Disincanto....
IL SEGNALE DEL DISINCANTO di Franco Astengo
L’Italia
sembra stretta nella morsa tra “antipolitica” e “populismo”, micidiale
miscela che ha composto il propellente destinato alla formazione del
governo in carica.
Ne
è sortito un clima pesante, quasi di odio individualistico, di rifiuto
degli altri e non solo dei “diversi”, quasi una fotografia di una
società esausta e sfrangiata pronta ad abbandonarsi nell’idea della
forza, magari esercitata in forme di vera e propria limitazione della
democrazia.
Si
è giunti a questo punto per via di varie e complesse ragioni che sono
difficili da schematizzare in questa sede, a partire dalla conclusione
del ciclo politico imperniato sul ruolo dei grandi partiti di massa
avvenuta alla fine del XX secolo (caduta del muro di Berlino, trattato
di Maastricht, “Tangentopoli”) e affrontata soltanto sul versante
dell’autonomia del politico, modificando il sistema elettorale per
forzare la formazione di un assetto bipolare, rivelatosi alla fine del
tutto fallimentare.
Fondamentale
importanza hanno avuto, naturalmente, i mutamenti epocali a livello
d’innovazione tecnologica, globalizzazione economica, mutamento
complessivo nel sistema delle comunicazioni con l’avvio del fenomeno
strutturale della crisi dello “Stato – Nazione” e relativa cessione di
sovranità, l’affermarsi di un concetto esasperato di personalizzazione
della politica, l’affermarsi dell’idea di superamento delle ideologie in
un quadro generale di accettazione del principio di “fine della
storia”, di esportazione della democrazia “in armi”, di affermazione
della “governabilità” quale fine ultimo ed esaustivo dell’agire
politico.
Tutto
ciò ha provocato, a livello sociale, il dimostrarsi egemonico
dell’individualismo competitivo, dell’allentarsi dei legami di
solidarietà sociale e di non riconoscibilità delle ragioni della classe,
del mutarsi dei ceti sociali in massa indistinta attraversata dal
consumismo fino al manifestarsi di una vera e propria “folla” non più
distinguibile nei comportamenti e della cultura nei diversi ceti
sociali.
Un appiattimento culturale verificatosi mentre crescevano esponenzialmente le disuguaglianze economiche.
In
questo quadro, per tornare all’interno del “caso italiano” abbiamo
avuto il progressivo deteriorarsi del sistema dei partiti che via, via
hanno mutato la loro complessiva connotazione in partito “pigliatutti”,
partito “azienda” fino al partito “personale”.
Nel
frattempo cresceva il disimpegno ben identificabile nel progressivo
calo della partecipazione elettorale, ormai scesa a superare di poco il
70% degli aventi diritto nell’occasione delle elezioni legislative
generali (tra il 1948 e il 1979 la partecipazione al voto, in Italia, si
era mantenuta costantemente al di sopra del 90%, mantenendosi
successivamente comunque oltre l’80%) calando ancora attorno al 50% se
non al di sotto nelle altre occasioni sia di tipo amministrativo, sia
europeo, sia referendario.
Un
fenomeno, quello della disaffezione al voto, colpevolmente
sottovalutato nel corso del tempo anche da autorevoli politologi pronti
ad analizzare il fenomeno come “semplice riallineamento al trend delle
democrazie occidentali più mature”.
In questa occasione però la nostra attenzione è rivolta al ricordo di un dato particolare.
Ricorrono,
infatti, in questi giorni i quarant’anni dallo svolgimento di due
referendum: il primo riguardante l’abrogazione delle cosiddette “Leggi
Reale” sull’ordine pubblico, il secondo relativo alla richiesta di
abrogazione del referendum sul finanziamento pubblico dei partiti.
Le
consultazioni referendarie si svolsero l’11 – 12 giugno 1978, proprio
all’indomani della tragedia dell’uccisione di Aldo Moro e alla vigilia
dell’elezione di Sandro Pertini alla presidenza della Repubblica: era in
carica un governo Andreotti, monocolore democristiano, sostenuto dalla
cosiddetta maggioranza di “solidarietà nazionale” comprendente oltre
alla DC, anche PCI, PSI, PRI, PSDI e PLI. All’opposizione a destra il
MSI, sull’altro versante il gruppo di Democrazia Proletaria
(comprendente i gruppi a sinistra del PCI: PdUP, AO, MLS, Lotta Continua
in quel momento in fase di ristrutturazione interna) e il Partito
Radicale (presente a quel punto con 4 deputati) e promotore
dell’iniziativa referendaria.
In
questa sede ci occuperemo soltanto del referendum riguardante la
richiesta d’abrogazione del finanziamento pubblico dei partiti.
L’esito
di quella consultazione, infatti, rappresentò il primo forte segnale di
disincanto collettivo: era l’avvio di una vera e propria svolta nel
rapporto tra elettrici ed elettori e il sistema dei partiti (fino a quel
momento assolutamente egemonico).
Un segnale non raccolto di una situazione che si sarebbe dimostrata irreversibile.
Andiamo, allora, per ordine:
Il finanziamento pubblico ai partiti è introdotto dalla legge del 2 maggio 1974 n. 195 (cosiddetta legge Piccoli)proposta da Flaminio Piccoli (DC).
La norma viene approvata in soli 16 giorni con il consenso di tutti i partiti, ad eccezione del PLI. (Radicali e Democrazia Proletaria non erano ancora presenti in Parlamento).
La
legge imponeva l'obbligo di presentazione di un "bilancio" da
pubblicare su un quotidiano e da comunicare al Presidente della Camera,
che esercitava un controllo formale assistito da un ufficio di revisori,
cioè il "Collegio di revisori ufficiali dei conti".Infatti, essa da un lato introdusse il finanziamento per i gruppi parlamentari "per l'esercizio delle loro funzioni" e per "l'attività propedeutica dei relativi partiti",
obbligando il gruppo stesso a versare il 95% ai partiti, mentre
dall'altro introdusse un finanziamento per l'attività "elettorale" dei
partiti.
La legge disciplinava anche il finanziamento privato. La nuova normativa nasceva a seguito degli scandali Trabucchi
del 1965 e Petroli del 1973: il Parlamento intendeva rassicurare
l'opinione pubblica che, attraverso il sostentamento diretto dello
Stato, i partiti non avrebbero avuto bisogno di collusione e corruzione
da parte dei grandi potentati economici. A bilanciare tale previsione,
si introdusse il divieto - per i partiti - di percepire finanziamenti da
strutture pubbliche ed un obbligo (penalmente sanzionato) di pubblicità
e d’iscrizione a bilancio dei finanziamenti provenienti da privati, se
superiori ad un certo ammontare.
I buoni propositi risultarono tuttavia smentiti dagli scandali affiorati successivamente (tra cui i casi Lockheed e Sindona). Nel settembre 1974 il PLI propose un referendum abrogativo sulla norma, ma non riuscì a raccogliere le firme necessarie.
Successivamente
i radicali riuscirono, invece, nell’operazione e ottenuto il via libera
dalla Corte di Cassazione si arrivò al referendum, fissato come si è
già ricordato per l’11- 12 giugno 1978.
A quel punto si ebbe un risultato “anomalo” rispetto al quadro di partenza .
Nonostante l'invito a votare "no" da parte dei partiti che rappresentano il 97% dell'elettorato, il "si" raggiunge il 43,6%.
Attenzione
va posta, in questo senso,nel ricordare le proposte di legge che in
materia sia i radicali, sia l’estrema sinistra, avevano presentato per
affrontare il problema della sopravvivenza materiale dei partiti.
Lo
Stato, infatti, avrebbe dovuto favorire tutti i cittadini attraverso i
servizi, le sedi, le tipografie, la carta a basso costo e quanto
necessario per fare politica, non per garantire le strutture.
La
stragrande maggioranza dei partiti, invece, voleva mantenere il sistema
delle erogazioni in danaro, al fine precipuo di conservare gli apparati
che, in quel momento, risultavano complessivamente di grandissima
dimensione.
La
proposta di superamento del sistema di finanziamento pubblico era
quindi da considerarsi assolutamente coerente con una crescita e un
incentivo alla partecipazione politica e non certo di tipo qualunquista.
Qualunquismo
comunque sempre presente, in particolare nella storia della destra
italiana e poi via via alimentatosi con le mancate risposte ai temi che
pur attraverso il referendum si era cercato di sollevare.
Analizziamo allora l’esito referendario ricordando un elemento di valutazione preventivo di grande importanza.
Ci si trovava all’epoca al culmine dell’egemonia del sistema dei partiti nei confronti della società.
L’esito delle elezioni del 20 giugno 1976 aveva rappresentato l’apice del rapporto tra partiti e società in Italia.
I
tre maggiori partiti, DC, PCI, PSI – organizzati nella struttura ad
“integrazione di massa” – avevano raccolto, il 20 giugno 1976,
complessivamente 30.364. 478 voti su 40.426.658 aventi diritto iscritti
nelle liste per una percentuale del 75,11% (i voti validi furono
36.757.658: la percentuale dei tre partiti di massa, in questo caso,
saliva all’82,60%. Si può scrivere davvero di una “organicità” del
sistema di stampo gramsciano).
In
breve tempo questo patrimonio fu disperso dall’impossibilità di
imprimere al sistema una dinamica apprezzabile (imperante la duplice
variante dell’arco costituzionale e della “conventio ad excludendum”
quali fattori di vicendevole elisione).
Due
anni dopo, trascorsi in gran parte all’interno della formula del
“governo delle astensioni” e consumata come già ricordato la tragedia
Moro, l’invito dei grandi partiti a respingere il progetto di abolizione
del finanziamento pubblico che li riguardava direttamente fu raccolto
da 17.663.301 elettrici ed elettori (da tener conto che l’arco della
solidarietà nazionale comprendeva, raccolti attorno al “NO” nel
referendum anche repubblicani e socialdemocratici che, complessiva con
liste separate, avevano ottenuto al 20 giugno 76 2.375.038 suffragi).
Quindi la base di partenza del “NO” teoricamente, rispetto ai dati del
20 giugno 1976, sarebbe stata di 32.739.518 ( sotto questo aspetto al
blocco dei partiti che intendeva sostenere il mantenimento del
finanziamento pubblico mancarono oltre 16 milioni di voti).
Il
SI all’abrogazione ebbe 13.736. 577 consensi. Complessivamente i voti
validi al referendum dell’11 giugno 1978 furono 31.399. 878 con un calo
rispetto alle elezioni politiche di 5.357.780 unità.
Da
notare ancora analizzando l’esito referendario dell’11 giugno 1978 la
differenza nel voto tra il Nord e il Sud, un dato che poi si sarebbe
ripetuto nel tempo fino a suffragare, il 4 marzo 2018, la vittoria dei
rappresentanti autodefinitisi portatori della cosiddetta “antipolitica”.
Il
voto dell’11 giugno 1978, suddiviso per aree geografiche, aveva infatti
visto al Nord il prevalere del NO per il 60,12%, al Centro per il
59,05%. Al Sud e nelle Isole invece era risultato maggioritario il SI
rispettivamente con il 51,65% e il 54,89%.
Ricordando
ancora come all’epoca la caratterizzazione partitica delle indicazioni
elettorali fosse risultata, molto forte (anche se già il referendum sul
divorzio aveva fornito indicazioni contrastanti, in specifico sul
versante cattolico) emersero allora dati ben precisi nel delineare un
quadro di tendenza che non fu analizzato a dovere, per un lungo periodo,
e che pure oggi –a 40 anni di distanza – sta a dimostrare come lo
sviluppo del sistema politico italiano procedesse in una determinata,
precisa, direzione corrispondente in larga misura allo stato delle cose
attualmente in atto.
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