Baghdad e la conoscenza Piccolo dono natalizio benaugurante
Baghdad e la conoscenza
Piccolo dono natalizio benaugurante
di Rodrigo
Rivas
Provate ad immaginarvi di essere nell'Europa del
IX secolo.
Ci troviamo in pieno Medioevo ed è buio
anche a mezzogiorno. Tuttavia, proprio allora a Baghdad, remota città a noi
nota perché pare che gli abitanti si spostino in tappeti volanti, il califfo
al-Maʾmūn ha fondato la Casa della Sapienza.
Purtroppo, abbiamo dovuto aspettare fino al XVIII secolo per leggerle in Europa e,
dalla mano della bellissima Sherazade, imbatterci in pellegrini trasformati in maiali, navigare con Sinbad il marinaio, restare a bocca aperta coi Aladino e la sua lampada meravigliosa, tremare col sultano Shariyãr e tante altre storie, pur se non arrivano a 1.001 come le notti trascorse da Sherazade rischiando la testa, mentre il boia è la sua scura aspettavano impazienti.
Frequentando i monaci abbiamo saputo che il califfo al-Maʾmūn è nipote di un altro personaggio mitico, Muḥammad ibn ʿAbd Allāh, detto al-Mahdī, che governò dal 775 al 785 la Umma, la comunità globale dei fedeli musulmani, "la nazione" senza confini etnici o geografici unita dalla fede.
Per la buia Europa la “Bayt al-Ḥikma” fu una luce che rischiarò il mondo. Formalmente era una biblioteca, ma era anche un'università, un laboratorio, un osservatorio astronomico, un ospedale cui avevano libero e gratuito accesso tutti i malati, di ogni sesso ed etnia ..., insomma un luogo dedito alla cura complessiva del corpo, del sapere e dell’anima dove greci, persiani, siriaci, ebrei, indiani e cristiani nestoriani convivevano cercando di scalare la torre di Babel per ritrovare la verità attraverso il linguaggio universale della conoscenza.
La Bayt al-Ḥikma custodiva manoscritti provenienti da Alessandria, Costantinopoli, Taxila (oggi nel Punjab pakistano) ed Atene, facendo dialogare testi di Aristotele, d'Ippocrate, di Euclide e di Tolomeo con la matematica indiana e la filosofia neoplatonica.
Vi nacque una stramba idea: la sapienza non è un possesso bensì un ponte.
Baghdad, crocevia tra l'Oriente e l'Occidente, ne divenne la capitale spirituale.
La Bayt al-Ḥikma durò oltre tre secoli.
Il 10 febbraio 1258, le truppe mongole di Ulagu Khan rasero al suolo la “Città della Pace”.
Il sacco di Baghdad durò 7 giorni.
Secondo le fonti occidentali, ci furono 800.000 morti. Secondo quelle arabi, 2 milioni.
È stato l'evento più catastrofico della storia dell'Islam.
Cancellò 500 anni di storia ed ipotecò l'avvenire della vecchia mezzaluna fertile poiché, distruggendo il millenario sistema di canalizzazione ed irrigazione fondamentale per la sua prosperità naturale ed economica, la progressiva salinizzazione del suolo provocò l'attuale aspetto desertico della vecchia Mesopotamia.
Da nazisti ante litteram, i Mongoli gettarono i volumi della Casa della Sapienza nel fiume Tigri.
Un mio amico curdo iracheno, poeta nei momenti liberi, mi ha raccontato che il fiume diventò nero per l’inchiostro dei libri. Annegando, mi disse, la conoscenza ha tinto di sé, della sua linfa, l’acqua e la memoria.
Il suo racconto mi riportò ad altre storie sullo spirito del fiume ascoltate a Delhi, nei Ghat, gli scalini di pietra proiettati sul Gange, e sulla poesia dell'acqua, ascoltate a Lima osservando il Rimac, "il fiume che parla", "il loquace" nella lingua quechua.
Nel giugno del 1975, dal balcone della mia stanza nel Hotel Ambassador, ho osservato per un paio di settimane il fiume Tigri alla ricerca infruttuosa del colore dell'inchiostro.
Non l'ho trovato, secondo un amica traduttore perché guardavo solo con gli occhi, non con l'anima.
La domanda sul come si faccia a vedere con l'anima mi ha inseguito a lungo ma non ho mai trovato la risposta. Tuttavia, osservando il fiume Tigri, allora costeggiato sulle due sponde da maestose palme, vidi ogni sera le acque diventare rosse mentre il sole si ritirava per andare a letto.
Il motivo del colorito mi era chiaro ma, come canta Guccini, a una certa età si ha in mente un sacco di balle.
Quindi, mi piaceva pensare che quel rosso fosse frutto delle tante rivoluzioni asiatiche, le quali avevano materializzato il sogno dei libri scambiando, per motivi propagandistici, l'inchiostro nero con quello rosso. Come recitava un vecchio slogan cinese, "L'Oriente è rosso".
Robe da ragazzo, forse fantasioso e di certo ignorante.
Nelle mie chiacchere con vecchi militanti del Baath non ottenni che qualcuno mi facesse vedere un tappeto volante ma, mentre guardavo le ricostruite porte azzurre di Babilonia e il vecchio leone di pietra con la testa dinamitata dagli inglesi che continuava a curarne fieramente l'ingresso, un vecchio insegnante mi raccontò che nei corridoi della Bayt al-Ḥikma il matematico Muḥammad ibn Mūsā al-Khwārizmī aveva gettato le fondamenta dell’al-jabr, e cioè dell’algebra, e definito l'algoritmo, parola inventata allora a partire dal suo nome latinizzato, Algoritmi.
Da anni non pensavo ai colori del fiume Tigri poiché lo immagino malandato e triste dopo tante guerre. Ma trovo ironicamente simbolico che la nostra età digitale, fondata su algoritmi generatori di potenza e di dominio, prenda il nome da un uomo di Baghdad, figlio di quella civiltà che sognava di armonizzare le leggi del cielo e quelle della ragione poiché credeva che la conoscenza poteva e doveva essere l'architettura propria dell’universo.
La dinastia Abbaside aveva fatto della sua capitale un centro ambivalente della meccanica meravigliosa e dell'arte simbolica.
Nelle “Mille e una notte” si racconta che nei loro palazzi gli alberi erano d’oro ed i frutti di gemme e sia gli uni che le altre erano mossi da congegni idraulici ed ingegni nascosti che imitavano il battito della vita.
Erano invenzioni curiose, metà poesia e metà tecnica. Traducevano in materia il desiderio di dominare la forma mediante l’intelligenza. Erano possibili perché la ricchezza non era solo un orpello da esibire ma, anche, uno strumento della rivelazione, una chiave per avvicinarsi al divino.
Eppure, incredibile ma vero, una ventina d'anni fa uno zoticone, un "tardo idioticus" direbbero i greci, tale George Bush, rivelò al mondo che da quelle parti non esistevano segnali di intelligenza o di conoscenza.
Il commento è scontato:
W l'Ignoranza. Ci avvicina alla Guerra, vive dalla Guerra.
Parola da somaro.
Mi piace ricordare la Casa della Sapienza in questo tempo fragile, per restituire a Baghdad la sua dimensione più profonda: essere simultaneamente la città dei conflitti e il luogo originario della mente e dello spirito, il piccolo rione del mondo dove nacque l'idea che la conoscenza possa anche unire, non solo dividere. Considero paradossale che una corrente di pensiero che, oltre mille anni fa plasmò la scienza moderna partendo dalle sponde del Tigri, possa alimentare oggi il potere e la guerra.
Nell'antica Baghdad si sapeva che il sapere non è mai neutro, che può illuminare o distruggere, curare o maltrattare.
E perché, secondo me, l’inchiostro disperso nel Tigri è rimasto nell'acqua e le acque non smettono di viaggiare, pur malconcia una civiltà può sempre rinascere.
A ciò possono servire la conoscenza, la pace e
la bellezza.
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