No al nucleare. Le centrali sono pericolose e come le armi atomiche minacciano la democrazia, l’umanità e il futuro del pianeta
No al nucleare. Le centrali sono pericolose e come le armi atomiche minacciano la democrazia, l’umanità e il futuro del pianeta
di Laura Tussi
L’8 dicembre prossimo, a Pordenone, un ampio fronte di associazioni, attivisti, giuristi, scienziati e cittadini si riunirà per un convegno dal titolo eloquente: “Aviano e le bombe, iniziative giuridiche e impegno sociale. Dal genocidio in Palestina all’olocausto nucleare”. Un incontro che nasce da un gesto di responsabilità civile: la presentazione, lo scorso 23 ottobre, di due denunce presso le Procure della Repubblica di Brescia e Pordenone per accertare la presenza di ordigni nucleari nelle basi militari italiane di Ghedi e Aviano, e per verificare eventuali responsabilità penali legate all’importazione e detenzione di tali armi in violazione della normativa nazionale e internazionale, dalla legge 185/1990 al Trattato di non proliferazione nucleare (TNP), ratificato dall’Italia nel 1975.
La mancata adesione al Trattato di proibizione delle armi nucleari
L’Italia continua a non aderire al Trattato di proibizione delle armi nucleari, entrato in vigore nel 2021 e promosso a livello internazionale da ICAN, la campagna per l’abolizione degli ordigni atomici insignita del Premio Nobel per la Pace nel 2017. Questa scelta permane nonostante nel Paese esista da anni una forte domanda sociale di disarmo, espressa da movimenti pacifisti, organizzazioni cattoliche e laiche, sindacati e numerose amministrazioni locali. La posizione ufficiale del governo italiano resta ancorata alla logica della deterrenza nucleare nell’ambito NATO, sostenendo che il trattato sarebbe incompatibile con gli impegni assunti in sede atlantica. In realtà si tratta di un argomento più politico che giuridico: la decisione di aderire o meno è frutto della volontà dei governi e non di vincoli inderogabili. Il fatto che l’Italia ospiti bombe atomiche statunitensi nelle basi di Aviano e Ghedi, e che continui a essere coinvolta nel programma di nuclear sharing, pesa sulla possibilità di un ripensamento, accentuando la contraddizione tra i proclami sulla pace e la realtà di un territorio che ospita ordigni progettati per la distruzione di massa.
Praticamente impossibile distinguere tra nucleare civile e nucleare militare
Un tema che diventa ancora più complesso se lo si collega al dibattito sul ritorno del nucleare civile nel nostro Paese. La distinzione tra uso civile e uso militare dell’energia nucleare, spesso presentata come netta e rassicurante, nella storia si è rivelata estremamente fragile. Tutte le potenze atomiche sono arrivate a costruire le loro armi grazie a infrastrutture originariamente sviluppate in campo energetico: la filiera resta la stessa, dall’arricchimento dell’uranio alla gestione del combustibile, dalla formazione del personale alla produzione di materiali fissili come il plutonio, che è un sottoprodotto di molti reattori. Anche quando un Paese dichiara di voler costruire solo centrali per uso civile, sviluppa competenze, tecnologie e materiali che possono aprire la strada, intenzionalmente o meno, a un programma militare.
Per queste ragioni molti esperti e attivisti sottolineano che il rilancio del nucleare civile non può essere considerato un settore totalmente separato dal rischio proliferativo. In un mondo in cui i trattati di controllo degli armamenti si stanno indebolendo, la corsa al riarmo è tornata al centro delle relazioni internazionali e la fiducia tra gli Stati è sempre più fragile, aumentare il numero di impianti e infrastrutture nucleari significa accrescere anche le potenzialità militari, dirette o indirette.
Lavorare per superare il nucleare in tutte le sue forme
L’alternativa esiste ed è percorribile. L’Italia potrebbe scegliere di aderire al Trattato di proibizione delle armi nucleari, prendere le distanze dal regime di nuclear sharing e investire con decisione nelle energie rinnovabili, che non presentano rischi di proliferazione e non dipendono da filiere dual use. Potrebbe inoltre rafforzare il suo impegno nei processi multilaterali di disarmo, contribuendo a una sicurezza basata sulla cooperazione e non sulla minaccia di annientamento reciproco.
Di fronte a un’arma capace di distruggere città intere e compromettere il futuro dell’umanità, la vera prospettiva di sicurezza non consiste nell’accettarne l’esistenza, ma nel lavorare per superare il nucleare in tutte le sue forme, sia militari sia civili. Solo così è possibile costruire un ordine internazionale che faccia della pace un valore concreto e non solo un richiamo retorico.
La
presenza delle nuove bombe termonucleari B61-12 nelle due basi italiane
non è un’ipotesi astratta: è stata autorevolmente confermata da Hans
Kristensen, direttore del Nuclear Information Project della Federation of American Scientists, intervistato da Stefania Maurizi e pubblicato su Il Fatto Quotidiano l’8 marzo 2025 con il titolo: “Piano Riarmo, gli Usa hanno già inviato all’Italia le nuove atomiche”.
Un’ulteriore
conferma di ciò che i movimenti per la pace denunciano da anni:
l’Italia ospita armi nucleari statunitensi in violazione del TNP e in
assenza di trasparenza democratica.
L’ombra lunga del nucleare: un passato che ritorna
La
data dell’8 dicembre non è casuale. In quel giorno del 1987, Michail
Gorbačëv e Ronald Reagan firmarono a Washington il Trattato INF
(Intermediate-Range Nuclear Forces Treaty), che mise al bando gli
Euromissili e segnò uno dei momenti più avanzati del disarmo nucleare.
Oggi,
nel 37º anniversario, assistiamo all’inquietante inversione di rotta:
gli stessi Euromissili rischiano di essere nuovamente collocati sul
suolo europeo, stavolta in versioni più avanzate e distruttive. La nuova
corsa agli armamenti, alimentata dalle tensioni tra Stati Uniti/NATO e
Russia, riporta l’Europa sull’orlo di un nuovo equilibrio del terrore.
Non è un caso che il convegno di Pordenone intenda portare all’attenzione pubblica non solo i profili giuridici, ma anche quelli sociali, storici, ambientali e geopolitici. La presenza di armi nucleari nelle basi italiane lega il nostro Paese a scelte strategiche che non rispondono agli interessi delle popolazioni, ma a logiche tecnocratiche, militari e industriali. Come scriveva già nel 1977 il sociologo e saggista Robert Jungk, il nucleare – civile e militare – rappresenta “il futuro totalitario dei tecnocrati”, un sistema che concentra il potere in mani ristrette e sottrae ai cittadini la possibilità di decidere sul proprio destino.
Il ruolo del diritto e della società civile: un fronte che cresce
Le
denunce depositate in Procura chiedono ai giudici di accertare se la
presenza delle B61-12 costituisca violazione di norme precise: non
un’opinione politica, ma un problema di legalità.
Il
diritto internazionale e nazionale – dal TNP alla legge 185/1990 –
impongono limiti chiari alla movimentazione e alla detenzione di armi
nucleari: limiti che non possono essere aggirati in nome della
“discrezionalità politica”. Per questo le associazioni promotrici
difendono con forza l’indipendenza della magistratura, che rappresenta
un presidio essenziale contro ogni abuso.
Accanto all’azione legale, però, cresce un movimento sociale sempre più consapevole. Un movimento che collega le guerre contemporanee – dall’Ucraina alla Palestina – al sistema globale di riarmo, alla proliferazione di testate nucleari, alle nuove strategie della deterrenza. L’olocausto nucleare non è un rischio astratto: è la conseguenza logica dell’accumulo di potenza distruttiva nelle mani di Stati in conflitto.
Ed
è proprio in questo quadro che si inserisce l’impegno dell’ICAN, la
Campagna internazionale per l’abolizione delle armi nucleari, Premio
Nobel per la pace nel 2017. ICAN ha mobilitato governi, scienziati,
società civile e organizzazioni religiose per spingere verso l’adozione
del Trattato sulla proibizione delle armi nucleari (TPNW), entrato in vigore nel 2021.
Un trattato che mette fuori legge le armi atomiche così come il mondo ha già messo fuori legge le armi chimiche e biologiche.
L’Italia, tuttavia, non lo ha firmato. Non lo ha ratificato. E continua a ospitare sul proprio territorio armi nucleari di uno Stato straniero, violando la volontà della stragrande maggioranza dei suoi cittadini, che in tutti i sondaggi si dichiarano favorevoli al disarmo totale.
Oltre la deterrenza: il futuro che vogliamo costruire
La scelta della deterrenza nucleare viene presentata come inevitabile, tecnica, neutra. Ma nulla è più politico delle armi atomiche: decidere di possederle, ospitarle o modernizzarle significa decidere del futuro dell’umanità. Significa mettere a rischio la sopravvivenza della specie e del pianeta.
Le
nuove B61-12, a guida di precisione, abbassano la soglia di utilizzo
reale delle armi nucleari: non più bombe “dell’ultimo giorno”, ma
strumenti integrati nelle strategie militari convenzionali.
È questa la vera minaccia: la normalizzazione del nucleare. La trasformazione dell’impossibile in possibile.
Per
questo il convegno dell’8 dicembre sarà un appuntamento importante, un
luogo di confronto transnazionale tra tecnici, attivisti, Premi Nobel
per la pace, giuristi e scienziati che contribuiscono da anni a
costruire percorsi per prevenire ciò che alcuni chiamano “aree di
sacrificio nucleare”.
Non si tratta
solo di denunciare: si tratta di disegnare un’alternativa fondata sul
consenso democratico, sulla trasparenza, sulla legalità internazionale,
sul diritto dei popoli alla pace.
Disarmare il nucleare significa disarmare la paura.
Significa restituire ai cittadini il loro diritto a un futuro vivibile.
Significa ricordare che il pianeta che abitiamo non ci appartiene: lo condividiamo con tutte le generazioni che verranno.
Oggi,
davanti alle nuove bombe che arrivano a Ghedi e Aviano, davanti ai
conflitti che devastano popoli e territori, davanti all’espansione
incontrollata della spesa militare globale, la nostra responsabilità è
una sola: dire no.
Un no fermo, consapevole, collettivo.
Un no che apre la strada a un sì: il sì alla vita, alla pace, alla cooperazione, al disarmo integrale, alla giustizia.
Il sì che ha reso ICAN Premio Nobel per la pace. Il sì che può ancora salvare il futuro.
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