La «tassa piatta» e il boom delle rendite

La «tassa piatta» e il boom delle rendite

La rubrica di Matteo Bortolon. 
Esistono delle ragioni strutturali per opporsi alle varie forme di detassazione degli alti redditi o patrimoni

La Flat Tax («tassa piatta») è entrata nel programma elettorale delle destre e, infine, anche nel contratto di governo della coalizione alla guida del paese. Sia pur nella incertezza dei dettagli, pare assodato che debba tradursi in una massiccia operazione di defiscalizzazione delle classi più agiate.
L’opposizione a tale eventualità si svolge per lo più sulle direttrici di una posizione di etica pubblica («non è giusto che i ricchi paghino quanto un poveraccio») o in termini di conflitto basilare di classe (come se i soldi che i ricchi non versano allo Stato costituissero una forma di vittoria politica come l’accaparramento del plusvalore).
Esistono tuttavia delle ragioni più strutturali per opporsi alle varie forme di detassazione degli alti redditi o patrimoni. Un argomento classico di sapore squitamente keynesiano è che i ceti meno abbienti consumano di più: un operaio, un insegnante e simili spenderà per le necessità materiali una quota del proprio reddito sempre maggiore rispetto a chi può contare su guadagni di molto superiori. Per cui la domanda viene strozzata e l’economia non si riattiva. In questa luce la lotta contro la diseguaglianza sociale si ammanta oltre che di nobiltà morale di un utilitarismo sostanziale: un mondo più giusto è pure più prospero.
L’ultimo report Oecd, «The role and Design of net wealth taxes in the Oecd», assume questo punto di vista. Dopo anni trascorsi a raccomandare meno tasse e meno spesa pubblica, pare che l’organizzazione abbia cambiato idea, e mentre indica le diseguaglianze come nocive per la crescita di lungo periodo, al contrario, spinge per una tassazione della ricchezza patrimoniale, con l’uso del sistema fiscale per operare una redistribuzione della ricchezza.
Diversi studi, fra cui uno del 2001 di Froud et al., «Accumulation under conditions of inequality», vanno oltre, disegnando una prospettiva di sistema. I gruppi più agiati cosa fanno delle risorse che non consumano? Semplice, le investono in titoli finanziari: Banca d’Italia segnala infatti che il 10% più ricco possiede il 52,5% dei titoli finanziari, il secondo decile (la seconda fila dei ricchi) possiede un altro 16,3%. Il passaggio successivo ci porta alla definizione di capitalismo finanziario odierno.
Lo studio infatti rileva come le aziende (Usa e Uk) acquisiscano risorse dal mercato dei capitali vendendo propri titoli, e poi acquistano attività finanziarie in operazioni di acquisizioni, fusioni e simili, nel mercato finanziario che diventa il perno di tutto. La divaricazione salari-produttività lo permette: da un lato i salari stagnanti sono «sostituiti» dall’indebitamento privato, dall’altro i maggiori profitti consentono alle imprese di aver meno bisogno di risorse esterne per investimenti produttivi (nuovi macchinari, e simili). Il risparmio dei ricchi diventa quindi il carburante di una valorizzazione esclusivamente finanziaria. La differenza viene dai nuovi che mettono i soldi, da cui discende la necessitata riduzione del ruolo dello Stato come intermediario del risparmio privatizzando le pensioni e le banche – e così facendo riescono a rastrellare pure le risorse di chi non è fra i più ricchi.
Come tutti i meccanismi simili, chiaramente c’è un limite temporale, e bisogna vedere chi rimane col cerino in mano. L’esito della crisi del 2007-08, con i giganteschi salvataggi a danno dei contribuenti e la ulteriore concentrazione della ricchezza, ha già dato la risposta.

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