Solo scherno e beffe ai danni dei precari



Sminuire ed eludere le problematiche del precariato e, davanti all’evidenza dei fatti, dare dei comunisti ai contestatori.



Eludere i problemi, marginalizzarli o ridimensionarli è ormai una prassi politica consolidata, trasversale a tutti gli schieramenti politici. Da lustri il precariato nella Pubblica amministrazione e in particolare nelle Scuole e nelle Università rappresenta una realtà incontrovertibile. La precarizzazione è così sistematica da essere annoverata tra le cause principali della fuga all’estero delle ricercatrici e dei ricercatori.
Le procedure di reclutamento messe in campo negli anni si sono rivelate del tutto inadeguate, tanto che il numero degli esclusi resta largamente preponderante.

Nell’ambito delle Assemblee Precarie Universitarie (luogo di confronto e auto-organizzazione del lavoro precario universitario) si racconta come numerose aziende private, comprese quelle del settore bellico, siano costantemente a caccia di “cervelli”. In scenari così desolanti, le loro ricerche non saranno certo infruttuose, ma il prezzo da pagare sarà altissimo: si determinerà la dispersione di saperi costruiti con investimenti pubblici, alterando le finalità stesse della ricerca. Senza contare la devastazione prodotta nell’impiego sul campo, le atroci sofferenze, le morti.

Che il PNRR avrebbe prodotto debito a lungo termine e nuova precarietà era evidente già osservando gli organici e le professionalità presenti negli Enti locali. Le apposite norme di stabilizzazione - che, invece, non sono state estese alle Università - non hanno evitato che il personale di Comuni, Province e città metropolitane restasse sottodimensionato rispetto ai bisogni reali. Nelle Università l’ipodosaggio è ancora più lampante.

Ora, prima di applaudire la Manovra di bilancio 2026, sarebbe dunque opportuno guardare ai numeri reali.

Le occasioni per toccare con mano il fenomeno del precariato non sono mancate. Eppure, puntualmente, i Ministri hanno scelto di buttare tutto in rissa: dalla Bernini che accusa gli studenti di medicina di essere “poveri comunisti”, fino a commenti e reazioni mediatiche che hanno finito per banalizzare il tema, anziché affrontarne la portata reale.

Non è un caso, del resto, che anche nel mondo dell’informazione il ricorso a forme di lavoro precario sia ampiamente diffuso. Una parte consistente del lavoro giornalistico è oggi svolta da collaboratori a partita IVA o con rapporti discontinui, spesso al di fuori di tutele piene, mentre il contratto nazionale di settore risulta scaduto da oltre dieci anni. Questa condizione contribuisce a rendere il tema del precariato meno centrale nel dibattito pubblico, persino quando riguarda categorie che ne sono direttamente interessate.

Nel frattempo, solo poche centinaia di precari della ricerca legata al PNRR avranno la possibilità di essere confermati grazie alle risorse stanziate dalla Legge di Bilancio. La Conferenza dei Rettori (CRUI) farebbe bene a prendere atto di questa realtà, disponendo - a differenza di altri - dei numeri necessari per una valutazione onesta.

E nessuno venga a raccontare che “da qualche parte bisogna pur partire”: sono le stesse motivazioni addotte in passato per i precari della Pubblica amministrazione, rimasti poi in gran parte esclusi dalle stabilizzazioni promesse.

Cinquanta milioni di euro in due anni, tra Fondo di finanziamento ordinario (FFO) e Fondo ordinario per gli enti e le istituzioni di ricerca (FOE), rappresentano una goccia nel mare. Ci si nasconderà, come sempre, dietro i soliti paraventi, ad esempio la riserva del 50% dei posti ai ricercatori impiegati nei progetti PNRR. Ma la deroga alle facoltà assunzionali degli Enti non è mai arrivata: di conseguenza, non esistono reali possibilità di aumentare gli organici proprio dove carenze e fabbisogni di personale sarebbero più evidenti.

Secondo i dati del Ministero, i ricercatori coinvolti, tra PNRR e non, sarebbero oltre settemila; le Assemblee precarie forniscono cifre ancora più elevate. Le assunzioni previste con gli stanziamenti della Legge di Bilancio saranno meno della metà di quelle paventate dal Ministero e, secondo la CGIL, non supereranno le 1.600 unità in due anni.

Eppure sarebbe stato sufficiente non destinare due milioni di euro agli atenei privati per reperire altre risorse da investire per le assunzioni.

Di certo, senza la rimozione sui tetti vigenti per la spesa in personale ogni maggior risultato sarà illusorio.

Le scelte del Governo appaiono invece chiarissime: accontentare il privato - è davvero utopistico immaginare un futuro dominato dalle Università telematiche? - a discapito del pubblico, e ironizzare sui contestatori con cori da stadio come “chi non salta comunista è”.

I numeri, però, non sono ignoti. I ricercatori precari, PNRR e non, non costituiscono più una minoranza marginale negli organici universitari ormai ridotti all’osso. Pensare che gli Atenei possano farsi carico di metà della spesa, rappresenta l’ennesima beffa: non solo ai danni del precariato, ma dell’intero sistema di istruzione e ricerca pubblica.

A CURA DELLA CUB

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