Oltre il manicomio: modelli di cura e responsabilità collettiva

 

Oltre il manicomio: modelli di cura e responsabilità collettiva. La cura dopo Basaglia: territorio, comunità e relazione terapeutica. 

di Laura Tussi


«La follia è una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia, invece incarica una scienza, la psichiatria, di tradurre la follia in malattia allo scopo di eliminarla. Il manicomio ha qui la sua ragion d’essere».

Le parole di Franco Basaglia conservano ancora oggi una forza dirompente. Non sono solo una denuncia storica del manicomio come istituzione totale, ma un monito attuale contro ogni forma di riduzione della sofferenza psichica a problema da contenere, normalizzare o rimuovere. Basaglia ci ricorda che la follia non è un’anomalia esterna alla società, ma una dimensione intrinsecamente umana, che interpella il modo stesso in cui una comunità si pensa come civile.

È in questo orizzonte che va collocata la legge 180 del 13 maggio 1978, nota come legge Basaglia, una delle riforme più radicali e innovative della storia repubblicana. La legge impose la chiusura dei manicomi, regolamentò gli accertamenti e i trattamenti sanitari volontari e obbligatori e istituì i servizi pubblici di igiene mentale, segnando una svolta epocale nel rapporto tra psichiatria, diritti e società. Successivamente, essa confluì nella legge 833 del 23 dicembre 1978, che istituì il Servizio Sanitario Nazionale, inserendo la salute mentale a pieno titolo nel sistema pubblico di tutela della salute.

La riforma non fu soltanto un intervento normativo, ma una rivoluzione culturale e medica, fondata su concezioni più umane della cura psichiatrica, elaborate e sperimentate da Basaglia e dal movimento di critica all’istituzione manicomiale. Prima di allora, i manicomi erano luoghi di mera contenzione fisica e sociale, nei quali si applicavano pratiche coercitive, terapie farmacologiche pesanti e invasive e, in molti casi, la terapia elettroconvulsivante, tuttora utilizzata in situazioni cliniche specifiche ma allora spesso impiegata in modo indiscriminato.

Le intenzioni della legge 180 erano chiare: ridurre il ricorso alla coercizione, limitare l’uso massiccio dei farmaci, sostituire il controllo con la relazione, il contenimento con il riconoscimento della persona. Al centro vi era l’affermazione dei diritti dei pazienti, della loro dignità e della necessità di una vita di qualità, resa possibile da servizi territoriali, ambulatori, comunità e reti di sostegno capaci di accompagnare la sofferenza psichica senza espellerla dal corpo sociale.

In questo quadro, le discipline psicologiche e psichiatriche si fondano su modelli teorici complessi, che tengono insieme lo sviluppo della personalità, le dinamiche familiari, le relazioni affettive, le fluttuanti delimitazioni tra normalità e patologia. I disturbi mentali non possono essere spiegati esclusivamente in termini biologici, ma vanno compresi come il risultato di fattori psicologici, sociali e culturali, intrecciati in modo dinamico e spesso conflittuale.

Politiche e servizi per la salute mentale nella visione di Franco Basaglia. Il complesso lavoro dell’analisi di gruppo

È da questa eredità basagliana, ancora largamente incompiuta, che prende avvio la riflessione sulle politiche per la salute mentale e sugli strumenti terapeutici capaci di restituire senso, parola e relazione alla sofferenza psichica. Tra questi, l’analisi di gruppo rappresenta uno dei dispositivi più significativi, perché consente di affrontare il disagio non come esperienza isolata, ma come processo che si costruisce e si trasforma nello spazio condiviso delle relazioni.

Il tema della salute mentale ha assunto un rilievo crescente negli ultimi decenni non solo per l’aumento del disagio psichico nelle società contemporanee, ma soprattutto per il profondo mutamento di paradigma introdotto dalla riforma psichiatrica italiana. La legge 180 del 13 maggio 1978 ha rappresentato uno spartiacque storico, segnando il passaggio da una psichiatria fondata sulla segregazione a un modello centrato sulla persona, sui diritti e sull’inclusione nel tessuto sociale. La chiusura dei manicomi e l’istituzione dei servizi territoriali non furono semplici misure organizzative, ma l’espressione concreta di una diversa concezione della cura e della cittadinanza.

In una società in cui la salute mentale resta spesso oggetto di stigma e rimozione, la riforma basagliana ha imposto una domanda ancora aperta: come prendersi cura della sofferenza psichica senza ridurla a devianza da correggere o a malattia da isolare? La centralità della persona, affermata dalla legge, ha avviato una revisione profonda della pratica psichiatrica, ma ha anche messo in luce le difficoltà di una trasformazione che richiede risorse, formazione e un cambiamento culturale diffuso.

Il pensiero di Franco Basaglia ha contribuito in modo decisivo a questo passaggio, rifiutando la visione della follia come alterità radicale e rivendicandone la dimensione umana e relazionale. La sofferenza psichica non viene più letta esclusivamente come patologia individuale, ma come espressione di conflitti interiori e sociali, di storie personali intrecciate a contesti familiari, culturali ed economici. In questa prospettiva, la psichiatria non è chiamata a normalizzare, ma a comprendere, accompagnare e restituire parola e dignità.

L’istituzione dei servizi psichiatrici territoriali ha rappresentato uno dei pilastri di questo nuovo approccio. La cura viene collocata nei luoghi della vita quotidiana, attraverso ambulatori, centri di salute mentale e strutture comunitarie, con l’obiettivo di evitare la segregazione e favorire percorsi di riabilitazione fondati sulle relazioni e sul sostegno sociale. Tuttavia, la piena attuazione di questo modello resta disomogenea: carenze strutturali, scarsità di fondi e fragilità delle reti territoriali continuano a limitare l’efficacia degli interventi, soprattutto nei casi di sofferenza più grave.

La riflessione psichiatrica contemporanea ha inoltre mostrato come le categorie diagnostiche non possano essere considerate neutrali o definitive. Le classificazioni dei disturbi mentali, pur utili sul piano clinico, sono influenzate da contesti storici e culturali. L’esclusione dell’omosessualità dalle diagnosi psichiatriche negli anni Settanta ne è un esempio emblematico, che evidenzia il legame tra norme sociali, definizioni di normalità e pratiche terapeutiche. La salute mentale si configura così come un campo attraversato da variabili biologiche, psicologiche e sociali, inseparabili tra loro.

Fattori come la precarietà lavorativa, la disoccupazione, le perdite affettive, il trauma e l’isolamento sociale incidono profondamente sull’equilibrio psichico. Numerosi studi hanno dimostrato come tali condizioni possano favorire l’insorgenza e l’aggravarsi di disturbi depressivi e psicotici, confermando la necessità di un approccio che non separi l’individuo dal suo contesto di vita.

In questo scenario, la salute mentale resta una delle grandi sfide delle politiche pubbliche. Nonostante i progressi compiuti, il rischio di nuove forme di istituzionalizzazione e di marginalizzazione non è del tutto superato. Molti pazienti continuano a sperimentare una solitudine terapeutica che rende fragile ogni percorso di cura. Accanto ai progressi farmacologici e alle nuove acquisizioni della neuropsichiatria, rimane centrale la qualità della relazione, il rispetto della dignità della persona e la costruzione di spazi terapeutici realmente inclusivi.

È in questo quadro che l’analisi di gruppo si propone come uno strumento particolarmente significativo, capace di coniugare dimensione clinica e dimensione sociale. Attraverso il lavoro collettivo, la sofferenza individuale trova un luogo di ascolto e di rielaborazione condivisa, restituendo al soggetto la possibilità di riconoscersi non più come oggetto di cura, ma come parte attiva di un processo relazionale e trasformativo.

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