Corrispondenze nicaraguensi
Nicaragua, i giorni pericolosi della paura
Reportage. Oltre
300 mila persone hanno partecipato alla Marcia delle Madri, sfilando
con chi ha perso un figlio per mano della brutale repressione scatenata
contro le proteste che infiammano il paese dallo scorso 18 aprile (un
centinaio le vittime). Il presidente Ortega non si arrende, ma potrebbe
essere alle ultime cartucce
Gli ultimi giorni. Il Presidente trema. Daniel Ortega ha paura. E la paura è pericolosa.
Il
30 maggio in Nicaragua si celebra la Giornata delle Madri, una
ricorrenza tanto importante che prevede persino il giorno libero dal
lavoro. L’Alleanza civica che guida la rivolta (formata da società
civile, impresa privata e studenti) ha organizzato una grande marcia per
celebrare le madri d’aprile, quelle che hanno perso i figli nelle
proteste, quelle che hanno dovuto riconoscere i corpi torturati dei
ragazzi, quelle che li stanno ancora cercando. Intanto Rosario Murillo
(moglie di Ortega e vicepresidente), autoproclamandosi madre di tutti i
nicaraguensi, invita a una celebrazione in piazza.
Nei
giorni precedenti vari fuoristrada bianchi, senza targa e con gente
incappucciata a bordo, girano per la città e sparano su piccoli gruppi
di contestatori. Non aspettano la notte per colpire i luoghi sensibili.
Non si sa chi siano ma vanno a rifugiarsi al Carmen, il quartiere dove
risiede la coppia presidenziale. Proseguono attacchi violenti e
repressioni nelle università e il giorno dei due cortei i numeri parlano
da soli: sono in 38.000 a celebrare il governo, mentre 320.000 persone
partecipano alla mobilitazione più grande mai vista in Centroamerica.
Un
paio d’ore dopo l’inizio della Marcia delle Madri d’aprile, la polizia e
le forze paramilitari attaccano la folla. Tra gli scontri a Managua e
in altre città il bilancio è di 16 morti e più di 200 feriti. È una
nuova strage. I rappresentanti del Movimento contadino arrivati a
Managua nella mattinata si rifugiano nella Cattedrale; oltre 5.000
persone vengono protette dentro i cancelli dell’ Università
Centroamericana (Uca). Nella notte scontri in varie zone del paese,
altri feriti, saccheggi. Secondo il governo è la destra vandalica
responsabile di tutto ma la macchina della menzogna non funziona più.
IL DIALOGO FALLITO
Il
Tavolo del dialogo che avrebbe dovuto portare ad un accordo tra governo
e Alleanza civica è fallito: nessuna mediazione possibile tra le parti
in causa dopo quattro giorni di discussioni. Gli studenti lo avevano
detto che era assurdo dialogare con un assassino e avevano ragione: era
stata stabilita un’agenda i cui punti principali erano la giustizia per i
fatti d’aprile, la democratizzazione del Paese, riforma del sistema
elettorale ed elezioni anticipate.
Il
16 maggio alla prima sessione dei lavori Ortega e Murillo sono
presenti: incassano duri colpi e non sanno rispondere. Nei giorni
successivi però la discussione si arena attorno all’unico aspetto che
preoccupa il governo, ossia le barricate alzate dal Movimento contadino
in punti strategici del paese (difficile per le imprese legate ad Ortega
smerciare illegalmente legname prezioso sottratto dalle riserve
tropicali con le strade bloccate). Nessun esponente del governo parla
dei morti, di giustizia, men che meno della possibilità di dimissioni
del Presidente. Continuano a mistificare la realtà con giochi di parole
semplici e grande povertà retorica.
Dopo
l’immensa marcia del 30 maggio e il violento massacro, la Commissione
di mediazione guidata dalla Conferenza Episcopale dichiara che non ci
sarà più dialogo fino a quando il governo non cesserà il fuoco.
L’Alleanza civica per la democrazia e giustizia guidata dagli studenti
fa le stesse richieste e invita la popolazione a continuare la
resistenza pacifica.
Ci
prova ancora il governo a ribaltare le carte dopo 45 giorni di protesta
ma oramai non gli crede più nessuno. O forse sì: i corrotti, gli
assoldati, e qualche dinosauro della sinistra internazionale che riesce
ancora a vedere socialismo in un governo che non può definirsi altro che
dittatura istituzionalizzata.
LA GRANDE BUGIA
Dal
18 aprile, inizio dell’ondata di proteste, qualcosa è cambiato: il viso
insanguinato del primo studente ferito nella facoltà di Agraria ha
svegliato cicatrici dolenti e ferite non sanate. Gli studenti non si
toccano e Ortega ha fatto il passo sbagliato. Il Fronte sandinista
guidato monoliticamente dal Comandante e da Rosario Murillo ha creato
una dittatura silenziosa. Un governo con impostazione autoritaria non
poteva dare risposte differenti alla crisi di aprile: e all’aumento
delle proteste corrisponde un proporzionale aumento della violenza,
espressione di un potere patologico che era già installato nella
società. È il meccanismo di prevenzione e difesa tipico dei regimi che
ha fatto emergere il carattere oppressivo della relazione tra dittatore e
dittatoriati (secondo la definizione di Mejri e Hagi rispetto alla
Rivoluzione dei Gelsomini).
Il
Nicaragua, dalla colonizzazione in poi, ha assunto modelli di governo
autoritari e autorevoli basati sulla costruzione di grandi paradigmi e
relazioni affettive di dipendenza: religione e famiglia. Alla figura di
Dio e del padre/madre non ci si può opporre e Ortega l’aveva capito
benissimo: prima il patto con la Chiesa sancito sul corpo delle donne
(in Nicaragua l’aborto terapeutico è diventato illegale per una sua
legge) e poi l’autocelebrazione, sua e della moglie, come genitori di
una nazione intera.
Ma
non si aspettavano figlie e figli ribelli, né una Chiesa che
improvvisamente si ricorda la propria missione. Questa volta il governo e
i suoi consiglieri hanno fatto gravi errori di valutazione: non avevano
captato la stanchezza della gente, non avevano valutato le avanguardie
provenienti dal Movimento contadino e dalle femministe, non avevano
pensato all’immediatezza della diffusione in rete della barbarie
perpetrata a partire da quel 19 aprile. Non avevano pensato che anche i
soci più fedeli possono cambiare idea.
L’immagine
internazionale del Nicaragua era quella di un paese stabile, sicuro, in
forte crescita, ma di fatto la società stava vivendo una dittatura
blanda, obbligata ad accettare passivamente di vivere in uno ristretto
spazio residuale senza diritto d’opinione. La società nicaraguense si è
ribellata a una tradizione di potere storicizzata e non solo
contingente. Ortega, già dal suo primo mandato, è stato abile a usare le
parole, mantenendo intatta la forma e cambiandone il contenuto: gli
slogan che proclamano amore e riconciliazione, la patria cristiana,
socialista e solidale hanno fatto leva sulla necessità di pace,
l’esigenza di stabilità economica e la forza dei simboli. Ma stanno
cadendo tutti, uno dopo l’altro.
Studenti
e manifestanti iniziano ad usare contro il governo le loro stesse
parole, le loro canzoni: non si posizionano politicamente ma rivendicano
i simboli del sandinismo, le idee di Carlos Fonseca (fondatore del
Fronte Sandinista), gli ideali rivoluzionari e parlano di tradimento da
parte di Ortega. In Nicaragua non c’è una mancanza di leader capaci di
sostituire il Comandante: è il paradigma della leadership ad essere
stato distrutto da questo governo e gli universitari l’hanno capito.
Non
si può ancora dire se sarà una nuova colour revolution, se le teorie di
resistenza pacifica di Gene Sharp guideranno anche questa ribellione,
ma resta chiaro per tutti che i giovani della rivolta etica sono i
protagonisti e le guide morali del processo nicaraguense.
QUALE FUTURO?
Al
momento è difficile valutare le prospettive: la gente non vuole una
nuova guerra ma Ortega e il suo seguito devono andare via. La coppia
presidenziale è colpevole della più grande repressione che abbia vissuto
il paese in tempi di pace, compresa quella del tiranno Somoza che il
Fronte aveva abbattuto: oltre 100 i morti fino a oggi, intorno al
migliaio i feriti e i detenuti, ancora molti i desaparecidos. Non sono
serviti gli interventi della Commissione Interamericana dei diritti
umani, né la dura denuncia di Amnesty, né le richieste dell’Onu a
fermare la violenza.
Sono
in molti a sostenere che Ortega stia sparando le sue ultime cartucce
prima della resa. Restano le incertezze sulla capacità della popolazione
di resistere a una situazione che ogni giorno si fa più complessa e
tesa: l’ipotesi di uno sciopero nazionale divide il movimento e il
fantasma dei logoranti anni ’80, la guerra, la fame, i lutti, è ancora
presente.
Gli universitari hanno fatto scoppiare la rivolta, ora devono dimostrare di saperla gestire.
MANAGUA
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