioni, nessuna rivoluzione è possibile (e forse questo, brutalmente è il bilancio degli anni Settanta in Italia), ma solo avendo presente il «programma massimo» e gli interessi che con esso si vogliono affermare si può concretamente perseguire un «programma minimo», avendo l’abilità di cogliere e interpretare al meglio il fermento sociale.


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