I dipendenti pubblici sono troppo pochi e a dirlo sono i dati europei

Ce lo direbbe l'Europa, ma anche in questo caso l'Italia preferisce non accogliere l'invito a nuove assunzioni nel pubblico impiego.

E' da poco uscita una ricerca (http://www.bollettinoadapt.it/i-pubblici-dipendenti-sono-troppo-pochi/)
che smonta pezzo su pezzo i luoghi comuni sul presunto numero eccessivo di dipendenti pubblici in Italia.

Lo abbiamo detto in tante occasioni: assunzioni nella pubblica amministrazione per combattere la disoccupazione giovanile, rinnovare la forza lavoro piu' vecchia d'Europa, migliorare i servizi e accrescerli.

Non è vero che le privatizzazioni dei servizi hanno accresciuto la forza lavoro complessivamente impiegata, è anzi ipotizzabile che la esternalizzazione di tante funzioni rappresenti una sorta di alibi per non investire nel pubblico, del resto la perdita di mezzo milione di posti di lavoro in un decennio si accompagna al depotenziamento del welfare e alla riduzione di servizi sanitari, sociali ed educativi.

A tal riguardo riportiamo un passaggio della relazione:

Se nella PA ci fossero i circa 2.500.000 addetti che ci mancano per raggiungere Francia e Regno Unito il nostro tasso di occupazione passerebbe dal 62.3% (il penultimo in Europa) al 69%.
In sostanza: la minore occupazione dell’Italia rispetto ai paesi con cui siamo soliti confrontarci non dipende dalle caratteristiche del mercato del lavoro privato, ma dal sottodimensionamento della produzione di servizi pubblici. Alla luce di questi dati, recuperare il ritardo occupazionale operando sul solo settore privato appare difficilmente praticabile se non utopistico.

 I servizi pubblici sono carenti e oggi del tutto inadeguati, languono  tra carenze di organico, mezzi e risorse troppo esigue. Questa è la realtà, oggi scopriamo che il depotenziamento dei servizi pubblici, l'imposizione di patti di stabilità negli enti locali, il blocco delle assunzioni durato anni non solo hanno impoverito il pubblico ma allo stesso tempo hanno avuto ripercussioni negative sull'economia, un autentico tappo che ne ha impedito la crescita.

Ma la ricerca prima menzionata non affronta il nodo saliente, quello delle regole che impongono tetti di spesa e anche limiti ai piani assunzionali, tuttavia offre spunti interssanti come la proposta di tassare le rendite finanziarie per investirne i proventi nel rilancio della Pa e dei servizi pubblici.

Tra gli obiettivi futuri dei novelli fautori del pubblico, magari gli stessi che hanno favorito le privatizzazioni per un quarto di secolo, c'è anche il sempre verde disegno della riforma della scuola di ogni ordine e grado per limitare l'accesso all'università (troppi laureati in facoltà umanistiche? stando ai dati parrebbe invece di no) e prevedere, fin dalla scuola dell'obbligo, un sistema di accesso alquanto rigido, prima alle superiori e poi agli studi universitari.

Le statistiche europee confermano la tendenza solo italiana ( o della Grecia alla quale hanno imposto decine di migliaia di licenziamenti) a ridurre gli investimenti nel settore pubblico mentre altrove si opera in maniera diametralmente opposta.

Lo richiederebbe allora l'Ue un piano di investimento per il rilancio dei settori pubblici avversato tuttavia dal partito trasversale dell'austerità, quello che ormai ha assoldato anche i sindacati complici. Ma senza assunzioni in misura assai maggiore da quanto previsto dalle regole attuali non sarà possibile rilanciare, rinnovare e potenziare i servizi pubblici. E' questa una priorità , una richiesta da fare nostra per favorire formazione, investimenti e occupazione

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