Draghi chiude il rubinetto per l'Italia
Draghi chiude il rubinetto, l’Italia rischia
di Luigi Pandolfi
da Il Manifesto
Alla
fine la tanto attesa decisione è arrivata: la Bce (invero, le banche
centrali nazionali, su mandato della Bce) comprerà titoli di stato dei
paesi dell’eurozona, nell’ambito del programma di Quantitative easing,
fino a dicembre.
Da ottobre scatterà il dimezzamento degli acquisti (da 30 a 15 miliardi mensili), che si azzereranno a partire da gennaio.
Impugnato
nel 2015 per portare l’inflazione della zona euro vicina al 2% (ora è
stimata all’1,7%), il «bazooka» di Draghi ha fatto in questi anni anche
da scudo contro gli assalti della speculazione ai «debiti sovrani». Li
ha protetti, contribuendo a tenere bassi i loro rendimenti.
Per
l’Italia un risparmio sul «servizio del debito» di circa 10 miliardi
all’anno. Per evitare scossoni l’operazione di «spegnimento» lascerà a
0,00 il costo del denaro.
La fine del Quantative easing non
comporterà dunque una rimodulazione della politica monetaria
«convenzionale», così da evitare di aggravare la situazione economica,
peraltro in fase di rallentamento (rivista al ribasso la crescita
dell’eurozona per quest’anno, dal 2,4 al 2,1%).
Allo stesso tempo, Draghi ha chiarito che i proventi dei bond a scadenza, acquistati col Quantitative easing, saranno «a lungo» reinvestiti per assicurare liquidità al sistema.
Tutto a posto? Non si direbbe.
La
crescita rimane debole, anche perché la liquidità immessa nel sistema
non ha raggiunto l’economia reale. Sono mancate politiche fiscali
espansive che accompagnassero gli stimoli monetari e investimenti
pubblici e privati per rilanciare adeguatamente la domanda.
Ma tant’è. Dentro l’attuale governance europea,
la Bce bada solo alla «stabilità dei prezzi» ed al mantenimento del
«valore della moneta», mentre gli Stati, cui compete la politica
fiscale, sono strozzati dalla «regola d’oro» del pareggio di bilancio.
Non solo.
Gli
Stati dell’eurozona hanno anche un altro problema: non hanno difese
immunitarie contro il virus della speculazione. Sono i mercati a
stabilire le condizioni del loro finanziamento, le quali, c’è da
giurarci, cambieranno sensibilmente dopo che Draghi avrà comprato
l’ultimo titolo di Stato sul mercato secondario (dalle banche).
E chi rischia di più in questo quadro è l’Italia, col suo fardello di 2.300 miliardi di euro (131% sul Pil).
In
questi giorni sta circolando una bozza di risoluzione sul Def il cui
approdo a Montecitorio è previsto per il prossimo 19 giugno.
In linea con quanto aveva dichiarato il ministro Tria qualche giorno addietro sul Corriere della Sera,
questo documento conterrebbe un principio di fondo: l’Italia perseguirà
i suoi obiettivi programmatici «nel rispetto degli impegni europei sui
saldi 2018-2019».
Tradotto:
nessuna deviazione dei conti pubblici. Salvo accennare ad un nuovo
quadro di finanza pubblica «in tempi rapidi», che, al momento, rimane un
oggetto misterioso.
C’è
l’impegno a sterilizzare le «clausole di salvaguardia», una manovra da
12,4 miliardi di euro. Dove prenderanno i soldi per non far scattare, a
partire dal prossimo 1° gennaio, l’aumento dell’Iva dal 22% al 24,2%?
C’è chi parla di condoni (la chiamano «pace fiscale») e di, immancabili,
«tagli alle spese», chi di maggiore deficit (ma questo contraddirebbe
l’impegno «sui saldi 2018-2019»).
L’unica
cosa certa è che le grandi promesse della scorsa campagna elettorale,
trasfuse nel «contratto del governo del cambiamento», si stanno
infrangendo contro il muro delle compatibilità di bilancio, che, a
quanto pare, il governo giallo-verde non è intenzionato a mettere
seriamente in discussione.
Intanto, dall’economia i segnali non sono incoraggianti.
Tutti
gli osservatori hanno rivisto al ribasso le previsioni sulla crescita
del nostro paese (per l’Ocse, 1,4% quest’anno, 1,1% nel 2019). Stime che
ben si sposano con gli ultimi dati sul calo della produzione
industriale (-1,9% ad aprile su base annua), sul rallentamento
dell’export (paesi extra-Ue), sulla fiducia delle famiglie.
Quanto incideranno questi dati sulla performance dei conti pubblici? Come si può pensare di mantenere gli «impegni sui saldi 2018-2019» se il Pil, anziché accelerare, arretra?
Domande
che il ministro dell’economia si starà sicuramente facendo in queste
ore, pensando, magari, anche all’impatto che avranno i nuovi rendimenti
dei titoli di Stato sul quadro complessivo delle finanze pubbliche, a
maggior ragione dopo la comunicazione di Draghi sulla fine del Quantitative easing.
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